Capacità edificatoria e richiesta d’indennizzo: l’art. 39 D.P.R. 327/2001

Nell’ambito di una vicenda inerente alla capacità edificatoria di un terreno, la Cassazione con ordinanza n. 4585 del 2024, ha esaminato l’applicazione dell’art. 39 del D.P.R. 327/2001 e la relativa richiesta di indennizzo. Nel caso di specie, l’ente comunale sostenuto l’assenza di vincoli espropriativi. La Corte d’Appello territoriale ha richiamato una sentenza della Corte di Cassazione sul fatto che i vincoli imposti nel piano servizi del 1980 non comportavano il diritto a ricevere l’indennizzo. La Suprema Corte ha considerato i vincoli urbanistici precedenti e successivi, concludendo che la società proprietaria avrebbe potuto agire con gli strumenti a sua protezione durante il “vuoto urbanistico”.

Corte di Cassazione- sez. I – Ord. n. 4585 del 21-02-2024

La questione

In una controversia riguardante la capacità edificatoria di un terreno, si è discusso sull’applicabilità dell’art. 39 del D.P.R. 327/2001 e la conseguente richiesta di indennizzo. L’ente comunale ha contestato tale richiesta sostenendo l’assenza di vincoli espropriativi. La Corte d’Appello, dopo una valutazione tecnica, ha respinto le richieste, richiamando una precedente sentenza della Corte di Cassazione nella quale è stato stabilito che i vincoli imposti nel piano servizi del 1980  non danno diritto all’indennizzo.
Infatti, la Corte d’appello ha constatato l’esistenza di un giudicato riguardante i vincoli urbanistici tra il 1964 e il 1993, coprendo quindi le questioni sollevate in quel periodo. Pertanto, il focus della discussione è stato incentrato sui vincoli urbanistici successivi, considerando che il DPR n. 327 del 2001 (Testo Unico sull’Edilizia) si applica solo dal 30 giugno 2003. La Corte d’appello ha osservato che le due proposte di modifica al piano regolatore tra il 1993 e il 1997 non hanno ricevuto approvazione e la società proprietaria non ha dimostrato alcun danno per quel periodo. Per il periodo successivo (1997-2007), la Corte ha notato che, con la scadenza dei vincoli, si è verificato un vuoto urbanistico temporaneo, contro il quale il privato poteva agire tramite la procedura di messa in mora. Inoltre, la Corte ha rilevato che solo nel 2004 la società ha presentato un piano di lottizzazione in linea con la convenzione, presumendo che i vincoli precedenti fossero decaduti. La commissione edilizia ha respinto la proposta con un parere negativo, e nel 2007 è stato adottato un nuovo piano urbanistico che ha definito l’intero compendio come area agricola. In seguito, nel 2017, è stata introdotta una variante  che ha confermato tale destinazione, vista dalla Corte come un vincolo di conformità all’interno della pianificazione urbanistica generale.
La società ha presentato ricorso per Cassazione.

I motivi di ricorso

Il primo motivo del ricorso ha sollevato l’omessa valutazione di alcune circostanze decisive e la presunta violazione del giudicato. La società ricorrente ha argomentato che la sentenza impugnata ha erroneamente respinto l’esistenza di vincoli sostanziali espropriativi e il diritto all’indennizzo, trascurando di considerare degli eventi importanti nella valutazione complessiva della vicenda. Nonostante la decisione già emessa riguardante il periodo precedente al 1993, si è sostenuto  che la situazione del terreno in questione sia rimasta sostanzialmente invariata nel tempo, con vincoli e impedimenti simili.  Di conseguenza, la società avrebbe dovuto ricevere il diritto all’indennizzo anche in considerazione degli eventi successivi. In particolare, si è evidenziato la presenza di un vincolo sostanzialmente espropriativo introdotto dal Piano dei Servizi del 1980, il quale ha limitato la destinazione del terreno a servizi anziché a edilizia residenziale. Nonostante la scadenza di tale vincolo nel 1993, è stato contestato il fatto che la sentenza non avesse tenuto conto delle successive modifiche urbanistiche.
Infine, la parte ricorrente ha evidenziato che la sentenza non avesse preso in considerazione le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio riguardanti il diniego di approvazione del Piano dei Servizi da parte della Regione Lombardia e la successiva conoscenza di tale provvedimento tramite un giudizio presso il TAR.
Con il secondo motivo del ricorso, il ricorrente ha contestato la violazione  delle norme costituzionali e sovranazionali in materia di tutela della proprietà privata e dell’iniziativa economica, e del conseguente indennizzo. La parte ricorrente ha sostenuto il fatto che nonostante l’art. 39 del DPR 327/2001 sia entrato in vigore solo dal giugno 2003, siffatta considerazione, non potesse giustificare l’assenza di un obbligo di indennizzo per i periodi antecedenti.
Inoltre, il ricorrente ha evidenziato che  già prima dell’entrata in vigore dell’art. 39, esisteva un obbligo di indennizzo secondo le normative nazionali e internazionali.

Le argomentazioni della Corte

I giudici hanno ritenuto il primo motivo del ricorso infondato in quanto la Corte d’Appello ha correttamente riconosciuto l’esistenza di un giudicato sulle questioni precedenti al 1993, stabilendo non solo la natura dei vincoli imposti, ma anche il diritto del privato a ottenere un indennizzo. La Corte di Cassazione, già nella prima sentenza relativa al caso (cfr. Cass. sent. n. 13778/2002), ha chiarito che solo il mancato rilascio ingiustificato della concessione edilizia avrebbe potuto dare luogo al diritto del privato a un risarcimento dei danni. Questo principio è stato confermato anche nella successiva sentenza di legittimità, che ha respinto la richiesta di attribuire responsabilità alla pubblica amministrazione senza la presentazione e il rifiuto di una specifica richiesta di concessione, evitando così una revisione inammissibile di un principio precedentemente stabilito. Inoltre, nella sentenza successiva della Corte (cfr. sent.n. 1754/2007), è stato affermato un principio giuridico vincolante, secondo cui il diritto all’indennizzo non deriva dall’imposizione originaria del vincolo di inedificabilità né dalla sua persistenza oltre la decadenza, ma piuttosto dall’atto esplicito che lo reintroduce.
I giudici hanno ritenuto che l’esame  delle circostanze successive non poteva essere basato solo sulla prospettiva della parte ricorrente, poiché ciò  avrebbe potuto violare la verità processuale già stabilita e il giudicato civile e amministrativo favorevole all’azione della pubblica amministrazione.  Pertanto, i giudici hanno affermato che la Corte di Cassazione è competente al solo controllo della correttezza logica e giuridica del ragionamento del giudice di merito.
La Corte ha poi analizzato la situazione evidenziando periodi in cui il terreno era soggetto a vincoli espropriativi, pur non avendo la parte ricorrente dimostrato l’esistenza dei danni durante tale arco temporale. Inoltre, è stato rilevato un “vuoto urbanistico” in cui la parte non aveva agito adeguatamente utilizzando gli strumenti messi a  disposizione dall’ordinamento.
Va, infatti, ricordato che il vuoto urbanistico non equivale alla compressione del diritto di proprietà causata dai vincoli pre-espropriativi, né costituisce un’espropriazione di valore, data la natura temporanea del regime urbanistico di salvaguardia. Tuttavia, la società aveva il diritto di agire con azioni sostitutive o utilizzare la procedura di messa in mora per far valere i propri diritti. Solo in caso di inattività persistente della Pubblica Amministrazione poteva configurarsi un pregiudizio al diritto della società proprietaria alla certezza sull’utilizzo della proprietà, con conseguente diritto al risarcimento del danno, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità.
La Suprema corte ha dichiarato il secondo motivo inammissibile per due ragioni. In primo luogo, ha rilevato la mancanza di un’analisi adeguata della motivazione sottesa alla decisione della Corte territoriale. Infatti, non è stata stabilita una regola generale riguardante l’indennizzo dei danni derivanti da vincoli ripetuti prima dell’entrata in vigore del testo unico sull’espropriazione. Piuttosto, è stata valutata la mancanza di pregiudizio e di risposte idonee da parte della società proprietaria rispetto alla persistente incertezza nella situazione specifica. In secondo luogo, il ricorrente ha cercato di proporre un’interpretazione alternativa dei fatti rispetto a quella adottata dalla sentenza impugnata, tentando di dimostrare un comportamento illegittimo generale dell’amministrazione. Tuttavia, tale questione rientra nella sfera del giudizio di fatto e non di legittimità. Infatti, la questione relativa alla proposta di lottizzazione del 2004 è stata già esaminata dalla Corte di merito, la quale ha considerato il parere negativo ricevuto dalla commissione edilizia e le difficoltà nell’attuazione del piano.

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