La natura (necessariamente) contrattuale della responsabilità del medico specialista privato

La responsabilità professionale dovrebbe, proverbialmente, essere come il Gatto del Cheshire, al di sopra delle parti, né a favore del soggetto responsabile né, tantomeno, di quello asseritamente danneggiato.

All’esito dell’imponente (perlomeno, mediaticamente) processo riformatore del comparto relativo all’attività medico-sanitaria, pare senz’altro opportuno tentare di intraprendere e ultimare un’opera di sistematizzazione dei nuovi, singoli, confini “qualificativi” della responsabilità medica, assumendo, quale partenza necessitata, la natura certamente contrattuale di quella gravante sulla struttura ospedaliera e, parimenti, quella extracontrattuale del personale sanitario ivi esercente, per saggiare, da ultimo, l’effettiva portata dell’intervento legislativo e, di riflesso, la sua effettiva neutralità.

1. Il sistema della responsabilità medica: breve panoramica della sua evoluzione.

Nel panorama della responsabilità civile da attività sanitaria, centralità è da attribuire all’anno 1999, che rappresenta la prima netta cesura nei paradigmi ricostruttivi: fino ad allora, i danni subiti a causa di errate prestazioni venivano indistintamente ricondotti al modello aquiliano, ex art. 2043 c.c., tanto con riferimento alla struttura sanitaria, quanto al personale medico.

La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, di fine gennaio 1999[1], segna un brusco revirement qualificatorio, sancendo la contrattualità della responsabilità del medico ospedaliero, al pari di quella dell’ente gestore del servizio ospedaliero.

La Corte di legittimità ritenne, di fatto, applicabile, all’attività medico-sanitaria, la teoria del c.d. contatto sociale qualificato, introducendo, nel panorama ordinamentale, una gestione nuova delle controversie risarcitorie, drasticamente più prossima e accogliente delle doglianze del paziente/danneggiato (e, naturalmente, più gravosa tanto per il professionista sanitario, quanto per la struttura)[2].

Tra le due simmetriche collocazioni, s’è posta, più recentemente, la Cassazione, con due pronunce[3], che hanno inaugurato la tendenza a sdoppiare il regime della responsabilità: ravvisando tra paziente e struttura sanitaria, pubblica o privata, la sussistenza di un contratto atipico (c.d. contratto di spedalità), eventualmente concluso anche solo per fatti concludenti (con l’accettazione presso la struttura), le Sezioni Unite hanno confermato la responsabilità contrattuale in capo a quest’ultima; nei confronti del medico, viceversa, pur non innovando rispetto alle precedenti statuizioni, hanno veicolato la contrattualità del risarcimento, incentrandola sul c.d. contatto sociale (qualificato). Natura fondamentalmente simile, derivante da concettualità diverse[4].

Il c.d. doppio binario è stato, poi, compiutamente, seppur tra alcune, marcate, perplessità interpretative[5], perfezionato con la Legge Balduzzi, che ha richiamato, perlomeno formalmente, il modello aquiliano in riferimento alla responsabilità del professionista sanitario dipendente.

2. La nuova responsabilità civile del medico ai sensi della legge Gelli-Bianco.

La Legge Gelli – Bianco nasce, in conseguenza dell’excursus descritto, con l’intento chiarificatore circa la portata del richiamo all’art. 2043 c.c. introdotto con la riforma Balduzzi.

Pare opportuno, quindi, in via del tutto preliminare, rassegnare brevemente la fisiognomica della responsabilità medica, all’esito del processo riformatore implementato dalla legge 8 marzo 2017, n. 24.

Ai fini che qui interessano, l’art. 7, rubricato “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”, è perentorio nel qualificare come contrattuale la responsabilità della “struttura sanitaria o sociosanitaria” che, a prescindere dalla natura pubblica o privata, “nell’adempimento della propria obbligazione” assunta nei confronti del paziente, scelga di avvalersi “dell’opera di esercenti la professione sanitaria”, anche ove questi ultimi siano stati “scelti  dal  paziente” o non siano “dipendenti della struttura stessa”, per le condotte “dolose o colpose” poste in essere da questi ultimi.

Su di un piano più strettamente pragmatico – operativo, ne consegue il richiamo puntuale agli artt. 1218 e 1228 c.c.

La qualificazione ex lege pare essere necessitata, tenendo in debita considerazione, su di un piano più strettamente operativo-pragmatico, che la struttura sanitaria, essendo fattivamente il soggetto economicamente più solido a interfacciarsi con il paziente, possa realisticamente assicurare un risarcimento più certo e, al contempo, più celere al soggetto danneggiato, che preferirà indirizzare le proprie istanze risarcitorie contro la struttura o direttamente contro la sua assicurazione, avvalendosi della facoltà testualmente prevista dall’art. 12 della legge n. 24/2017[6].

Il secondo comma della disposizione codicistica de qua compie, fondamentalmente, un’espressa opera di estensione analogica, sancendo che il dettame esplicitato nel primo (e, quindi, la natura contrattuale della responsabilità) debba intendersi applicabile anche a tutte quelle prestazioni sanitarie,  “svolte in regime di libera professione intramuraria[7]”, ovvero “nell’ambito di attività di sperimentazione e  di ricerca clinica”, o, da ultimo, “in  regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, nonché attraverso la telemedicina”.

Alla natura puramente contrattuale della struttura sanitaria per l’operato dei propri professionisti sanitari si contrappone, con una netta cesura, la disposizione del successivo terzo comma, in virtù della quale, l’esercente la professione medica, da intendersi circoscritta alle forme e modalità rassegnate nei precedenti capoversi, debba rispondere del “proprio operato”, ai sensi di quanto puntualmente disposto dall’art. 2043 c.c., a meno che non “abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”.

L’intento del legislatore può, dunque, giustamente, ritenersi del tutto coincidente con la necessità, avvertita da più parti, di marcare con un limite formale e certo quella contrattualizzazione della responsabilità sanitaria[8], avviata, come precedentemente attenzionato con la sentenza del 1999, e foriera:

  • da un lato, dell’indubbio merito di aver consentito il fattivo superamento della configurazione di un onere probatorio insostenibile per il paziente (ovverosia, la prova, in giudizio, del fatto illecito), ai fini del positivo accoglimento della domanda risarcitoria;
  • dall’altro, portatrice attiva di criticità rilevanti, conseguenti al deciso ampliamento delle possibilità di ottenere tutela, tanto per le strutture sanitarie, quanto per i professionisti, maggiormente esposti a pretese di risarcimento, più facilmente accoglibili[9] (v. infra).

La riqualificazione dell’onere probatorio in capo al paziente, conseguente al definitivo abbandono del modello contrattuale da contatto sociale qualificato in favore dell’archetipo extracontrattuale, pare non poter essere tacciata di ridurre, colpevolmente, la tutela, perlomeno su di un piano astratto, riservata allo stesso danneggiato, dal momento che l’alleggerimento della posizione sostanziale e processuale del professionista sanitario è ben compensato, in linea teorica, dalla permanenza della contrattualità nel rapporto con la struttura, dai diffusi obblighi assicurativi, nonché, da ultimo, dalla già evidenziata possibilità di agire direttamente contro l’assicurazione[10].

L’architettura sistematica delineata dalla Legge Gelli – Bianco parrebbe ben strutturata e bilanciata, con un sensibile restringimento di quelle criticità evidenziate rispetto alla precedente riforma Balduzzi e al richiamo al modello aquiliano, contenutisticamente difficile da apprezzare e riempire.

Dalla letteralità della normativa puntualmente rassegnata, sembrerebbe, prima facie, che, in conseguenza del più recente intervento legislativo, i margini per sussumere la responsabilità del professionista sanitario all’interno dell’archetipo contrattuale, ex art. 1218 c.c., siano fondamentalmente coincidenti con quelle situazioni, invero residuali, nelle quali il medico operi in qualità di libero professionista, ai sensi dell’art. 2230 c.c.

In definitiva, la libera professione pare, quindi, rappresentare, motivatamente, l’unico ambito in cui, lungi da una collocazione della responsabilità medica lontana dalla disciplina dell’inadempimento e, consequenzialmente, dagli orizzonti del paziente danneggiato[11], si possano ragionevolmente considerare superstiti e pienamente operativi l’intuitus personae e il contatto sociale c.d. qualificato, ovverosia gli elementi presuntivi della natura contrattuale del rapporto medicopaziente anche in costanza dell’inesistenza formale di un contratto. E non pare possa essere altrimenti.

3. L’intuitus personae e il contatto sociale c.d. qualificato dopo la riforma.

La natura necessariamente contrattuale della responsabilità del medico specialista privato (rectius, libero professionista), lungi dal poter rappresentare elemento su cui inanellare dubbi di legittimità costituzionale (per una disparità di trattamento e conseguente violazione dell’art. 3 Cost.), pare essere esito necessitato e derivante da un duplice, ineludibile, ordine di considerazioni:

  • l’assenza di una struttura organizzata, che faccia da filtro e, al contempo, da connettore tra le richieste del paziente e la prestazione specialistica del professionista sanitario;
  • il soggetto destinatario diretto dell’affidamento (la singola professionalità, in un caso, a fronte della struttura, nell’altro).

Questi sono elementi che indubbiamente concorrono a legittimare la persistenza di un rapporto fattivamente contrattuale tra paziente e medico privato, che anche l’intervento riformatore della Legge Gelli – Bianco si astiene, prudentemente, dall’includere nel novero, dettagliato e puntuale, di attività variamente riconducibili a un rapporto di lavoro dipendente e, in quanto tali, all’archetipo della responsabilità ex art. 2043 c.c.

Ubi lex voluit dixitubi noluit tacuit: sostenere la natura extracontrattuale della responsabilità in capo alla specialista privato equivarrebbe, prioritariamente, ad andare oltre il dato normativo, svilendo, consequenzialmente, la portata sistematica della medesima azione legislativa.

Il richiamo dell’art. 2043 c.c. è stato percorso già battuto dalla Legge Balduzzi, invero tra molte perplessità e poche luci; il regime di default con l’intervento riformatore del 2012 doveva essere quello della responsabilità aquiliana, da far insorgere a seguito di tutte le condotte variamente lesive[12], poste in essere durante l’attività medica, da un soggetto (il professionista sanitario) che, perlomeno sino alla compiuta verificazione del danno, era del tutto estraneo rispetto al paziente/danneggiato[13].

È lapalissiano come, nel caso di una prestazione medica, erogata da un professionista sanitario, in regime di libera professione, non possa ragionevolmente considerarsi integrato questo fondamentale presupposto dell’estraneità, inderogabilmente fondativo della riconducibilità della responsabilità nell’archetipo extracontrattuale, ex art. 2043 c.c.

Come già osservato con riferimento alle prestazioni cc. dd. routinarie[14], intrinsecamente assimilabili alla prestazione di un’opera professionale, nella fattispecie de qua deve, necessariamente, intendersi instaurato, su di un piano fattuale, un rapporto assorbente di affidamento tra il paziente e il medico specialista, originante dalla scelta autonoma e voluta di quest’ultimo da parte del primo[15], dal contatto evidentemente qualificato e dall’accettazione dell’incarico; da un siffatto rapporto, derivano, consequenzialmente, obblighi sostanzialmente contrattuali, anche in carenza di una sottoscrizione di un contratto formale (che diviene elemento recessivo, rispetto all’instaurarsi e al consolidarsi del rapporto sostanziale)[16].

In tal guisa, una condotta negligente è da ricondurre a un inadempimento contrattuale, costituendo una violazione di quella obbligazione di cura, assunta scientemente dal professionista sanitario in qualità di specialista. Non si può prescindere, infatti, dal valorizzare l’affidamento, senz’altro legittimo e motivato, del paziente alle doti professionali del medico scelto[17], al punto tale da controbilanciare, di fatto, l’assenza di una pattuizione formale stipulata per iscritto.

Come già prontamente evidenziato da autorevole dottrina, non si può, peraltro, tacere che la teoria del contatto sociale c.d. qualificato e della correlata riconducibilità nell’alveo dell’inadempimento contrattuale della responsabilità da attività medica siano state corroborate da più lustri di attestazioni univocamente orientate in seno alla giurisprudenza di legittimità, instillata dalla realistica considerazione circa l’assenza, generalizzata di un contratto, formalmente da intendersi, tra medico e paziente[18].

La categoria della responsabilità da contatto sociale[19] non pare, invero, neppure ridimensionata anche dalle censure dottrinali, per giunta reiterate e provenienti da prospettive diverse, che hanno criticamente individuato la fallacia di una simile ricostruzione rispettivamente nella limitazione alla sola protezione della sfera giuridica altrui e, ulteriormente nella potenziale inflazione di rapporti meramente sociali, dai quali possano insorgere, incontrollatamente, profili risarcitori contrattuali.

Come evidenziato recentemente da autorevole dottrina, entrambe le osservazioni non sembrano essere condivisibili e meritevoli di accoglimento; la prima obiezione non può essere decisiva, dal momento che non pare sostenibile che l’art. 1174 c.c. e, ancor prima, la configurazione codicistica stessa di obbligazione possano deporre congiuntamente in senso negatorio della possibilità di “ravvisare un’obbligazione anche là dove vi sia semplicemente una protezione”, essendo, viceversa, senz’altro bastevole, con riferimento al fenomeno obbligatorio, l’assoggettabilità a valutazione economica dell’oggetto[20].

Lo stesso Autore citato, allo stesso modo, ridimensiona efficacemente il timore, ad oggi trasversale a più contesti (basti pensare, a titolo esemplificativo, alla generale ritrosia verso la meritevolezza in concreto della causa e al connesso potere manutentivo assegnato all’organo giudicante), di un uso strumentale e opportunistico, quasi “eversivo”, della circostanza di poter derivare, da un semplice contatto sociale, profili risarcitori di matrice contrattuale.

La scelta normativa di delegare scientemente all’interprete, in assenza di una perimetrazione rigida dei confini, “la possibilità di individuare un atto o un fatto fonte di obbligazioni” è sottesa alla stessa formulazione dell’art. 1173 c.c.: l’eventuale manifestazione dei rischi fisiologicamente connessi a una siffatta opzione è, quindi, essa stessa un rischio calcolato, ragionato e assunto, da parte dello stesso legislatore e non può, in ogni caso, avere artificiosamente portata tale da indurre a troncare ex abrupto l’esercizio di un potere valutativo – decisorio di matrice giudiziale.

A tal proposito, devesi, infatti, rammentare il ruolo fortemente garantista, attorno a questo modello di responsabilità contrattuale, svolto congiuntamente dalla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti e protetti e dall’intensità motivata dell’affidamento del paziente riposto nella professionalità (ai fini che qui interessano) del medico specialista, elementi che rendono assolutamente incompatibile la configurazione economico – sociale del fenomeno con l’archetipo aquiliano[21].

Anche alla luce di tale natura indubbiamente consolidata, pare, invero, tesi ulteriormente non condivisibile quella che, in nome di una paventata violazione del principio di uguaglianza della classe medica, vorrebbe estendere, pretermettendo la letteralità del nuovo dato normativo, il regime aquiliano anche all’attività libero professionale “privata”.

L’assenza, in concreto, di un contratto in senso tecnico, non è, peraltro, un dato caratterizzante in via esclusiva la responsabilità da attività medica[22] e, in virtù di quanto diffusamente rassegnato, non è elemento ostativo del rinvenimento di una contrattualità, tradizionale o “surrogata”[23].

La necessità di ricondurre la responsabilità del medico specialista “privato” alla disciplina dell’inadempimento deve, dunque, ritenersi avvalorata dalla circostanza che il professionista sanitario sia tenuto a rispettare un pregnante dovere di protezione del paziente richiedente la prestazione e che, in tal senso, debba ritenersi del tutto ininfluente l’esistenza di una obbligazione formale a eseguire la prestazione.

Il contatto sociale è giustificativo della contrattualità. Peraltro, è necessario evidenziare che la scelta di spostare l’interesse risarcitorio del danneggiato esclusivamente verso la struttura sanitaria, per i motivi di opportunità e solvibilità rassegnati, implica, quale conseguenza visibilmente più deteriore, la parametrazione dell’attività medica “dipendente” al solo precetto del neminem laedere: rispetto all’alta funzione sociale, insita nell’attività medica, pare vincolo decisamente riduttivo, senz’altro se raffrontato al ben più incisivo canone della diligenza professionale, ai sensi del secondo comma dell’art. 1176 c.c. [24].

La fonte del dovere di protezione gravante sul medico libero professionista devesi rintracciare proprio in quel summenzionato affidamento (sull’adempimento della prestazione richiesta con lealtà, collaborazione e salvaguardia delle altrui istanze), rilevante nella fase precontrattuale, ai sensi dell’art. 1337 c.c., e che si traduce fisiologicamente nella convinzione, in capo al paziente, che la prestazione sanitaria richiesta, sulla scorta della diligenza specifica attesa dal professionista (da intendersi, in senso lato, come attrattiva della conoscenza, teorica quanto pratica, delle regole tecniche e professionali), possa condurre all’esito, positivo, desiderato.

Frustrare queste legittime aspettative è azione equipollente al violare gli obblighi immediatamente conseguenti alla professione esercitata, nonché equivale a disattendere quell’onere di protezione (tramite il più opportuno utilizzo di strumenti e competenze) del soggetto debole[25].

Nel caso di una prestazione erogata in una struttura sanitaria, il paziente confida, del tutto legittimamente, nella sottesa struttura organizzativa; il rischio del verificarsi di eventualità dannose è, quindi, facilmente riconducibile alla medesima organizzazione: la contestabilità certa dell’evento, scongiurando, ab origine, un pericoloso intreccio vizioso tra preponente e preposto, sommata alla già menzionata maggiore e più celere solvibilità della struttura rispetto al professionista sono elementi che concorrono a giustificare, con tutta evidenza, l’alternativa opzionata dal legislatore (responsabilità contrattuale), poiché ottimale sotto un profilo di risk management[26].

Gli elementi rassegnati non possono certamente rinvenirsi con riferimento a una prestazione sanitaria erogata in regime di libera professione, non fosse altro per l’evidente assenza di un soggetto terzo, tra paziente e professionista, che, in un’ottica gestoria del rischio, possa accollarsi la responsabilità, per ottimizzare l’adempimento della prestazione o la liquidazione del danno, in caso di esito lesivo.

È l’affidamento nella professionalità dello specialista privato a costituire il fondamento del rapporto di matrice contrattuale tra paziente e medico e, come autorevolmente evidenziato da una parte della dottrina, pur elidendo richiami spuri a elementi quali i “contatti”, “sociali” e “negoziali”, resta comunque intangibile l’assunto che obbligazioni così costruite e strutturate, abbiano “il loro fondamento giustificativo in circostanze o situazioni caratterizzate dalla stessa «posizione» in cui versano i soggetti, sia debitori che creditori, così da concretizzare una fonte “atipica” di obbligazioni”, ai sensi di quanto testualmente previsto dall’art. 1173 c.c.[27]

Il contatto sociale, per giunta qualificato, di fatto deve coerentemente continuare a mimare[28] l’esistenza di un contratto in senso formale, perlomeno con riferimento alla prestazione di attività sanitaria nelle vesti di libera professione.

Porsi nell’antitetica prospettica equivarrebbe a penalizzare il paziente/danneggiato[29], sia sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio[30] che relativamente alla tempistica per l’esperimento della domanda risarcitoria, solo ed esclusivamente per aver scelto, a monte, di riporre la propria fiducia (rectius, il proprio affidamento) nella professionalità di un soggetto specifico, che abbia accettato di prestare la sua opera, approntando autonomamente le conoscenze e i mezzi a sua disposizione, nella maniera più efficace, per addivenire a un esito positivo.

La fiducia è senz’altro un valore importante, ma il suo prezzo, così, finirebbe con l’essere davvero troppo esoso.


[1] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, con nota di M. Forziati, (1 -2) La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il “contatto sociale” conquista la Cassazione., in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 3, 1999, 661.

[2] È di tutta evidenza l’agevolazione sia dal punto di vista dell’atteggiarsi della distribuzione dell’onere probatorio in capo a danneggiato e danneggiante, sia rispetto all’allungamento del termine prescrizionale.

[3] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., 1 luglio 2002, n. 9556, con nota di E. G., Nota a Cass. Civ., Sez. Unite, 1 luglio 2002, n. 9556, in Giustizia Civile, fasc. 10, 2003, 2204; Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, con nota di M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 4, 2008, 856.

[4] In questi termini, P. Gattari, Prime riflessioni sulla riforma della responsabilità civile da attività sanitaria, in Ri.Da.Re., 31 marzo 2017.

[5] Sul punto, P. A. Sirena, La responsabilità medica alla luce della legge Balduzzi, in Altalex, 23 maggio 2013. V. anche M. Gorgoni, Colpa lieve per osservanza delle linee guida e delle pratiche accreditate dalla comunità scientifica e risarcimento del danno, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 1, 2015, 0173B. Secondo l’Autrice, la questione più pregnante, in seno alla dottrina, a seguito del richiamo espresso all’art. 2043 c.c., è stata la “preoccupazione” che così operando si fosse introdotta nell’ordinamento “una serie di stop” e segnatamente: “a) alla contrattualizzazione della responsabilità in ambito sanitario; b) al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/obbligazioni di risultato che ne aveva costituito il pendant; c) all’accezione ristretta con cui si accoglie il concetto di speciale difficoltà, foriero di una limitazione di responsabilità a beneficio del sanitario, ex art. 2236 c.c.; d) all’applicazione anche alla prestazione sanitaria dei criteri della omogeneità, della vicinanza della prova e della persistenza del diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e applicati uniformemente dalle Corti.

[6] Così, M. Costanza, Struttura sanitaria e medico: regresso o rivalsa? in Ri.Da.Re., 21 novembre 2017.

[7] La libera professione intramuraria chiamata anche intramoenia si riferisce a tutte quelle prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, che utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa. Il medico, in questi casi, è tenuto al rilascio di regolare fattura e la spesa, come tutte le spese sanitarie, è detraibile dalle imposte. Le prestazioni sono generalmente le medesime che il medico deve erogare, sulla base del suo contratto di lavoro con il Servizio Sanitario Nazionale, attraverso la normale operatività come medico ospedaliero. Le prestazioni de quibus garantiscono, inoltre, al cittadino la possibilità di scegliere il medico a cui rivolgersi per una prestazione.

[8] Pare opportuno, sin d’ora, evidenziare quanto già rilevato da autorevole dottrina circa il beneficio insito nella contrattualizzazione della responsabilità nell’ambito dell’attività medica. La riconducibilità all’interno dell’archetipo contrattuale consentirebbe, in effetti, di affiancare alla mera protezione (v. infra) la prestazione e il suo intrinseco rilievo, con la conseguenza di poter fattivamente valorizzare il contenuto effettivo dell’attività posta in essere e premiare eventuali comportamenti virtuosi, “finalizzati non solo alla prevenzione del danno, ma ad arrecare benefici al soggetto”. In questi termini, A. Di Majo, L’obbligazione protettiva, in Europa dir. priv., 2015, 1.

[9] Così, P. Gattari, op. cit. Secondo l’Autore, la scelta legislativa dimostra la volontà di voler definitivamente superare l’orientamento giurisprudenziale fondato sulla teoria del contatto sociale applicata ai medici (rendendo meno esposta tale categoria professionale a pretese risarcitorie, mediante un alleggerimento della posizione processuale del professionista), confinando la responsabilità contrattuale in capo unicamente alle strutture (a tutela dei pazienti danneggiati) per i danni derivanti dallo svolgimento dell’attività sanitaria.

[10] Sul punto, A. Garibotti, In claris non fit interpretatio, o meglio in obscuris fit interpretatio: l’art. 3 della Legge Balduzzi sfida anche i criteri dell’ermeneutica, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 2, 2015, 722.

[11] In questi termini, G. Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco – Gelli, in Contratto e Impresa, 3, 2017, 356 ss.

[12] In tale contesto, una particolarità era rappresentata dalla prestazione c.d. routinaria, verosimilmente più riconducibile a quella di un’opera professionale.

[13] Sul punto, Trib. Milano, Sez. I, 17 luglio 2014, n. 9693.

[14] V. Cass. Civ., Sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, con nota di A. Fiori – D. Marchetti, Un altro passo verso l’obbligazione di risultato nella professione medica, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 3, 2008, 872.

[15] Il contratto d’opera intellettuale si qualifica come intuitu personae in tutte quelle situazioni in cui il negozio abbia per oggetto la prestazione di attività liberale: così, G. Musolino, Responsabilità notarile e intuitus personae, in Rivista del Notariato, fasc. 6, 2014, 1238.

[16] La responsabilità da contatto sociale qualificato è stata definita come “contrattuale in senso debole”. Sul punto, S. Mazzamuto, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale, in Europa dir. priv., 2014, 713. Per l’Autore, la debolezza deriverebbe dal fatto di rappresentare una conseguenza della “violazione degli obblighi di protezione, la quale assolve a una pura funzione di salvaguardia della persona e del patrimonio dei soggetti dell’obbligazione o di relazioni sufficientemente corpose e affidanti da divenire rapporti giuridici mentre le è estranea la finalità di attribuzione per via risarcitoria di un incremento patrimoniale programmato, dovuto e non realizzato”.

[17] In tal senso, P. M. Storani, Se la prestazione sanitaria è routinaria, l’onere della prova grava sul medico, in Ri.Da.Re., 11 maggio 2016.

[18] Così, A. Garibotti, op. cit.

[19] Avvalorata, in un certo senso, anche da Cass. Civ., Sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188, con nota di A. Albanese, La lunga marcia della responsabilità precontrattuale: dalla culpa in contrahendo alla violazione di obblighi di protezione, in Europa e Diritto Privato, fasc. 3, 2017, 1128.

[20] In questi termini, C. Scognamiglio, Responsabilità precontrattuale e «contatto sociale qualificato», in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 6, 2016, 1950.

[21] Così, C. Scognamiglio, op. cit.

[22]A titolo meramente esemplificativo, può, infatti, stabilirsi, proprio sulla scorta dell’asserita assenza di una stipulazione formale, una connessione con quanto accade nell’ambito dell’intermediazione finanziaria e, segnatamente, nel rapporto tripartito tra Società di Intermediazione Mobiliare (d’ora innanzi SIM), promotore e cliente – investitore. Tripartizione intimamente, per funzioni e contenuto, non dissimile da quella propria della responsabilità da attività medica e che, complice l’assenza (nella maggior parte dei casi) di un contratto specifico, stipulato dall’investitore con il promotore, non esita a gravare di responsabilità contrattuale la SIM per l’attività posta in essere dal promotore – dipendente. Un meccanismo pressoché coincidente con quello della Legge Gelli – Bianco, per struttura sanitaria e professionista dipendente (a vario titolo). Secondo la giurisprudenza, alla luce degli specifici obblighi connaturati alla funzione “sociale” di tutela dell’investitore e dell’investimento (rectius, del risparmio), la stessa responsabilità del promotore finanziario dovrebbe correttamente ritenersi contrattuale, proprio tenendo in debita considerazione il contatto sociale, fonte obbligatoria, instauratosi con il cliente – investitore. In questi termini, F. Greco, La natura «contrattuale» della responsabilità della SIM per fatto illecito del promotore finanziario, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 6, 2015, 1963.

[23] V. supra nota 15.

[24] Così, A. Garibotti, op. cit.

[25] Così, F. Greco, op. cit.

[26] Così, F. Greco, op. cit.

[27] Così, A. Di Majo, op. cit.

[28] Così, A. Di Majo, op. cit.

[29] Gravato già dall’assenza di un soggetto certamente solvibile, quale la struttura sanitaria.

[30] La Cassazione ha, recentemente, ribadito come non possa ragionevolmente ritenersi onerato il paziente – danneggiato della prova relativa alla colpa del medico specialista. V. Cass. Civ., 9 novembre 2017, n. 26517, già annotata in questa rivista, https://giuricivile.it/responsabilita-medica-oneri-probatori/.

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