Il contratto preliminare nella prassi delle agenzie immobiliari

1. Introduzione

“La volontà umana prima di giungere ad una formale determinazione percorre vari stadi. I quali spesso sono inosservati, ma spesso ancora assumono esternamente una forma corrispondente allo stato interno dell’animo, e pur mantenendo il carattere di mezzi preordinati alla deliberazione finale, non perdono con ciò la lor propria natura di atti volitivi, che hanno anch’essi un valore psicologico a sé. Questi momenti psicologici anteriori alla stipula del contratto sovente non prendono una forma esteriore, talvolta però la prendono spiccata. Sorge così l’indagine del valore giuridico di quelle manifestazioni che precedono la conclusione del contratto”.[1]

Un’indagine cominciata sin dal secolo scorso, quella del contratto preliminare, delle “figure prodromiche a un contratto definitivo” e delle sue implicazioni, ma che tutt’oggi continua ad interrogare vivacemente la dottrina e la giurisprudenza.

Affacciandosi infatti alla concretezza dei traffici giuridici nel settore immobiliare, ci si accorge che la complessità dei contatti ha determinato una segmentazione delle fasi contrattuali.

Le Sezioni Unite, nella sentenza n. 4628/2015, ne prendono atto (non è la prima volta) individuando una prima fase in cui, a volte con la formula, almeno dichiarata della proposta irrevocabile, l’aspirante acquirente offre un certo corrispettivo per l’acquisto del bene, atto che viene riscontrato dalla accettazione o dal rifiuto del proprietario.

Una seconda, espressamente prevista, di stipula del contratto preliminare propriamente detto.

La terza, costituita dall’indispensabile rogito notarile con il saldo del prezzo.

In tempi recenti la S.C. è intervenuta più volte su contrasti giurisprudenziali aventi ad oggetto il c.d. preliminare del preliminare, producendo a sua volta decisioni contrastanti.

Le Sezioni Unite hanno dovuto perciò affrontare la questione, ritenendo che la figura in questione sia ammissibile, seppure a certe condizioni (cioè solo se conforme all’interesse delle parti), cosicchè il vincolo che da questo contratto sorge è fonte di risarcimento del danno in caso di inadempimento.

Invero, in primo grado ed in appello, i giudici – adeguandosi ad un orientamento ormai sedimentato – avevano ritenuto nullo detto contratto per difetto di causa, laddove, come innanzi detto, la Cassazione a S.S.U.U. ha ritenuto fondato il ricorso proposto dai promittenti venditori di un immobile.

Questi avevano promosso una domanda ex art. 2932 c.c. sulla base di un accordo preparatorio alla stipula di un preliminare che, per questioni relative al mancato assenso di una banca, non era stato poi stipulato.

Si legge infatti in sentenza:

“in presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento.

Riterrà produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.

La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale”.

Le Sezione Unite ritengono pertanto ammissibile il preliminare del preliminare solo se conforme all’interesse delle parti, infatti:

“La stipulazione di un contratto preliminare di preliminare, ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori (e con l’esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) è valido ed efficace, e dunque non è nullo per difetto di causa, ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.

La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale”.

Icasticamente la Suprema Corte a Sezioni Unite ribadisce che “intende cogliere gli aspetti costruttivi di quel moderno orientamento che vuole riconoscere la libertà delle parti di determinarsi e di fissare un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali”.

2. (Brevi) osservazioni critiche

Su tale argomento centrale vanno però formulate due riserve abbastanza importanti.

In astratto è evidente infatti che il riconoscimento della libertà delle parti di determinarsi nel caso specifico può trovare o meno il suo spazio in relazione a ciò che è scritto nel codice civile e non certo a quello che “vogliono” le parti, gli orientamenti – “moderni” o meno che siano – e persino la Corte di Cassazione, alla quale non può essere riconosciuto una capacità di impulso politico o legislativo.

In concreto, risulta poi dallo stesso approccio e anche dal lessico della Corte che le esigenze “del mercato” che la Corte intende soddisfare non sono affatto quelle delle “parti” ma, come essa stessa ha cura di precisare, quelle proposte dalla interposizione tra le medesime delle agenzie immobiliari (che parti non sono) e delle relative “pratiche”, aprioristicamente individuate le une e le altre come oggettive  espressioni delle esigenze dell’ equilibrio del mercato (piuttosto che dell’ equilibrio delle medesime) al di là e isolatamente da quelle eventualmente espresse da una ormai non più rintracciabile volontà delle parti stesse.

Il congegno che le S.U. utilizzano per riportare la detta esigenza economica nell’ambito della costruzione giuridica è costituito dalla teoria giurisprudenziale della “causa in concreto”, quale scopo pratico del negozio, nonché sintesi degli interessi che lo stesso è effettivamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato e quindi alla funzione economico-sociale attribuita ad esso dal codice civile.

Tale profilo causale contrattualistico viene inteso, a dire della sopra citata teoria, quale ricerca della utilità del contratto, cioè della sua complessiva razionalità ed idoneità ad espletare una funzione commisurata agli interessi concretamente perseguiti dalle “parti” attraverso quel rapporto contrattuale.

Fortemente avvertita è quindi l’esigenza di domandarsi se l’interesse che la sentenza della S.C. mira a tutelare è davvero meritevole di tutela e se realmente al nostro ordinamento interessa rispondere all’esigenza della Pratica.

Sembra infatti che si deleghi alle parti, in nome di una maggiore autonomia privata, un controllo che invece spetta all’ordinamento, e cioè il giudizio sulla compatibilità tra l’atto di autonomia e i valori di esso (ordinamento).

Altrettanto meritevole di considerazione è la conseguenza specifica, di natura disciplinare, che scaturisce dal detto approccio.

Vale a dire lo “spezzettamento” delle trattative in altrettante classi di “puntuazioni obbligatorie” accompagnate ciascuna da una sua propria responsabilità contrattuale: ciò per un verso introduce nella fase di trattativa una difficile convivenza tra gli obblighi di comportamento previsti dal codice ed assistiti dalla responsabilità contrattuale.

Per altro verso ancora sembra preconizzare, almeno nei contratti di vendita, una progressiva e sensibile riduzione dell’area coperta dalla detta responsabilità e quindi delle esigenze da essa protetta.

Infine propone un difficile problema di convivenza anche con la corrispettiva estensione, anch’essa di origine giurisprudenziale, della responsabilità precontrattuale anche al di là della fase di trattativa in conseguenza di violazioni che sono sindacabili solo a seguito della conclusione del contratto.

Ben rammentano i giudici di legittimità che esiste una esigenza-realtà alla “formazione progressiva del contratto”. Ma il fatto che esista una esigenza o una pratica… non implica di per sé che sia meritevole di tutela.

3. La prassi delle agenzie immobiliari e il dibattito dottrinario e giurisprudenziale

Come evidenziato dalla dottrina, nell’ambito dell’intermediazione immobiliare è possibile individuare un procedimento tipico che si snoda in varie fasi:

  • nella prima fase il potenziale venditore, mediante sottoscrizione di un relativo modulo, vincola un immobile di sua proprietà ai fini di una futura vendita, incaricando all’uopo un agente immobiliare;
  • nella seconda fase l’incaricato, dopo aver individuato un potenziale acquirente, provvede a fargli sottoscrivere un altro modulo definibile proposta irrevocabile d’acquisto e accompagnata di solito dal versamento di una somma di danaro  a mani del mediatore, mediante assegno intestato al venditore (la irrevocabilità della proposta è destinata ad operare solo sul piano obbligatorio poiché i moduli forniti dalle agenzie, prevedono espressamente la possibilità che essa venga revocata, ricollegandovi come unico effetto la perdita della somma loro versata prevista al sol fine di non far sfuggire alle agenzie medesime il controllo dell’affare, nel quale esse operano come nuncii delle parti, che sono riuscite a porre in contatto);
  • nella terza fase il potenziale venditore accetta la proposta formulata dall’acquirente individuato dall’agente immobiliare (si perfeziona così un “preliminare aperto” perché lascia spazio al recesso del promittente l’acquisto, dietro perdita della somma versata, ma vincolato alla forma scritta ad substantiam);
  • nella quarta fase si procede alla stipula di un contratto preliminare vero e proprio dinanzi ad un notaio con ulteriore esborso di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria (“preliminare chiuso”, perché non lascerebbe spazio a ripensamenti);
  • nella quinta ed ultima fase viene stipulato il contratto definitivo di compravendita che determina il trasferimento del diritto di proprietà sull’immobile.

La fase che ha destato maggior attenzione in dottrina e giurisprudenza è la terza, laddove il potenziale venditore accetta, mediante apposita sottoscrizione la primigenia proposta irrevocabile d’acquisto formulata dal potenziale acquirente (inversione dei ruoli e dei rischi) ed esplicitata in un modulo prestampato, realizzato e fornito dalla stessa agenzia immobiliare, dando così vita alla discussa figura del preliminare di preliminare, la cui conclusione presuppone la comunicazione dell’accettazione del potenziale venditore al proponente acquirente, a meno che quest’ultimo non abbia eletto domicilio presso l’agente immobiliare.

Non si è infatti ravvisata alcuna concreta utilità nel bis in idem che con questa sequenza si realizzerebbe, dato che la seconda contrattazione preliminare nulla aggiunge, “né sotto il profilo della sostanza, né sotto quello della forma”[2] alla prima.

In sostanza la funzione causale del preliminare viene meno se il contratto al quale esso è preordinato, lungi dal produrre effetti diversi e più intensi, si limiti a riproporre i medesimi effetti obbligatori del primo contratto, come pare configurarsi nella prassi del mercato immobiliare.

Analogamente, si è già osservato che, riguardo all’ammissibilità del “preliminare di preliminare” la soluzione negativa pare preferibile”[3].

Sulla medesima posizione si è attestata una parte della giurisprudenza; se già il Trib. Salerno, 23 luglio 1948,  si mostrava scettico nei confronti del contratto preliminare relativo ad altro preliminare, è con Trib.Napoli, 23 novembre 1982, che ne viene affermata per la prima volta la nullità per difetto di causa come tale rilevabile anche d’ufficio dal giudice:

“L’ordinaria sequenza logica preliminare-definitivo è alterata dall’inserimento tra i due di un secondo preliminare, che del primo costituisce l’oggetto immediato, dando luogo al fenomeno anomalo del preliminare di preliminare, ossia del promessa di una promessa, e dunque, ad una vicenda contrattuale nell’ambito della quale il preliminare concluso risulta, scopertamente privo di funzione pratica e quindi, di causa, perché il promettere di promettere non ha efficacia diversa dal promettere puro e semplice”

Così anche Trib.Salerno 23 luglio 1948, Trib. Napoli 23 novembre 1982, Trib.Napoli 21 febbraio 1985, App.Napoli, 1 ottobre 2003 che afferma la nullità del preliminare e la sua inidoneità a costituire presupposto per il maturare del diritto alla provvigione, App.Genova, 21 febbraio 2006 e per ultimo Cass.n.8038/2009.

Questa sentenza sul tema, portavoce di un orientamento che diffida dalla configurabilità di un vincolo contrattuale anteriore al preliminare, argomenta che

“l’art. 2932 c.c. instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti.

Riconoscere come possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi…ad obbligarsi a ottenere quell’effetto, darebbe luogo ad una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ben potendo l’impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anziché prometterlo subito”.

La prassi delle agenzie immobiliari è stata criticata quindi da parte della dottrina e della giurisprudenza, le quali hanno sempre eccepito la carenza di causa dell’ “obbligo ad obbligarsi”, sancendone la nullità e quindi l’inidoneità a costituire titolo per il sorgere del diritto alla provvigione per il mediatore.

Negano infatti spazio alla figura del negozio pre-preliminare: Di Marzio, La nullità del contratto; Gazzoni, Il contratto preliminare, nel Trattato di diritto privato, secondo il quale “non è ammissibile l’utilizzo dello schema procedimentale del preliminare di preliminare.

Più che la causa, difetterebbe la funzione economica, ossia la possibilità di ravvisare un interesse meritevole che giustificherebbe la giuridicizzazione dell’operazione. Il ne bis in idem non può essere di alcuna utilità  e determinerebbe solo un inutile giro vizioso procedimentale”.

Lo stesso autore riconosce poi la diffusione nella prassi di preliminari aperti che lasciano ancora imprecise determinate situazioni che debbono essere meglio integrate dalle parti e che offrono al contraente adempiente una tutela risarcitoria, evitando il ricorso all’art.2932 c.c. e precisa che “più che un obbligo a contrarre, vi sarebbe un obbligo a contrattare per la conclusione del definitivo”; dello stesso parere Rascio, Il contratto preliminare, La Porta, La (salutare) nullità del contratto inutile, in Notariato, 2010.

Il c.d. “preliminare aperto non sarebbe eseguibile in forma specifica ex art.2932 c.c. per i seguenti motivi: da un lato “il fatto che si faccia espresso riferimento alla necessità di una scrittura privata ulteriore che definisca compiutamente il contenuto del contratto”, implicando, dunque, “la volontà di escludere che fintanto che con questa scrittura privata non ci si sia in concreto confrontati possa operare il rimedio giurisdizionale”[4]. Dall’altro la previsione di una penale lascerebbe intendere che il contratto è “vincolante solo in modo promissorio”[5] ed è finalizzato a garantire alle parti stesse la libertà di lasciare cadere l’impegno con un sacrificio in denaro.

Sul versante opposto seguono l’indirizzo che ammette la figura negoziale del doppio preliminare: Sacco-De Nova, Il Contratto, Chianale, voce “Contratto preliminare”[6], Il preliminare di preliminare: intentio certa sese obligandi? In Notariato, 2010, Il contratto preliminare del preliminare, in Riv.dir.civile, 2010, D’Ambrosio, Contratto preliminare e contratto definitivo, contratto preparatorio e preliminare del preliminare, in Riv.Notar.1980.

La prima sentenza favorevole alla figura (definita contratto atipico a contenuta ed efficacia obbligatori, non suscettibile di esecuzione in forma specifica, in linea con la dottrina del tempo) è App. Napoli, 11 ottobre 1967:

“Deve ritenersi del tutto ammissibile e meritevole di tutela nel nostro ordinamento, in virtù del principio di autonomia della volontà negoziale, il contratto preliminare del preliminare qualora lo stesso costituisca un momento ben caratterizzato dell’iter progressivo per il raggiungimento del compiuto regolamento di interessi, ben potendo le parti addivenire dapprima ad un contratto che, pur non costituendo vendita definitiva, puntualizza dettagliatamente e con precisione tutti gli elementi della stessa per poi, infine, giungere alla stipula della vendita definitiva con effetti reali”.

Così anche Trib. Napoli 28 febbraio 1995 che peraltro precisa come, “qualora le parti abbiano pattuito il pagamento della provvigione alla stipula del contratto preliminare “chiuso”, nulla spetti a titolo di provvigione al mediatore nel caso in cui quest’ultimo non venga concluso” e da ultimo le S.S.U.U. della Cassazione, n.4628/2015.

Altra giurisprudenza invece assorbe il preliminare di preliminare nel preliminare puro e semplice, di cui il secondo sarebbe solo riproduzione: Pret.Firenze 19 dicembre 1989, Pret.Bologna 9 aprile 1996, Cass.14 luglio 2004 n.13067, Cass.25 ottobre 2005 n.20653.

4. L’agente immobiliare

Le dinamiche del mercato immobiliare offrono quindi interessanti spunti di riflessione: anche ad uno sguardo superficiale emergono un crescente incremento numerico dei contratti conclusi con l’intervento del mediatore ed un sempre maggiore spazio che questa figura sta ritagliandosi.

La crescente presenza del mediatore nel mercato ha finito per incidere notevolmente sulla stessa conformazione giuridica dell’intera dinamica circolatoria immobiliare.

Questa “irruzione” del mediatore nelle dinamiche contrattuali si è accompagnata, almeno negli ultimi quindici anni, anche ad un’accresciuta professionalizzazione del modo di svolgere l’attività mediatizia, in esito ad un processo innescatosi con l’entrata in vigore della Legge n.39/1989 la quale ha segnato un momento di svolta per tutti i mediatori e soprattutto per gli agenti immobiliari.

Con essa ha avuto inizio un’evoluzione del modello tipo di agente immobiliare: esso ormai si identifica sempre più raramente con il mero sensale che agisce in base al passa parola e spesso senza avere particolari requisiti professionali, mettendo in contatto le parti grazie alla sua scaltrezza ed alla sua conoscenza del mercato locale, bensì corrisponde ad un professionista che si avvale di strutture sempre più complesse, utilizza mezzi telematici all’avanguardia ed è affiancato da vari collaboratori aventi ruoli differenziati. In definitiva, un imprenditore commerciale in senso pieno e tecnico.[7]

La scelta legislativa di attribuire una legittimazione di più alto livello alla figura di cui si tratta è accompagnata anche ad un rinnovato modo di interpretare il ruolo svolto dal mediatore, ormai sempre più spesso chiamato a fare da consulente alle parti, a compiere un’attenta istruttoria, consistente nella raccolta di tutti i dati, elementi e informazioni che possano rilevare ai fini della conclusione dell’affare.[8]

Nell’ambito di questo fenomeno più generale spicca il sempre più diffuso impiego, da parte delle agenzie immobiliari, di un’articolata modulistica che ha finito per canalizzare la formazione del consenso traslativo secondo un procedimento assai peculiare e sempre più sottratto alla disponibilità delle parti.

L’autonomia privata può deviare dallo schema tipico, con l’apposizione di clausole atipiche quali ad esempio il patto di esclusiva o l’irrevocabilità dell’incarico di vendita (tra le altre frequenti clausole atipiche si annovera l’obbligo di corrispondere la provvigione in seguito alla mera individuazione di un’offerta corrispondente a quella desiderata a quella del soggetto incaricante, indipendentemente dal successivo perfezionamento dell’affare; il rapporto di esclusiva; l’irrevocabilità dell’intermediario), che danno luogo alla impropria nonché ossimorica definizione di “mediazione atipica”, etichetta – come rilevato da Toschi Vespasiani[9] – “indiscriminatamente utilizzata come una sorta di contenitore vuoto utile a contenere tutte le pattuizioni che spostano il rapporto tra mediatore e controparti al di fuori dell’area propria della mediazione codicistica”.

La latitudine dell’autonomia può spingersi ad adoperare uno schema causale che si colloca oltre la struttura tipica della mediazione, di cui conserva solo il nomen juris, sfociando in altri tipi contrattuali, quali il contratto di mandato, o misto di mandato e locazione d’opera, diversi perché diverso è il tipo contrattuale, perché diversa è la causa di questi contratti.

Qualora una fattispecie dovesse qualificarsi come uno dei suddetti tipi negoziali, la conseguenza giuridica sarà l’abbandono del regime della mediazione codicistica e la conseguente applicazione della disciplina relativa.

I formulari più aggiornati sembrano indirizzarsi sempre più spesso verso la c.d. “mediazione atipica” e la prassi segna un progressivo allontanamento dal terreno della mediazione tipica.

Ci sarebbe a questo punto da chiedersi se una “tipicità sociale” della mediazione atipica non abbia finito per configurare un marcato scollamento tra le regole codicistiche (espressione del principio di legalità) e i “naturalia negotii” della mediazione nella pratica quotidiana degli affari.

Insomma il contenuto degli incarichi di vendita dimostra un irriducibile allontanamento (ndr, legittimo?) tra le istituzioni e la prassi, tra le esigenze di questa e il dover essere di quelle.

In estrema sintesi si può affermare: la figura del mediatore è tale solo se l’attività che pone in essere è causalmente idonea a determinare la conclusione dell’affare, indipendentemente dalla fonte delle obbligazioni.

Di conseguenza quando una parte incarica un soggetto di eseguire tutte quelle attività necessarie al fine di individuare un potenziale contraente, non si configura un negozio atipico, quale mediazione unilaterale o atipica, bensì un vero e proprio contratto di mandato (ndr, si legge nei moduli delle agenzie immobiliari denominati “conferimento di incarico di mediazione in esclusiva”, che “il venditore conferisce all’agente l’incarico di reperire un acquirente dell’immobile”).

La varietà di clausole contenute nei moduli è notevolmente ampia e diversificata, ma rivela nel contempo un elemento unificante: introducono nel rapporto mediatizio degli elementi dissonanti rispetto ai connotati strutturali tipici della mediazione.

Tale operazione sposta il rapporto fuori dall’area propria della mediazione codicistica, snaturandone la causa stessa, attraverso l’inserimento delle seguenti clausole:

  1. l’irrevocabilità dell’incarico di vendita;
  2. il patto di esclusiva (divieto per l’incaricante di sollecitare l’intervento di altri mediatori e, di regola, anche di procedere alla vendita diretta a persone non presentate dall’agenzia beneficiaria dell’esclusiva, con obbligo di pagamento della provvigione in caso di inadempimento);
  3. il riconoscimento dell’obbligo di pagare la provvigione per il solo fatto che il mediatore abbia procurato un’offerta conforme alle richieste, anche se il venditore si rifiuti poi di concludere l’affare;
  4. clausola di automatico rinnovo dell’incarico di vendita, salva disdetta entro un determinato termine prima della scadenza;
  5. clausole che, negli incarichi di locazione stagionale di immobili, delegano al mediatore, per conto del proprietario, sia l’eseguire le attività di manutenzione per mantenere l’immobile in buono stato locativo e le pulizie, sia la stipula di un’eventuale polizza assicurativa contro i rischi di perimento o danneggiamento dell’immobile;
  6. clausole che devolvono ad arbitri la decisione delle controversie nascenti dai contratti predisposti dal mediatore;
  7. clausola penale, di variabile ammontare, che obbliga al pagamento di una determinata somma di denaro qualora chi ha conferito l’incarico lo revochi o violi il patto di esclusiva comunque abbandoni l’affare[10];
  8. per ultimo, la clausola che rende l’acquirente proponente nei confronti del venditore-oblato.

5. Considerazioni conclusive

In conclusione, per mettere in luce le “debolezze” del principio sopra enunciato è stato necessario delineare la figura del contratto preliminare nei suoi tratti tipici, passando in rassegna le teorie che si sono alternate nel corso del tempo sino ad inoltrarci nella prassi delle agenzie immobiliari, dove la Pratica e l’interesse dell’agente immobiliare padroneggiano.

Alla luce di quanto precedentemente esposto è evidente che il nostro ordinamento non considera meritevole di tutela il preliminare di preliminare, rappresentando questo una mera manifestazione dell’interesse delle parti a predisporre una prima tranche di materiale normativo, ma privo di ogni forma vincolante.

E a ciò poco giova l’emersione di un interesse delle parti a predisporre gradualmente il contenuto del contratto, perché trattasi di interesse di “mero fatto”, privo di ogni vestimentum giuridico.

Occorre osservare che la “differenziazione dei contenuti negoziali”, come affermato dalla sentenza commentata, non è tale da poter alimentare contratti diversi in successione, perché tale differenziazione può semmai dare origine a doveri di comportamento, in base al principio di buona fede, lungo un itinerario che rileva sul piano della responsabilità precontrattuale.

E’ certo che la soluzione enunciata dal revirement della Cassazione non regge al vaglio del principio secondo cui ogni contratto deve avere la sua causa.

E questa sicuramente non può essere rappresentata dall’interesse a superare “le differenziazioni dei contenuti negoziali” così da evitare il ne bis in idem.

Ciò significa trascurare la circostanza che l’esercizio dell’autonomia privata non ha ragione e giustificazione in se stessa, in quanto pura esplicazione di un interesse e/o volontà delle parti, ma deve rispondere a regole organizzative e di compatibilità dell’ autonomia di “tutti” i privati,  ispirate al principio di legalità.

La “differenziazione degli effetti”, come del resto la stessa differenziazione delle conseguenze reali ed obbligatorie della vendita, attiene al piano degli effetti perseguiti dalle parti, non alle considerazioni – quali che siano – che quegli effetti giustificano e rendono meritevoli di tutela.

Costituisce perciò una pura petizione di principio l’affermazione che la “causa” di quei diversi effetti sta nella circostanza che, per l’ appunto, le parti “hanno interesse a differenziare”.

Si perde in tal modo di vista che la sequenza in esame appare pur sempre preordinata dall’ordinamento in una consecutio preordinata a generare in un trasferimento, fino a fare diventare tale causa “fungibile” con quella che sta alla base di qualunque spostamento di qualunque forma di ricchezza.

Vale altresì aggiungere che, se il concetto di causa concreta[11], è oggi servito per sottrarsi ai limiti della causa astratta, esso non può essere un pass partout per delegare alle parti un controllo che spetta invece all’ordinamento, quale giudizio sulla compatibilità tra l’atto di autonomia e il principio di legalità, che ricordiamo rappresenta una costante della civiltà giuridica europea[12], nel suo significato intrinseco di prevalenza della legge sui “valori mutevoli della società”.

La sentenza delle S.U. ci pone di fronte ad un quesito: “E’ mai possibile che dobbiamo ripetere oggi, dell’autonomia contrattuale, quello che gli antichi sostenevano della proprietà, che cioè si tratti di un vuoto al centro di norme e che questo sia privo di ogni razionalità interna se non quella dipendente dalla libera scelta delle parti e cioè del loro potere di dominio sui rispettivi affari patrimoniali?”[13]

E’ invece chiaro, e la storia ce lo insegna, che per salvaguardare l’autonomia delle parti è necessario che vi sia il rispetto di un ordine esterno alla stessa.

Esiste una differenza strutturale tra le regole della “volontà” quale espressione della libertà di scelta delle parti protetta dall’ordinamento, e quelle del “consenso” quale condizione oggettiva di realizzazione del trasferimento dei diritti. posta dalla legge.

In questa seconda accezione il contrario di “consensuale” non è “imposto” o ”dovuto”.  Esso contrario è costituito non da una “differenziazione delle volontà e degli effetti” ma dalla selezione normativa di una diversa condizione oggettiva di trasferimento, quale ad es. quella “reale”, o “tavolare”,  etc.

In questo secondo significato le modalità del “consenso” non sono disponibili nè più nè meno di quanto lo sia il meccanismo legale di trasferimento. È la stessa causa del contratto a dare ordine alla libertà di scelta nonché a garantire la certezza oggettiva della circolazione dei diritti. La decisione delle S.U compenetra senza mezzi termini i due piani tra di loro.

Nella fattispecie del contratto preliminare possiamo sicuramente affermare che il contratto trasferisce ricchezza, e ovviamente diritti: è per questa ragione che gli effetti contrattuali non si producono mai solo tra le parti (che sanno benissimo che tipo di contratto vogliono stipulare) ma soprattutto nei confronti dei terzi, degli eredi o aventi causa interessati agli spostamenti di ricchezza per eventuali aggressioni dei patrimoni, in nome della certezza oggettiva della circolazione dei diritti.

La legge ce lo dice chiaramente nel codice civile: vi è trasferimento dei diritti se al contratto preliminare, avente i requisiti stabiliti dall’art.1325 c.c. segue il contratto definitivo, o in alternativa e a certe ristrette condizioni una sentenza costitutiva dello stesso diritto ex art.2932 c.c.

Questo – come si è visto nella precedente analisi – non è un problema di “volontà” delle parti, è una soluzione del problema stesso di come deve avvenire un trasferimento di diritti reali per restare compatibile con la sicurezza della circolazione e le pretese di terzi e aventi causa.

La disciplina della trascrizione del preliminare introdotta dalla novella del ’97, a rafforzamento dell’esigenza di favorire la circolazione del traffico giuridico, avvicina il nostro modello a quello tedesco e romanistico, facendo acquistare al titulus (sia pure provvisoriamente) rilievo nei confronti dei terzi come situazione “finale”, cioè produttiva dell’ effetto reale, indipendentemente dai vizi e circostanze connessi al contenuto del contratto ed alle vicende del rapporto. Detto titulus consegue però il risultato (effetti) soltanto attraverso uno  specifico modus aquirendi. costituito dall’ esecuzione specifica, vale a dire davanti al giudice.

Questa, nell’alternativa tra il modello francese di totale consensualismo, fino ad impedire in radice il contratto preparatorio, e quello tedesco di totale “realismo” fino a nullificare l’ efficacia del consenso definitivo, è il modello – si ripete oggettivo – selezionato dal codice civile italiano e da esso “imposto” alla dinamica del trasferimento, a protezione di interessi che attengono alle parti, ma non solo a loro.

Ora, se non vi è il presupposto per il trasferimento di diritti, che ribadiamo avviene solo tramite questi passaggi “strutturali”, non vi è spostamento di ricchezza e quindi non vi è realizzazione di alcun affare. Certamente non di quello per cui appunto è predisposta tale sequenza.

Sembra perciò più corretto qualificare tale scrittura come accettazione di una proposta irrevocabile da intendersi come semplice manifestazione di intenti o fase avanzata delle trattative, resa seria e fondata dal versamento eventuale di una somma, al fine di giungere alla stipula di un vero e proprio impegno contrattuale cristallizzato nel contratto preliminare.

In conclusione appare assai più convincente la tesi della nullità del doppio preliminare per mancanza di causa icasticamente enunciata nel 2009 con la sentenza n. 8038 dalla stessa S.C., con cui accoglieva quel concetto di causa inteso come criterio esterno di validità del contratto, come criterio di razionalità dei trasferimenti di ricchezza.

E’ evidente come la soluzione a tutti i problemi emersi nel corso del presente lavoro trovano una risposta nel recupero del concetto di causa, piuttosto che nell’indagine sulla volontà delle parti.

Causa che negli ultimi anni si tenta di depotenziare ora con interventi legislativi di dubbia legittimità, ora con le diverse pronunce della S.C. che “intendono cogliere alcuni moderni orientamenti”, cosa che spetta al legislatore, piuttosto che farsi portavoce del  principio di legittimità, compito esclusivo presidiato dalla Corte Suprema.

Il principio di legalità ci insegna infatti che il concetto di causa non è altro che un sistema, si ripete, attraverso cui l’ordinamento misura la ragione e i limiti entro cui l’operazione può essere realizzata compatibilmente con gli “altri” interessi da esso presidiati: è un controllo di meritevolezza delle stessa rispetto agli interessi generali spettanti a tutti i soggetti dell’ordinamento.

Sappiamo inoltre che gli effetti del contratto trovano misura e giustificazione nella causa e vengono descritti dalla tipicità contrattuale, che trova un limite esplicito nell’art.1322 e cioè nella meritevolezza di quegli interessi che l’ordinamento protegge attraverso la fissazione del tipo.

La questione in esame è anzi un esempio da manuale della fallacia della critica che identifica la causa nella pura e semplice descrizione degli effetti.

Nel caso in esame si vede infatti benissimo che, con diversa gradazione, il contratto preliminare e quello definitivo possiedono almeno in parte la stessa causa: Invero ciò che viene riconosciuto dalla legge non è l’impegno a contrarre un futuro contratto definitivo “qualunque”; ma precisamente quel contatto definitivo i cui elementi sono cristallizzati nel progetto preliminare e rispetto a cui soltanto è possibile poi misurare la tutela delle parti, sia nella fase di esecuzione che in quella, addirittura anteriore, di produzione anticipata di alcuni effetti (ROPPO, Il contratto, cit.).

Ciò che caratterizza e differenzia le due figure sono precisamente i diversi “effetti” (obbligatori”, “reali”) assegnati dalla rispettiva causa al “medesimo” contenuto. Tant’è che, come nel caso in esame, un contratto preliminare “tipico”, può essere ciò nonostante in contrasto precisamente con quelle norme imperative che ne prescrivono la funzionalità alla produzione dell’effetto reale, se questo viceversa non viene contemplato. Questa considerazione è in grado di spiegarne l’invalidità ne più nè meno, e forse assai meglio, di quella che vi vede un contratto “atipico” che realizza interessi non meritevoli di tutela.

Un interrogativo sorge infatti spontaneo: Perché il mediatore può pretendere la provvigione in virtù di un contratto che non trasferisce diritti-ricchezza, rappresentando la stessa una percentuale del risultato utile conseguito?

E’ evidente che ancorare la provvigione al fatto di reperire una proposta conforme (alle esigenze del venditore) configura un contratto la cui causa è palesemente quella di un contratto di mandato.

La causa del contratto di mediazione consente tutt’al più di addebitare la responsabilità precontrattuale in capo alle parti in caso di fallimento dell’affare, nonostante l’azione di “messa in contatto” del mediatore (o il risarcimento del danno in caso di conferimento dell’incarico).

E’ chiaro che con questa sentenza la Cassazione abbia tentato di “normalizzare” e di adeguarsi a prassi consuete presso gli agenti immobiliari, garantendo loro il diritto alla provvigione alla mera sottoscrizione – da parte del proponente-venditore – di moduli prestampati e predisposti dagli stessi (con la relativa applicazione della disciplina consumeristica)

Il problema è che nella decisione delle Sezioni Unite la vera “causa in concreto” dell’ intera operazione è quella di consentire la provvigione del mediatore anche senza che venga prodotto alcun “affare”.

Nel codice civile il mediatore si assume un rischio che invece la decisione commentata ha eliminato, permettendo al mediatore di funzionare come mandatario ma di riscuotere ugualmente non un corrispettivo del lavoro ma un lucro di impresa, senza assumerne il rischio. Rischio che invece si accolla il mediatore in senso stretto, nella sua attività di messa in relazione delle parti, rischiando la mancata conclusione dell’affare.

C’è da chiedersi se nella prevalenza dell’ottica mercantile che caratterizza il panorama socio-economico del nostro tempo il problema del rapporto diritto civile – diritto commerciale non esiga di essere reimpostato affidando al diritto civile (e al codice civile) la funzione di riequilibrare comportamenti dettati all’origine da esclusive ragioni di convenienza di parte, in quanto legati alla logica del mercato, o meglio dei mercanti di turno.

È essenziale quindi recuperare un luogo in cui la commercializzazione dei rapporti ritrovi la civile unità dell’uomo e dei suoi principi fondamentali, rivalorizzando il principio di legalità per evitare di affidare il comando della nave, piuttosto che al capitano, all’elezione democratica. Eventualmente “al cuoco di bordo, che trasmetterà al megafono non più la rotta, ma ciò che mangeremo domani[14].


[1] L.Coviello, Dei contratti preliminari nel diritto moderno italiano, Milano, 1896.

[2] Gabrielli, G. Prassi della compravendita immobiliare in tre fasi, consensi a mani dell’intermediario, scrittura privata preliminare, atto notarile definitivo, in Riv.not.1994.

[3] Perego, I vincoli preliminari e il contratto, Milano, 1974.

[4] Tassinari, F. Dalle proposte di acquisto al preliminare: analisi di una prassi immobiliare, in Riv.not.1994.

[5] Rocca, Incarichi di intermediazioni immobiliare e vicenda intermediata nei moduli e formulari di cui all’art.5, L.39/1989, in Riv.not.,1994.

[6] Secondo Chianale, lo sdoppiamento del consenso nelle fasi del preliminare aperto e  del preliminare chiuso corrisponde ad una precisa esigenza delle parti. Il preliminare di preliminare è perciò pienamente ammissibile in quanto il fatto stesso che in tale contratto venga concluso dimostra l’esistenza di un interesse effettivo delle parti, né è mai stata spiegata la ragione per negare meritevolezza di tutela al loro programma contrattuale.

[7] Il mediatore professionale è un imprenditore commerciale in senso pieno. Così Martini, La mediazione, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1992.

[8] L’impatto di queste scelte normative è stato talmente forte che si è posto il dubbio se anche la mediazione potesse costituire una professione intellettuale. Prevalente è ancora l’opinione per cui, sia pure a fronte di una crescente qualificazione professionale, il mediatore comunque svolgerebbe un’attività di tipo materiale ovvero la messa in relazione delle parti e l’agevolazione della conclusione dell’affare. Tra l’altro anche l’obbligazione tipica del mediatore resterebbe di risultato: il diritto alla provvigione infatti sorge solo alla conclusione dell’affare (cfr. Zaccaria, La Mediazione, Padova, 1992).

[9] Mediazione tipica ed atipica e contratto di mandato.

[10] Occorre notare che normalmente il recesso dalle trattative senza giusta causa dà luogo a responsabilità precontrattuale, ma questo non accade nei confronti del mediatore a dire della Cass. 24 maggio 2002, n.7630 per la quale “In tema di mediazione (quantomeno nella sua forma tipica), è inconfigurabile la responsabilità precontrattuale, ex art. 1337 e 1338 c.c. Ne consegue che il conferente l’incarico di mediazione può, anche in assenza di giusta causa, liberamente recedere dal proseguire in questo suo intento, senza incorrere nella responsabilità di cui all’art. 1337 c.c. nei confronti del mediatore; nè egli risponde nei confronti di quest’ultimo ai sensi dell’art. 1338 c.c. per non avergli dato notizia della sussistenza di una causa d’invalidità del contratto oggetto dell’attività di mediazione, giacché di detto contratto il mediatore, in quanto tale, non è parte”.  Alla luce di queste breve considerazioni, si capisce sia il perché l’uso della modulistica sia così frequente nella prassi, sia le ragioni che rendono la clausola penale così importante: essa infatti consente una liquidazione anticipata e forfetaria del danno patito dal mediatore in caso di abbandono delle trattative da parte del cliente, in assenza della quale tale professionista potrebbe non vedersi riconosciuto alcunchè. Tra l’altro, nella pratica larga parte della modulistica evidenzia un uso assai atecnico della terminologia quale: caparra, multa penitenziale, deposito e penale.

[11] Recentemente, D. Messinetti ha criticato l’utilizzazione della causa concreta come “ventre molle” del concetto di causa.

[12] Franz Wieacker, Sulle costanti della civiltà giuridica europea, Rivista trimestrale di diritto pubblico, Milano, 1986

[13] Nicola Scannicchio, Il contratto, le parti…e gli altri, Riflessioni sul progetto di riforma del codice civile francese in materia di contratto e sulla funzione della causa nei codici civili nazionali e nell’ordinamento europeo.

[14] Søren Aabye Kierkegaard.

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