Mutuo dissenso e ripetibilità delle prestazioni già eseguite

in Giuricivile, 2020, 5 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. III civ., ord. 31/10/2019, n. 27999

Con l’ordinanza n. 27999 del 31 ottobre 2019, la terza sezione civile della Corte di Cassazione si è pronunciata sugli effetti del mutuo dissenso in relazione alle prestazioni già eseguite di un contratto di leasing traslativo, qualificando il mutuo dissenso come un negozio solutorio diverso sia dalla risoluzione sia dal contro-negozio.

Sommario:
1. Il caso in questione
2. Leasing di godimento e leasing traslativo
3. Leasing traslativo e autonomia negoziale
4. Scioglimento del contratto per mutuo dissenso: il contrasto sulla natura giuridica
5. La soluzione della Cassazione: mutuo dissenso come contratto solutorio
6. Il principio di diritto

Il caso in questione

Il caso affrontato dalla Cassazione concerneva la restituzione da parte di una ditta di un immobile (originariamente acquisito tramite un contratto di leasing finanziario traslativo) alla società cedente sulla base di un accordo tra le parti.

Pertanto, l’utilizzatore conveniva in giudizio il cedente affinché fosse accertata e dichiarata la risoluzione del contratto con condanna alla restituzione dei canoni versati oltre risarcimento dei danni.

Poiché in primo e secondo grado la domanda fu respinta, l’utilizzatore ricorse in Cassazione.

Leasing di godimento e leasing traslativo

La Suprema Corte in via preliminare si è soffermata sul contratto di locazione finanziaria e in particolare sulla distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento.

Segnatamente, la differenza tra i due contratti deve essere rinvenuto nella loro causa concreta. Nel leasing di godimento, si prevede infatti che la res esaurisca la sua utilità economica entro un determinato periodo di tempo, che coincide di regola con la durata del rapporto; diversamente, nel leasing traslativo, si intende realizzare un preminente e coessenziale effetto traslativo, dato che il bene è destinato a conservare, alla scadenza del rapporto, un valore residuo particolarmente apprezzabile per l’utilizzatore, in quanto notevolmente superiore al prezzo di riscatto, cosicché tale riscatto non costituisce un’eventualità marginale ed accessoria, ma rientra nella funzione delle parti assegnata al contratto.

Tale distinzione comporta una diversa disciplina tra le due figure, in particolare per quanto concerne l’ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore.

Nel leasing di godimento, il quale rientra nella categoria dei contratti ad esecuzione continuata e periodica, si applica infatti l’art. 1458 c.c.,[1] secondo il quale la risoluzione non si estende alle prestazioni già avvenute. A tal uopo i giudici di legittimità con l’ordinanza in esame hanno precisato che la limitazione ai contratti di durata opera solo laddove si realizzi una effettiva sinallagmaticità tra le prestazioni, ipotesi che ricorre soltanto nel caso del leasing finanziario di godimento e non anche in quello traslativo “non essendo in esso ravvisabile quella perfetta corrispettività a coppie delle prestazioni reciproche e periodiche che caratterizzano invece il leasing tradizionale, poiché tali prestazioni non solo non sono separabili giuridicamente ed economicamente dalle precedenti e dalle successive, ma non realizzano costantemente, durante la vita del rapporto, l’equilibrio sinallagmatico tra prestazione e controprestazione, costituendo ciascun canone il corrispettivo sia della concessione in godimento, per la parte già eseguita fino al momento della risoluzione, sia del previsto trasferimento della proprietà del bene, sicché non sussiste equivalenza delle posizioni delle parti al momento dell’anticipata risoluzione del rapporto e difetta quindi il presupposto essenziale per l’applicazione della disciplina dell’art. 1458 citato.

In aggiunta a ciò, l’operatività dell’art. 1458 c.c. nel contratto di leasing traslativo potrebbe rappresentare una soluzione vessatoria per l’utilizzatore, perché consentirebbe al concedente di trattenere una somma superiore al godimento, costituendo il canone un corrispettivo sia del godimento sia della prevista cessione.

Per questi motivi al contratto di leasing traslativo si applica in via analogica e in assenza di diversa pattuizione delle parti, per orientamento costante della giurisprudenza, l’art. 1526 c.c.[2] disciplinante la vendita con riserva di proprietà. Quest’articolo prevede al primo comma la restituzione delle rate pagate, fatta salva una detrazione per compensare il godimento del bene e al secondo comma la possibilità che le parti convengano che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità con possibilità per il giudice di ridurre l’indennità convenuta.[3]

Leasing traslativo ed autonomia negoziale.

Tanto premesso, la Suprema Corte ha tuttavia escluso che alla risoluzione del contratto di leasing traslativo segua automaticamente la restituzione dei canoni versati ex art 1526 c.c. in quanto è rimessa alle parti la possibilità di disporre diversamente tramite accordi restitutori. Non si può, infatti, prescindere dal concreto assetto negoziale degli interessi risultante dal contratto e dalla sua esecuzione. Lo stesso art. 1526 c.c., al comma 2, richiamato espressamente dal comma 3, riserva alle parti contraenti ampi margini di discrezionalità nella definizione degli accordi restitutori in caso di risoluzione del contratto per inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore, anche in deroga alla disciplina del comma 1, riconducendoli nella facoltà di stipula di una clausola penale, in relazione alla quale al giudice è conferito il potere di “reductio ad aequitatem” in caso di sproporzione della stessa.

Pertanto, per i giudici di legittimità, rimane destituita da ogni fondamento la tesi principale del ricorrente secondo cui la risoluzione del contratto di leasing traslativo imporrebbe sempre e comunque l’integrale restituzione di tutti i canoni corrisposti dall’utilizzatore.

Scioglimento del contratto per mutuo dissenso: il contrasto sulla natura giuridica

Per poter meglio comprendere la decisione della Corte nel caso di specie con riferimento alla natura del mutuo dissenso occorre brevemente accennare al contrasto giurisprudenziale tuttora esistente in materia.

La figura del mutuo dissenso è una forma di scioglimento volontario bilaterale del contratto che nasce dunque in virtù di una libera scelta delle parti. Si tratta di un’espressione dell’autonomia negoziale espressamente disciplinata dall’art. 1372 c.c., I comma, il quale testualmente dispone che :“Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”. La natura giuridica di questa figura è stata ampiamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza dando luogo ai tre seguenti orientamenti.

  1. Secondo il primo orientamento minoritario, il mutuo dissenso deve essere qualificato come un contro-negozio (contrarius actus) ossia come un negozio avente un contenuto uguale e contrario a quello che si scioglie in quanto gli effetti del negozio giuridico posto in essere sono irreversibili e non è concesso all’autonomia privata alcun potere di incidere sul precedente contratto tramite una risoluzione con effetti retroattivi.
  2. Un diverso e prevalente orientamento (detto del contrarius consensus) identifica il mutuo dissenso come un autonomo negozio risolutorio diretto a eliminare con efficacia retroattiva gli effetti del precedente negozio. Ne deriva che il negozio produce effetti eliminatori-ripristinatori con efficacia ex tunc. A tal uopo occorre i fautori di questa tesi hanno rilevato che  non sussiste alcun ostacolo all’operatività della retroattività purché non vengano compromessi i diritti acquistati da terzi medio tempore. Lo stesso art.1372 c.c. prevedendo che il contratto può essere sciolto per mutuo consenso ne ammette l’effetto retroattivo. Quanto ai diritti dei terzi, l’inserimento dell’istituto nell’ampia figura della risoluzione del contratto rende applicabile la clausola di salvaguardia di cui all’art.1458 c.c.
  3. Nell’ambito di questo orientamento si è sviluppata un’ulteriore teoria che, pur qualificando il mutuo dissenso come negozio risolutorio, con riferimento alla estinzione di negozi traslativi ha ritenuto necessario ricorrere ad un “negozio di trasferimento solutionis causa”. Sicché, l’effetto eliminatorio in questo caso deriverebbe da una fattispecie composta da due negozi: uno obbligatorio il quale imporrebbe al destinatario (originario acquirente) l’obbligo di ritrasferire un bene al precedente alienante e un secondo negozio solutionis causa di mero adempimento del primo.

La tesi in questione si basa sulla considerazione che il trasferimento di un diritto reale, pur attuandosi in virtù del semplice consenso legittimamente manifestato dalle parti, necessita di una specifica causa traslativa che il mutuo dissenso non possiede, in quanto la sua funzione economico-sociale si esaurisce nell’eliminazione di un precedente contratto.

La soluzione della Cassazione: mutuo dissenso come contratto solutorio.

Tanto precisato la Suprema Corte nel caso di specie ha disposto che lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso[4] si sostanzia in un nuovo contratto solutorio e liberatorio alla stregua del quale vanno regolati i “nuovi” effetti che vengono a determinarsi tra gli originari contraenti.

Sicché “se il “contratto solutorio” non contiene ulteriori accordi di natura transattiva e nulla dispone in ordine alla eventuale regolamentazione delle prestazioni già eseguite nella vigenza del contratto risolto, allo stesso non può ricondursi altro effetto che quello della cessazione dei vincoli obbligatori del precedente rapporto, dovendo ritenersi che le parti contraenti abbiano ritenuta satisfattiva la parziale attuazione, fino a quel momento, del rapporto obbligatorio attraverso le prestazioni corrispettive già eseguite, rapporto che viene quindi ad estinguersi consensualmente con efficacia ex nunc “[5]

Si esclude così la ripetibilità delle prestazioni già eseguite non operando, in assenza di una diversa esplicita volontà delle parti, la disciplina legale degli artt. 1458 e 1526 c.c. disciplinante gli effetti restitutori della risoluzione del contratto per inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore e  diretta a privare il titolo negoziale della efficacia obbligatoria, con effetto “ex tunc” richiedendo il ripristino dello “status quo ante“.

In tale ottica, il “negozio solutorio” ha la finalità di paralizzare la prosecuzione dell’originario rapporto obbligatorio senza incidere sulle prestazioni già eseguite diversamente quindi sia dalla risoluzione del contratto, in cui l’originario programma negoziale è divenuto inattuabile per fatti oggettivi privando d’interesse un’attuazione solo parziale; sia dall’altra figura del “contrarius actus” con il quale la parte intende revocare, invece, la precedente manifestazione di volontà.

Il principio di diritto

Confermando la decisione dei giudici di merito, la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto:

In tema di scioglimento per mutuo consenso, ai sensi dell’art. 1372 c.c., del contratto di leasing traslativo, non trova applicazione, neppure analogica, la disposizione dell’art. 1526 c.c. che prevede il ripristino delle originarie posizioni delle parti contraenti attraverso la restituzione all’utilizzatore delle rate versate ed il riconoscimento al concedente del diritto all’equo compenso dell’uso del bene, difettando nel caso di accordo solutorio l’indefettibile presupposto legale dell’inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore che determina la risoluzione del contratto, atteso che i contraenti nell’esercizio della loro autonomia negoziale hanno valutato confacente ai propri interessi non dare ulteriore seguito alla esecuzione del rapporto obbligatorio, ritenendosi soddisfatti dalla parziale attuazione del contratto. In tal caso, il contratto solutorio puro che non contenga ulteriori disposizioni concernenti il rapporto estinto produce quale unico effetto quello della liberazione delle parti contraenti dall’obbligo di eseguire le ulteriori prestazioni ancora dovute in virtù del precedente contratto”.


[1] Art. 1458 c.c. Effetti della risoluzione: La risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite. La risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.

[2] L’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. al leasing traslativo è giustificata dalla rilevanza degli elementi in comune tra i due contratti, atteso che il contratto è finalizzato al trasferimento del bene; che il rischio del perimento della cosa è posto a carico dell’utilizzatore; che il concedente ha la garanzia di poter riprendere, fino all’integrale pagamento del prezzo, la piena disponibilità del bene.

[3] Art. 1526 c.c.:  Risoluzione del contratto. Se la risoluzione del contratto ha luogo per l’inadempimento del compratore, il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto a un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. Qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d’indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l’indennità convenuta.

La stessa disposizione si applica nel caso in cui il contratto sia configurato come locazione, e sia convenuto che, al termine di esso, la proprietà della cosa sia acquisita al conduttore per effetto del pagamento dei canoni pattuiti.

[4] Lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso può realizzarsi anche per “facta concludentia”: Corte cass., Sentenza n. 15959 del 16/08/2004.

[5] cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 683 del 10/03/1966; id. Sez. 3, Sentenza n. 12476 del 11/12/1998.

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