Compravendita e onere della prova in tema di garanzia dei vizi: ancora sulle Sezioni Unite n. 11748/2019

in Giuricivile, 2019, 9 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., SS. UU. civ., sentenza n. 11748 del 3.5.2019

Nell’affrontare la tematica della garanzia dei vizi della cosa oggetto di compravendita occorre soffermarsi, in prima battuta, sulla definizione di contratto. Al riguardo, un ruolo centrale spetta sicuramente al disposto normativo di cui all’art. 1321 c.c., a mente del quale viene definito quale “accordo di due o più parti” volto a “costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.

Ciò che emerge con chiarezza è il fatto che il legislatore discorre di accordo con un fine ben preciso: evidenziarne la natura squisitamente negoziale, in quanto espressione di una volontà che, sorretta da comune intenzione, ha forza di legge tra le parti coinvolte. Il che ha condotto la giurisprudenza a ritenere che l’accordo debba considerarsi inesistente nell’ipotesi in cui risulti impossibile la giuridica identificazione della voluntas comune, e non anche nei casi in cui il consenso sia viziato o minato da errore[1].

Di qui la natura di requisito essenziale dell’accordo che va a riflettersi su un momento fondamentale, ovvero la conclusione del contratto. In proposito, il codice civile statuisce espressamente che il contratto si intende concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (art. 1326 c.c.).

Ne consegue che affinchè possa discorrersi di perfezionamento del contratto occorre che si realizzi la piena congruenza tra proposta ed accettazione. Dovendosi attribuire alla proposta natura di manifestazione univoca denotante l’impegno assunto dal proponente quale espressione di un intento atto ad essere assunto come contratto; mentre per accettazione, si deve intendere un atto avente natura recettizia, atteso che comporta una totale ed incondizionata adesione dell’oblato alla proposta, passaggio, quest’ultimo, fondamentale per poter considerare il contratto concluso.

Pertanto la proposta di concludere un dato contatto, atteggiandosi ad atto giuridico di natura negoziale atto a provocarne l’accettazione del destinatario, presuppone la volontà del proponente di impegnarsi[2]. Volontà che, come abilmente evidenziato in campo giurisprudenziale, rappresenta il punto di discrimine tra la proposta contrattuale ed una mera manifestazione di disponibilità a trattare[3].

Inoltre, la proposta per poter adempiere correttamente la funzione cui è predisposta, deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto che mira a concludere e, dunque, essere completa.

Si pensi, a tal proposito, al contratto di compravendita, tra i cui elementi essenziali va sicuramente annoverato il prezzo. Difatti, una obiettiva difformità tra proposta ed accettazione in merito al prezzo della cosa venduta comporta che il contratto non possa considerarsi venuto a giuridica esistenza, dovendosi, invece, ritenere che si tratti di un contratto annullabile per errore sulla portata della propria dichiarazione o sull’interpretazione della dichiarazione altrui.

Diversamente, è risultata essere problematica la tematica concernente l’onere probatorio in tema di garanzia del compratore dall’evizione e dai vizi della cosa.

Invero, non sussistono particolari perplessità nel ritenere che in caso di inadempimento del venditore, oltre alla responsabilità contrattuale da inadempimento o da inesatto adempimento, sia configurabile anche una responsabilità di tipo extracontrattuale sempre che il pregiudizio arrecato al compratore/acquirente abbia leso interessi di quest’ultimo sorti al di fuori del contratto e, come tali, aventi la consistenza di diritti assoluti[4].

Diversamente i dubbi sono insorti con riguardo all’individuazione di colui che è tenuto a fornire la prova in materia di garanzia del compratore dall’evizione e dai vizi della cosa, venendo qui in rilievo la disciplina delle obbligazioni principali del venditore ex art. 1476, punto n. 3), cod. civ..

Questione, quest’ultima, che ha portato alla elaborazione di un ampio ventaglio di posizioni interpretative non sempre univoche ma il cui dominio sulla scena giurisprudenziale è indubbio e per la cui trattazione si rinvia al paragrafo che segue.

La querelle giurisprudenziale in tema di onere probatorio nelle azioni di garanzia della cosa venduta

Le argomentazioni di elaborazione giurisprudenziale che negli anni sono andate succedendosi possono ricondursi a due linee di pensiero del tutto contrapposte.

Su di un piano, si colloca l’orientamento tradizionale che si incentra essenzialmente sul principio secondo cui l’onere della prova, nelle azioni volte a tutelare il compratore da vizi e/o difetti della cosa compravenduta, ricade sulla figura del compratore/acquirente intenzionato a far valere la garanzia[5].

Indirizzo, quest’ultimo, rimasto in piedi sino al 2013, anno in cui i giudici di legittimità sono intervenuti nuovamente sulla questione spostandosi verso soluzioni non già di continuità bensì di rottura con la posizione sino ad allora dominante.  E, dunque, dando il via ad una vera e propria opera di revirement.

Viene, al riguardo, in rilievo la seconda tappa giurisprudenziale, il cui inizio ha avuto luogo con la pronuncia n. 20110/2013, la quale, invero, è stata redatta anche in considerazione dei principi assunti da un precedente intervento delle Sezioni Unite (SS.UU. n. 13533/2001[6]).

In particolare, in questa seconda fase, il Supremo Consesso ha proceduto ad una accurata ripartizione soggettiva in tema di prova dei vizi/difetti della res oggetto di compravendita e, dunque, tenendo conto del ruolo assunto dalla parte coinvolta.

Queste le conclusioni: “il compratore/acquirente è tenuto ad allegare l’inesatto adempimento o a denunciare la presenza di difetti o vizi che rendano la cosa non idonea all’uso cui è destinata o che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”. Diversamente, ricade “sul venditore l’onere di provare, anche per il tramite di presunzioni, di aver consegnato un bene conforme alle caratteristiche del tipo prodotto ordinariamente ovvero la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione”. Con l’ulteriore precisazione che, laddove il venditore fornisca la prova richiesta, sarà onere poi del compratore dimostrare l’esistenza di un difetto/vizio intrinseco alla cosa e, come tale, ascrivibile al venditore.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite

Al fine di porre fine al suindicato contrasto interpretativo, le Sezioni Unite sono recentemente intervenute (sentenza n. 11748/2019) sulla vexata quaestio partendo, in via preventiva, da una accurata disamina dell’impianto normativo su cui regge la disciplina del contratto di compravendita e, nello specifico, la garanzia dai vizi della cosa.

In particolare, hanno preso le mosse dal disposto normativo di cui all’art. 1476 c.c., incentrandosi essenzialmente sulle obbligazioni principali del venditore. Norma, quest’ultima, che opera una classificazione sotto un triplice ordine.

In primo luogo, tratta dell’obbligazione di consegna[7], avente ad oggetto un bene che, di regola, al momento dell’adempimento si considera già di proprietà dell’acquirente. Infatti, l’effetto traslativo e, dunque, il passaggio dal patrimonio del venditore a quello del compratore, ha luogo con la conclusione del contratto, sempre che si tratti di bene determinato.

Diverso è il caso in cui il bene sia individuato solo nel genere, atteso che in quest’ultima ipotesi la c.d. traditio della res si verifica con l’individuazione, attività specificamente regolamentata dall’art. 1378 c.c.. Quest’ultima, difatti,  permette di specificare e/o misurare i beni generici al fine di determinare il trasferimento della proprietà da un soggetto ad un altro.

Secondo la norma, l’individuazione può avvenire d’intesa tra le parti o nei modi da esse stabiliti, di guisa che può essere precedente o contestuale alla consegna del bene all’acquirente secondo gli accordi intercorsi. Il che conduce alla conclusione secondo cui, nel caso di cosa determinata solo nel genus,  il venditore non potrà considerarsi libero dalla prestazione e, conseguentemente dal rischio della perdita del bene, fintanto che non sia intervenuta la specificazione del bene.

Ragionamento, quest’ultimo, che assume una valenza particolarmente significativa allorquando si discorra di beni che necessitano di essere traspostati da un luogo ad un altro, atteso che, in tal caso, l’effetto traslativo si considera realizzato al momento della consegna nelle mani del vettore/spedizioniere. Dovendosi specificare che sul punto già in passato era intervenuta la giurisprudenza di legittimità con il fine di sottolineare che l’acquirente, in caso di perimento della merce nel corso del viaggio, è tenuto ad agire avverso il vettore/spedizioniere (e non già nei riguardi del venditore). Ciò in ragione del fatto che, un volta intervenuta la consegna della merce, il rischio trasla dalla figura del venditore a quella dello spedizioniere[8].

In seconda battuta, vi è da annoverare, quale obbligazione a carico del venditore, quella di far acquistare al compratore la proprietà della cosa o il diritto, allorquando l’acquisto non sia effetto immediato del contratto (art. 1476, punto 2), c.c.).

Al riguardo, non può non compiersi una duplice valutazione che tenga conto dei rispettivi dati normativi: l’art. 1376 c.c. nonché l’art. 1472 c.c.

Il riferimento al primo articolo è necessario atteso inerisce ai casi in cui l’acquisto della proprietà non sia conseguenza immediata della stipula del contratto, venendo qui in rilievo la categoria dei contratti ad effetti reali. Questi ultimi, infatti, si caratterizzano per il fatto che il trasferimento o la costituzione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale di godimento) avvengono per effetto del consenso (c.d. consenso traslativo) manifestato legittimamente dalle parti/contraenti. E tra questi vi rientra di certo il contratto di compravendita.

Passando alla disamina della seconda disposizione normativa, va detto che la ratio di tale combinato disposto va ricercato essenzialmente nel fatto che l’art. 1376 c.c., nel discorrere di effetto traslativo non immediato richiama, seppur non direttamente, lo schema operante in tema di vendita di cose future (ex art. 1472 c.c.). Da quest’ultimo, difatti, discende un obbligo in capo ai contraenti, ovvero l’obbligo, da parte del venditore, di far acquistare[9] la proprietà in capo al compratore non appena il bene viene ad esistenza.

Passaggio argomentativo, quest’ultimo, che ci introduce alla terza tipologia di obbligazione normativamente positivizzata a carico del venditore, rappresentata dalla garanzia – del compratore – dai vizi della cosa (punto n.3, art. 1476 c.c.).

In proposito, le Sezioni Unite hanno escluso che l’immunità dai vizi possa assurgere a vero e proprio contenuto del contratto e, pertanto, è profilo che non può assumere la configurazione di “oggetto” (quale elemento essenziale) del negozio giuridico, sull’assunto che l’obbligazione ben può riguardare anche una prestazione futura. Conclusione che ha condotto i giudici all’elaborazione del seguente principio: “ l’obbligazione del venditore si risolve nella consegna della cosa, oggetto del contratto e, nell’ipotesi di cose determinate solo nel genere, in una duplice obbligazione: da un lato, individuare cose di qualità non inferiori alla media, dall’altro, consegnare la cosa una volta individuata”. Di conseguenza, sul venditore non ricade alcun onere probatorio  relativamente alle immunità della cosa, non potendo, questi, assumere una obbligazione circa i modi di essere attuali della res dedotta in contratto; diversamente, va considerato quale parte soggetta ai rimedi civilisticamente prescritti e posti a tutela della garanzia per i vizi della cosa venduta[10].

Dunque, le Sezioni Unite intervengono nell’ottica di una totale ripresa dell’orientamento di stampo tradizionale, ritenendo pienamente condivisibile quell’opzione interpretativa tendente a porre a carico del compratore la prova dell’esistenza dei vizi della res[11]. Sottolineando, altresì, la necessità di qualificare quest’ultima in termini di “prova positiva (di un fatto costitutivo del diritto alla risoluzione o modificativo del contratto)”, in quanto non deputata alla verifica dell’inesistenza del vizio medesimo.


[1] Cfr. Cass., n. 3378/1993

[2] [2] Cfr. Cass., 3 luglio 1009, n. 6788; Cass. 4 dicembre 2007, n. 25290; Cass. 14 luglio 2011, n. 15510

[3] La Cassazione ha ritenuto che non possa qualificarsi come proposta in senso tecnico-giuridico la mera richiesta di esecuzione della prestazione, seppur comprensiva di indicazioni relative alle condizioni economiche della futura contrattazione (Cass., ord. 29 settembre 2012, n. 15856)

[4] Si veda Cass. n. 11410/2008, secondo cui: “ quando il danno lamentato è la conseguenza diretta del minor valore della cosa venduta o della sua distruzione o di un suo intrinseco difetto di qualità si resta nell’ambito della responsabilità contrattuale, le cui azioni sono soggette a prescrizione annuale”.

[5] In tal senso, Cass. 8533/1994; Cass. 8963/1998; Cass. 13695/2007; Cass. 18125/2013

[6] Le Sezioni Unite con pronuncia n. 13533/2001 hanno unificato la disciplina dell’onere della prova dell’inadempimento dell’obbligazione nelle azioni di adempimento contrattuale, di risoluzione contrattuale e di risarcimento dei danni da inadempimento. Nello specifico, hanno statuito che il creditore deve provare soltanto la fonte del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi all’allegazione della circostanza relativa all’inadempimento della controparte, indipendentemente dal fatto che intenda agire per l’adempimento, per la risoluzione contrattuale o per il risarcimento del danno. Grava, invece, sul debitore l’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, dovendo pertanto dimostrare l’avvenuto adempimento. Viene, inoltre, specificato che nell’ipotesi in cui il creditore deduca l’inesatto adempimento dell’obbligazione gli sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (da intendersi quale violazione di doveri accessori, come il dovere di informazione, ovvero come inosservanza dell’obbligo di diligenza o, ancora, in termini di difformità quantitative o qualitative dei beni), di guisa che sul debitore ricadrà la prova e/o dimostrazione dell’esatto adempimento.

[7] Al riguardo, va specificato che se, per un verso, la consegna determina la materiale disponibilità del bene da parte del compratore, per altro, invece, non comporta un automatico trasferimento del diritto di proprietà. Al riguardo, occorre distinguere a seconda che si tratti di contratti consensuali e contratti reali. Nel primo caso, la traditio della cosa ha luogo con la conclusione del negozio giuridico, venendo in rilievo l’art. 1376 c.c.; diversamente, nei contratti reali la consegna ed il trasferimento del diritto avvengono simultaneamente, in ragione del fatto che il perfezionamento di questi ultimi ha luogo quando al consenso si accompagna la dazione della res.

[8] Sul punto, Cass. n. 4344/2001

[9] Acquisto della proprietà che opera in maniera irretroattiva e, dunque, ex nunc.

[10] Cfr. Cass. n. 8418/2016, pronuncia con la quale i giudici di legittimità, nel sottolineare la posizione di mera soggezione del venditore, hanno statuito che la facoltà dell’acquirente di domandare la risoluzione del contratto di compravendita (ex art. 1492 c.c.) ha natura di diritto potestativo. Qualificazione, quest’ultima, che conduce alla conclusione per cui l’interruzione della prescrizione (annuale) dell’azione de qua può aversi solo a seguito della proposizione della domanda giudiziale e non già mediante atti di costituzione di mora (art. 1219 c.c.), atteso che questi ultimi si sostanziano in intimazioni e/o richieste di adempimento aventi ad oggetto diritti di credito (e non anche diritti potestativi).

[11] A sostegno di tale principio, va richiamato il disposto normativo di cui all’art. 2697 c.c., rubricato “Onere della prova”, a mente del quale “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” .

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