Con la sentenza n. 7374 del 13 aprile 2015, la terza sezione civile della Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., chiarendo i casi in cui la Cassazione può effettuare un controllo diretto sul “fatto”, in genere riservato al giudice di merito.
Il caso di specie riguardava la richiesta della risoluzione del contratto da parte di un privato nei confronti di una società specializzata nel trapianto di capelli per il grave inadempimento conseguente ad un intervento. Nel merito, a seguito del parziale accoglimento da parte del Tribunale, la Corte d’Appello aveva rigettato la domanda del ricorrente censurando la violazione da parte del giudice di primo grado dell’art. 112 c.p.c., avendo egli dichiarato la responsabilità della società convenuta per un inadempimento contrattuale diverso da quello dedotto in giudizio dall’attore.
Secondo la Corte di legittimità, la Corte d’appello ha tuttavia errato nel considerare gli inadempimenti accolti dal tribunale diversi da quelli dedotti in giudizio, dal momento che vi era in realtà una vera e propria “interdipendenza” tra gli stessi. Ne consegue che, non ponendosi al di fuori della domanda attorea, il giudice di prime cure non ha violato in alcun modo il principio di correlazione ex art. 112 c.p.c.: nell’indagine finalizzata all’individuazione del contenuto delle domande in causa, infatti, “non si è limitato al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute“, ma ha agito conformemente al principio secondo cui “il giudice di merito deve avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa dedotta, come desumibile dalla natura delle vicende allegate e rappresentate dalla parte istante“.
Semmai il tribunale, come rilevato dal ricorrente nell’appello incidentale, pur avendo riconosciuto la violazione degli obblighi contrattuali da parte della società, aveva errato nel rilevare la non sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto, rigettando la domanda senza alcuna motivazione sul punto. A tale omessa motivazione seguiva peraltro l’incongrua pronuncia della corte territoriale, la quale respingeva l’appello “perché concernente il ‘quantum’ di un danno che l’attore non aveva comunque dimostrato di aver subito”, quando il gravame riguardava piuttosto la gravità degli inadempimenti della società e la loro idoneità a determinare la risoluzione del contratto.
La Corte di legittimità ha pertanto ribadito che il principio secondo il quale “l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione, quando tale interpretazione determina un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o a quello del tantum devolutum quantum appellatum (art. 345 c.p.c.), trattandosi della denuncia di un error in procedendo che attribuisce alla Corte di Cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti“.
In conclusione, la Suprema Corte ha dunque accolto il ricorso, rinviando il giudizio alla corte d’appello al fine di valutare la gravità degli inadempimenti riscontrati e determinare così, ex art. 1455 c.c., l’invocata risoluzione del contratto.
(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 7374 del 13 aprile 2015)