Quando si discute delle vicende inerenti la progettazione, la realizzazione e il passaggio di cavi elettrici, telefonici e di altre infrastrutture tecnologiche che interessano l’intera collettività di un’area urbana o metropolitana, occorre soffermarsi sul regime che esse sono chiamate ad osservare rispetto ai beni immobili di proprietà privata che necessariamente attraversano al loro passaggio e alle situazioni giuridiche che sorgono da tale contatto.
Pare opportuno fare anzitutto riferimento al r.d. 11.12.1933, n. 1775[1], che all’art. 119 stabilisce che “Ogni proprietario è tenuto a dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche aeree o sotterranee che esegua chi ne abbia ottenuto permanentemente o temporaneamente l’autorizzazione dall’autorità competente”. Come emerge dal dettato normativo, tale servitù (c.d. di elettrodotto) sorge di regola a seguito di un provvedimento autoritativo della pubblica amministrazione, ed è finalizzata a consentire alla collettività, gravando sul fondo di proprietà privata, il rifornimento di energia elettrica e la capillare estensione della rete elettrica. Si tratta di una servitù coattiva, ma costituita dall’espresso esercizio del potere amministrativo.
Da tale atto della pubblica amministrazione, definito dal legislatore del 1933 come autorizzatorio ma de facto ablatorio, sorge il diritto dell’ente pubblico gestore della rete di ottenere sul fondo privato la costituzione di tale servitù, diritto espressamente riconosciuto come di natura potestativa, coerentemente con la disciplina delle (altre) servitù coattive ex art. 1032 c.c.: “L’imposizione della servitù coattiva di elettrodotto prevista dall’art. 119 del r.d. n. 1775 del 1933 è oggetto del diritto potestativo di carattere privatistico ex art. 1032 c.c., sicché la relativa domanda appartiene alla giurisdizione ordinaria, anche ove siano scaduti i termini della dichiarazione di pubblica utilità e dell’autorizzazione all’impianto della linea, circostanza che rileva ai soli fini dell’imposizione della servitù in via espropriativa”[2].
Inoltre, la giurisprudenza ha da tempo ammesso come anche la servitù pubblica di elettrodotto possa sorgere a seguito del decorso del tempo, mediante l’usucapione di detto diritto reale da parte del gestore della rete che abbia eseguito la posa dei cavi e la cui condotta di passaggio, non interrotta, non clandestina né violenta, si sia protratta negli anni a venire. Ciò in quanto l’esistenza di una disciplina settoriale, quale è quella di cui al r.d. n. 1775/1933, non può comportare una deroga alla normativa codicistica relativa alle modalità di acquisto dei diritti reali, modalità che comprendono l’usucapione[3].
Diversa sarebbe l’ipotesi in cui la pubblica amministrazione non potesse vantare neppure l’acquisto, nelle vie di fatto, mediante usucapione. In tali casi, in assenza di un valido titolo atto a dimostrare la titolarità di un diritto reale di servitù (per disposizione normativa, per provvedimento amministrativo ablatorio-espropriativo, per effetto di un negozio con il privato proprietario del fondo servente o, appunto, per usucapione), l’amministrazione incorrerebbe in un puro illecito di abusiva occupazione. Infatti, “Quando la società concessionaria del servizio telefonico installi propri impianti sul fondo altrui, senza che siano intervenuti provvedimenti ablatori, deve riconoscersi la facoltà del proprietario di detto fondo di adire il giudice ordinario, anche con domanda di rimozione di dette opere, atteso che si verte in tema di tutela di posizioni di diritto soggettivo, lese da comportamenti materiali non ricollegabili all’esercizio di poteri autoritativi della pubblica amministrazione”[4].
Ne consegue che il privato proprietario può in tal caso agire anche ai sensi dell’art. 2058 c.c. per il risarcimento del danno in forma specifica, con la conseguente rimozione dei cavi e il ripristino della situazione antecedente all’abuso amministrativo: “Qualora infine la società concessionaria del servizio telefonico, installando sull’altrui proprietà cavi, appoggi o altre apparecchiature destinate, in assenza dei due soli ricordati titoli legittimanti, anche o esclusivamente al servizio di terzi proprietari o inquilini di altri immobili, imponga, in via di fatto, un peso corrispondente all’esercizio di una servitù di telefonia, incorre in un’attività lesiva del diritto di proprietà. Un siffatto comportamento legittima il privato a chiedere il risarcimento del danno per l’indebita compressione del suo diritto dominicale e, se non sia nemmeno assistito da piani esecutivi debitamente approvati e dichiarati di pubblica utilità ai sensi dell’art. 185 del D.P.R. cit., e non sia quindi ricollegabile all’esercizio di poteri autoritativi della pubblica amministrazione, ad agire altresì per la rimozione delle opere abusive”[5].
Il legislatore è successivamente intervenuto con il d.lgs. 1.8.2003, n. 259[6], con il quale ha riordinato ed esteso l’ambito di applicazione delle servitù in materia[7], con prescrizioni che, come già detto, si affiancano a quelle della normativa regia senza sostituirla, e che perlopiù la ricalcano.
In particolare, sancisce l’art. 86[8] d.lgs. n. 259/2003 che “1. Le autorità competenti alla gestione del suolo pubblico adottano senza indugio … le occorrenti decisioni … nell’esaminare le domande per la concessione del diritto di installare infrastrutture: a) su proprietà pubbliche o private ovvero al di sopra o al di sotto di esse, ad un operatore autorizzato a fornire reti pubbliche di comunicazione; … 3. Le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli articoli 87 e 88, e le opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra ottica in grado di fornire servizi di accesso a banda ultralarga, effettuate anche all’interno degli edifici sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria”[9].
Alla luce di quanto sinora esposto, sembrerebbe anzitutto potersi desumere che fra gli operatori gestori delle reti pubbliche di comunicazione possano essere compresi non soltanto i gestori della rete elettrica, ma altresì i gestori delle altre reti di comunicazione, in primis quella telefonica. Il d.lgs. n. 259/2003 si atteggerebbe dunque a normativa dall’ambito di applicazione più esteso, volto a ricomprendere infrastrutture di comunicazione che non potrebbero rientrare nel r.d. n. 1775/1933, limitato alle sole reti elettriche. Se ne deduce altresì che gli stessi principi dettati per queste ultime si applicano anche alle reti telefoniche e alle reti di trasmissione di dati informatici.
In secondo luogo, detti gestori di reti di comunicazione sono da ritenersi titolari di una servitù pubblica simile a quella disciplinata dal r.d. n. 1775/1933, ma sottoposta al regime amministrativo della concessione[10]. Poiché il passaggio di cavi elettrici e telefonici costituisce expressis verbis un’opera di urbanizzazione primaria, la servitù viene pertanto costituita dalle autorità competenti per il governo del territorio e la pianificazione urbanistica.
Detta concessione può avvenire mediante una apposita procedura di dichiarazione di pubblica utilità e di espropriazione, come stabilisce il successivo art. 90[11]: “1. Gli impianti di reti di comunicazione elettronica ad uso pubblico, ovvero esercitati dallo Stato, e le opere accessorie occorrenti per la funzionalità di detti impianti hanno carattere di pubblica utilità, ai sensi degli articoli 12 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327. 2. Gli impianti di reti di comunicazioni elettronica e le opere accessorie di uso esclusivamente privato possono essere dichiarati di pubblica utilità con decreto del Ministro dello sviluppo economico, ove concorrano motivi di pubblico interesse”.
L’attuale impostazione normativa distingue pertanto tra gli impianti ad uso pubblico, il cui carattere di pubblica utilità discende direttamente dalla legge, e gli impianti ad uso privato, che possono essere dichiarati di pubblica utilità con provvedimento autoritativo dell’amministrazione statale. In entrambi i casi, “3. Per l’acquisizione patrimoniale dei beni immobili necessari alla realizzazione degli impianti e delle opere di cui ai commi 1 e 2, può esperirsi la procedura di esproprio prevista dal decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327”, previ tentativi di bonario componimento e cessione volontaria da parte del privato che vi acconsenta e che concordi con la determinazione dell’indennizzo. Con la conseguenza che, a mezzo della procedura di espropriazione del testo unico del d.P.R. n. 327/2001, può essere oggetto di esproprio la porzione di immobile necessaria per la realizzazione delle opere funzionali al passaggio delle infrastrutture elettriche e telefoniche[12] e, conseguentemente, può essere instaurato il rapporto concessorio con il gestore della rete elettrica o telefonica, il quale acquista la proprietà di tale infrastruttura pubblica, circoscritta all’interno della proprietà privata.
Questa ipotesi speciale di procedura espropriativa può essere utilizzata nel caso di impianti che abbiano carattere di pubblica utilità e ricadano nelle ipotesi di cui all’art. 90, commi 1 e 2. Il rapporto che si viene ad instaurare tra il gestore titolare della servitù di elettrodotto e il privato proprietario è anch’esso simile a quello delineato dal legislatore regio del 1933. Stabilisce infatti l’art. 91[13] d.lgs. n. 259/2003 che “1. Negli impianti di reti di comunicazione elettronica di cui all’articolo 90, commi 1 e 2, i fili o cavi senza appoggio possono passare, anche senza il consenso del proprietario, sia al di sopra delle proprietà pubbliche o private, sia dinanzi a quei lati di edifici ove non siano finestre od altre aperture praticabili a prospetto. 2. Il proprietario od il condominio non può opporsi all’appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto, nell’immobile di sua proprietà occorrente per soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o dei condomini. 3. I fili, cavi ed ogni altra installazione debbono essere collocati in guisa da non impedire il libero uso della cosa secondo la sua destinazione. … 5. Nei casi previsti dal presente articolo al proprietario non è dovuta alcuna indennità”. A ben vedere, si tratta di una vera e propria proprietà pubblica, frutto dell’espropriazione di una porzione di immobile, che si addossa, si affianca o accede materialmente a quella privata servente.
Al contrario, l’art. 92[14] si occupa di quei diritti di passaggio di elettrodotti che non siano stati oggetto della procedura di espropriazione di cui agli articoli precedenti, e che dunque più fedelmente ricalcano la disciplina del 1933. Secondo tale norma, “1. Fuori dei casi previsti dall’articolo 91, le servitù occorrenti al passaggio con appoggio dei fili, cavi ed impianti connessi alle opere considerate dall’articolo 90, sul suolo, nel sottosuolo o sull’area soprastante, sono imposte, in mancanza del consenso del proprietario ed anche se costituite su beni demaniali, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, e della legge 1° agosto 2002, n. 166 … 5. Contro il provvedimento di imposizione della servitù è ammesso ricorso ai sensi dell’articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327”. In questo caso, può ragionevolmente ritenersi che oggetto dell’espropriazione ex d.P.R. n. 327/2001 sia il diritto reale di servitù, non accompagnato dall’espropriazione di una sezione di bene immobile necessario a costituire le infrastrutture di passaggio dei cavi[15].
Alla pubblica amministrazione è dunque riconosciuto il potere di espropriare, nelle forme di cui al testo unico d.P.R. n. 327/2001, il diritto di proprietà relativamente alla porzione di immobile strettamente necessario al passaggio dei cavi elettrici o telefonici oppure, ove non sia necessaria l’espropriazione di parti di terreno, il potere di espropriare il diritto reale limitato di godimento, consistente nella sola servitù di passaggio di elettrodotto, gravante sull’immobile privato attraversato. Pertanto, anche con riguardo agli impianti e alle reti di comunicazione diversi da quelle elettriche, si tratta pur sempre di una servitù pubblica, di passaggio dell’elettrodotto, e coattiva, imposta alla proprietà privata per l’utilità della collettività.
Le prerogative del privato proprietario nell’ambito della servitù pubblica
Occorre poi chiarire quali siano i tratti del rapporto di servitù che, sia per il fondo servente sia per l’utilità pubblica dominante, discendono da tali diritti reali.
La servitù di elettrodotto originaria, ai sensi dell’art. 121 r.d. n. 1775/1933, conferiva all’utente gestore della rete elettrica “la facoltà di: a) collocare ed usare condutture sotterranee od appoggi per conduttori aerei e far passare conduttori elettrici su terreni privati e su vie e piazze pubbliche, ed impiantare ivi le cabine di trasformazione o di manovra necessarie all’esercizio delle condutture; b) infiggere supporti o ancoraggi per conduttori aerei all’esterno dei muri o facciate delle case rivolte verso le vie e piazze pubbliche, a condizione che vi si acceda dall’esterno e che i lavori siano eseguiti con tutte le precauzioni necessarie sia per garantire in sicurezza e l’incolumità, sia per arrecare il minimo disturbo agli abitanti. Da tale servitù sono esenti le case, salvo per le facciate verso le vie e piazze pubbliche, i cortili, i giardini, i frutteti e le aie alle case attinenti”. A seguito della costituzione di servitù pubblica di elettrodotto nella sua originaria formulazione, il gestore della rete elettrica acquisiva non soltanto il diritto reale consistente nel passaggio sul fondo privato, ma altresì la possibilità di interrare le condutture elettriche, e dunque di invadere il sottosuolo del privato. In alternativa, aveva diritto di ancorare i cavi elettrici sulle facciate delle abitazioni private, limitatamente a quelle che affacciassero sulla pubblica via e ad esclusione delle corti interne.
Si trattava dunque di una servitù che non consentiva soltanto il passaggio dei cavi elettrici, ma comprendeva in sé anche la realizzazione delle opere necessarie a contenerli, conservarli e garantirne la sicurezza e il prudente utilizzo. Con ulteriore aggravio delle prerogative della proprietà privata dell’edificio.
In egual misura, però, “L’impianto e l’esercizio di condutture elettriche debbono essere eseguiti in modo da rispettare le esigenze e l’estetica delle vie e piazze pubbliche e da riuscire il meno pregiudizievole possibile al fondo servente, avuto anche riguardo all’esistenza di altri utenti di analoga servitù sul medesimo fondo, nonché alle condizioni dei fondi vicini ed all’importanza dell’impianto stesso. Debbono inoltre essere rispettate le speciali prescrizioni che sono e saranno stabilite per il regolare esercizio delle comunicazioni telegrafiche e telefoniche”.
Infine, con riguardo ai rapporti tra ente gestore della rete elettrica e privato proprietario dell’immobile servente, l’art. 122 precisa che “L’imposizione della servitù di elettrodotto non determina alcuna perdita di proprietà o di possesso del fondo servente. Le imposte prediali e gli altri pesi inerenti al fondo rimangono in tutto a carico del proprietario di esso”. Da una parte infatti “Il proprietario non può in alcun modo diminuire l’uso della servitù o renderlo più incomodo”. Contemporaneamente, la servitù non può essere resa più invadente di quel che già sia, e dunque non può comportare ulteriori aggravi per il bene privato servente. Prosegue l’art. 122 sostenendo che “Del pari l’utente non può fare cosa alcuna che aggravi la servitù. Tuttavia, salvo le diverse pattuizioni che si siano stipulate all’atto della costituzione della servitù, il proprietario ha facoltà di eseguire sul suo fondo qualunque innovazione, costruzione o impianto, ancorché essi obblighino l’esercente dell’elettrodotto a rimuovere o collocare diversamente le condutture e gli appoggi, senza che per ciò sia tenuto ad alcun indennizzo o rimborso a favore dell’esercente medesimo. In tali casi, il proprietario deve offrire all’esercente, in quanto sia possibile, altro luogo adatto all’esercizio della servitù. Il cambiamento di luogo per l’esercizio della servitù può essere parimenti richiesto dall’utente, se questo provi che esso riesce per lui di notevole vantaggio e non di danno al fondo”.
In altri termini, il privato proprietario del bene immobile servente, gravato dal passaggio dell’elettrodotto, poteva essere limitato nell’esercizio del diritto di proprietà esclusivamente nella misura minore possibile, ovverosia nella misura strettamente indispensabile e sufficiente a garantire l’efficiente passaggio dei cavi elettrici, la loro messa in sicurezza e la possibilità di una futura manutenzione.
Ciò significa che l’esistenza di una servitù di elettrodotto non poteva spingersi sino ad impedire al privato proprietario di effettuare, nel proprio potere di godere e disporre del bene, lavori di innovazione, costruzione e ristrutturazione. In tali casi, infatti, se necessario all’effettuazione dei lavori, il dominus ben poteva imporre al gestore della rete elettrica la rimozione dei cavi o la loro diversa collocazione, nella quale può ritenersi compresa l’attività di interramento. Quanto sinora detto, tuttavia, a condizione che il proprietario garantisse un’alternativa adatta all’esercizio della servitù, e dunque un passaggio parimenti efficace per i cavi elettrici all’interno del proprio immobile. Al ricorrere delle predette circostanze, il privato non era tenuto ad alcun indennizzo o rimborso per lo spostamento dei cavi o il loro interramento. Diversamente argomentando, si sarebbe giunti a condizionare l’attività innovativa del privato proprietario al consenso del gestore elettrico, o al sinallagmatico rimborso delle spese da questi affrontate, con eccessiva limitazione dei diritti di proprietà in materia di beni immobili urbani.
La normativa appena illustrata non è mai stata abrogata ed è dunque da ritenersi tuttora in vigore.
Giova tuttavia aggiungere che il legislatore è poi intervenuto con il d.P.R. 18.3.1965, n. 342[16], il quale all’art. 9 stabiliva che “Gli elettrodotti da costruirsi da parte dell’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica a tensione uguale o superiore a 220.000 Volt sono inamovibili e ad essi non si applicano le disposizioni del quarto, quinto e sesto comma dell’art. 122 del testo unico 11 dicembre 1933, n. 1775”. Si tratta degli elettrodotti di più grande dimensione e recanti i cavi di c.d. altissima tensione, come tali costituenti opere inamovibili e difficilmente adattabili alle esigenze del fondo servente.
In effetti, relativamente a tali impianti, finalizzati alla distribuzione di energia elettrica in quantità massicce e per una collettività di ampie dimensioni, doveva ritenersi che non sia possibile pretenderne lo spostamento, la modifica o l’interramento, poiché “La regola generale, posta dall’art. 122 del testo-unico n. 1775 del 1933, è che la servitù per la installazione di linee elettriche sia di carattere amovibile, e cioè comporti il diritto potestativo per il proprietario del fondo di ottenere, a carico dell’esercente dell’elettrodotto, lo spostamento della linea, purché il proprietario stesso offra a tal scopo un altro luogo adatto all’esercizio della servitù”[17].
Ebbene, due sono i casi nei quali è contemplata la deroga a questo regime ordinario, la prima di fonte negoziale, poiché “lo stesso art. 122 prevede la possibilità di costituire una servitù inamovibile, mediante la quale, con una apposita pattuizione, e quindi con il consenso del proprietario del fondo asservito, quest’ultimo abdica al diritto di conseguire lo spostamento dell’elettrodotto”. La seconda è di fonte normativa, in quanto “l’art. 9 d.P.R. n. 342 del 1965 prevede che la costruzione da parte dell’Enel di elettrodotti a tensione uguale o superiore a 220 kV sono inamovibili “ope legis”, con conseguente inapplicabilità del diritto di spostamento di cui all’art. 122 t.u. del 1933. Al di fuori di tali eccezioni, non è contemplata l’imposizione della servitù inamovibile in via autoritativa, in quanto comporterebbe la sottrazione al proprietario del diritto a lui garantito dal ripetuto art. 122”[18]. Sicché, al di fuori delle ipotesi appena viste, comunque abrogate a seguito dell’adozione del d.l. 25.6.2008, n. 112[19], che ha soppresso quanto restava del già manipolato d.P.R. n. 342/1965, non sono contemplate ipotesi di cavi inamovibili.
Anche secondo il novello regime di cui al Codice delle comunicazioni elettroniche, i rapporti che si instaurano tra il proprietario dell’immobile servente e l’ente gestore della rete pubblica traggono ispirazione dai principi sinora visti, di minor aggravio possibile alla proprietà privata del bene servente e di non eccessiva limitazione delle facoltà di godimento e di disposizione dell’immobile. Stabilisce infatti l’art. 92 d.lgs. n. 259/2003 che “6. Fermo restando quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, la servitù deve essere costituita in modo da riuscire la più conveniente allo scopo e la meno pregiudizievole al fondo servente, avuto riguardo alle condizioni delle proprietà vicine. 7. Il proprietario ha sempre facoltà di fare sul suo fondo qualunque innovazione, ancorché essa importi la rimozione od il diverso collocamento degli impianti, dei fili e dei cavi, né per questi deve alcuna indennità, salvo che sia diversamente stabilito nella autorizzazione o nel provvedimento amministrativo che costituisce la servitù”.
Ciò è coerente con le previsioni generali del codice civile in materia di servitù, secondo le quali la servitù prediale dev’essere esercitata in modo da soddisfare il bisogno del titolare del diritto, ma con il minor aggravio del fondo servente (art. 1065 c.c.). Peraltro, detto titolare non può fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente e, di contro, il proprietario del fondo non può compiere atti che tendano a diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più scomodo (art. 1067 c.c.).
Trova dunque conferma il principio secondo cui l’esercizio della servitù da parte del gestore non può limitare eccessivamente la proprietà privata del bene servente, tanto che il privato titolare ben può apportare all’immobile tutte le opere di innovazione, costruzione e ristrutturazione, anche nel caso in cui ciò imponga al gestore di rimuovere, spostare o interrare i cavi elettrici o telefonici. Dette attività non fanno maturare neppure un diritto al rimborso delle spese sopportate dal gestore della rete elettrica o telefonica, che è tenuto a porre in essere i lavori di spostamento necessari per consentire al privato l’esecuzione dei lavori sul proprio bene.
Del resto, diversamente ragionando, si giungerebbe all’assurda conclusione per cui il privato proprietario di un immobile urbano non potrebbe apportare allo stesso la necessaria manutenzione, se non a condizione di effettuare il rimborso in favore del gestore degli oneri economici dovuti alla rimozione delle condutture elettriche. E questo non soltanto configurerebbe un ulteriore peso gravante sul bene in favore del bene dominante (o addirittura, in difetto della realità, del proprietario del bene dominante), ma un’eccessiva discriminazione rispetto agli altri proprietari privati circostanti. In altri termini, la distribuzione urbanistica delle infrastrutture di comunicazione non può comportare la completa esautorazione della proprietà privata, imponendo, oltre che la servitù, anche la sopportazione delle spese relative all’esercizio di questa.
Dello stesso tenore la giurisprudenza maggioritaria, per cui “Le servitù coattive, quale che sia stato, a norma dell’art 1032 cod. civ., il loro modo di costituzione, non cessano di essere soggette alla disciplina legislativa prevista per ciascuna di esse, a meno che le parti, nella sfera della loro autonomia contrattuale, non vi abbiano derogato. Ne consegue che nel caso in cui la servitù di elettrodotto sia stata costituita per usucapione, il trasferimento di essa in luogo diverso è disciplinato non già dall’art 1068 cod. civ., ma dall’art 122 del tu 11 dicembre 1933 n 1775, che pone a carico dell’esercente la servitù le spese dello spostamento dello elettrodotto. (V 1822/71, mass n. 352345)”[20].
Infatti, “Nell’ordinamento vigente non è configurabile una servitù di elettrodotto diversa da quella (tipica) disciplinata dal tu 11 dicembre 1933 n. 1775 (cui rinvia l’art 1056 cod. civ.), sicché l’usucapione si aggiunge ai titoli di acquisto (convenzione, sentenza, espropriazione per pubblica utilità) previsti da tale disciplina speciale, ma non può dar luogo ad un rapporto diverso da quello da questa contemplato. Da ciò deriva l’ulteriore conseguenza che la disciplina dell’art 122 del tu citato – il quale, diversamente dall’art 1068 cod. civ. (applicabile sia alle servitù volontarie che a quelle coattive), conferisce al proprietario del fondo servente il diritto di ottenere lo spostamento della servitù di elettrodotto a spese dell’esercente della stessa, salvo diverso accordo fra le parti – non è influenzata dal modo di costituzione della servitù e rimane egualmente applicabile non solo quando il diritto sia stato costituito in forza di uno dei titoli (sopra indicati) previsti dalla legge speciale, ma anche quando sia stato acquistato per usucapione. (V. 1822/71, mass n 352345)”[21].
Da ciò consegue che, quando lo spostamento dell’elettrodotto sia necessario per consentire la ristrutturazione edilizia, gli oneri economici di detto intervento rimangono a carico dell’ente gestore della rete, coerentemente con il disposto dell’art. 1068 c.c., secondo il quale il proprietario del bene gravato dalla servitù non può trasferire l’esercizio della stessa in un luogo diverso da quello nel quale essa sia stata originariamente costituita, a meno che tale vincolo non sia diventato gravoso per il fondo servente oppure se impedisce l’esecuzione di lavori, riparazioni, miglioramenti. In tal caso, il proprietario può offrire un luogo diverso, ed egualmente comodo, per l’esercizio della servitù, e la controparte non può rifiutare.
Anche secondo la giurisprudenza di merito, “Ai sensi dell’art. 122 R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775 (T.U. delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), nel caso di spostamento di una servitù di elettrodotto, non gravano sul proprietario del fondo servente le spese relative alla rimozione e all’interramento di cavi elettrici posti lungo i muri perimetrali e lungo la facciata di un immobile”[22]. Ciò soprattutto con riguardo ai casi in cui il privato debba procedere all’effettuazione di lavori, migliorie o ristrutturazioni dell’immobile, posto che “In materia di servitù telefoniche, il proprietario dell’immobile gravato dall’appoggio di cavi, fili o impianti installati dal gestore telefonico, che intenda effettuare lavori di innovazione o manutenzione dell’immobile, ha il diritto a veder rimuovere gli impianti predetti, fornendo la prova della necessità della rimozione per la realizzazione degli interventi predetti e sempre che non vi sia un divieto di rimozione degli impianti, espressamente stabilito nell’autorizzazione o nel provvedimento amministrativo che ha costituito la servitù”[23].
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, sembra potersi concludere che la titolarità della servitù pubblica in capo all’ente gestore della rete elettrica o telefonica comporti altresì la sopportazione delle spese necessarie per lo spostamento, la rimozione o l’interramento dei cavi ove addossati alla facciata dell’immobile servente, in tutti i casi in cui dette attività siano necessarie per l’esercizio più agevole delle prerogative della proprietà privata, per la conservazione, l’innovazione e la manutenzione del bene gravato.
Si può altresì ritenere che, poiché l’art. 1068 c.c. sancisce che il trasferimento del luogo di esercizio della servitù può essere disposto anche dall’autorità giudiziaria, sia di conseguenza giustiziabile innanzi al giudice ordinario il diritto del privato proprietario del bene servente ad ottenere lo spostamento delle condutture che impediscano la manutenzione, l’innovazione o la ristrutturazione edilizia. Con l’ulteriore conseguenza che, ove l’ente gestore imponga, per l’assolvimento dei doveri appena descritti, una contromisura economica, spesso obtorto collo accettata dai privati per non interrompere l’esecuzione di lavori sull’immobile, il pagamento di tali somme sia per il privato indebito e perciò ripetibile.
[1] “Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici”.
[2] Cass. Sez. Un., ord. 15.9.2015, n. 18081, Rv. 636194 – 01.
[3] Cass. II, 23.5.1984, n. 3148, Rv. 435194 – 01; Cass. II, 16.4.1981, n. 2306, Rv. 413042 – 01; Cass. II, 28.4.1981, n. 2579, Rv. 413350 – 01.
[4] Cass. Sez. Un., 15.11.2007, n. 23623, Rv. 600380 – 01; Cass. Sez. Un., 26.7.1994, n. 6962, Rv. 487533 – 01.
[5] “(cfr. Cass. S.U. 26 luglio 1994 n. 6962; 19 gennaio 1991 n. 517; 16 gennaio 1986 n. 207 cit. e 3 ottobre 1989 n. 3963, quest’ultima in tema di elettrodotto)” (Cass. 2.12.1998, n. 12245).
[6] “Codice delle comunicazioni elettroniche”.
[7] Come meglio infra, a tutte le reti di comunicazione a carattere infrastrutturale, in primis quella telefonica.
[8] “Infrastrutture di comunicazione elettronica e diritti di passaggio”.
[9] A conferma che la normativa in esame si applica altresì alle reti infrastrutturali per l’accesso alla rete internet/in fibra ottica.
[10] Anche in tal caso, una concessione anomala, frutto della combinazione tra la figura dell’espropriazione (della servitù o della porzione di proprietà su cui insistono i cavi e le opere infrastrutturali, comprimendo la proprietà privata e trasferendo la relativa situazione reale in capo all’amministrazione) con quella della concessione traslativa (di un diritto o di un potere che l’amministrazione trasferisce in capo al gestore della rete elettrica o telefonica).
[11] “Pubblica utilità – Espropriazione”.
[12] Nella maggior parte dei casi, si tratta di sezioni longitudinali di terreno, lungo il confine e poco ingombranti, necessarie al passaggio dei cavi.
[13] “Limitazioni legali della proprietà”.
[14] “Servitù”.
[15] L’ipotesi dell’art. 90 sarebbe dunque riservata agli elettrodotti più grandi, ingombranti ed importanti, mentre quella di cui all‘art. 92, ricalcando più fedelmente il r.d. n. 1775/1933, si limiterebbe a prevedere l‘espropriazione del solo diritto reale limitato di servitù prediale, non essendovi alcuna necessità di ulteriore espropriazione, né di costruzione di infrastrutture aggiuntive. Esempi della prima ipotesi possono essere gli elettrodotti di grandi dimensioni che attraversano le campagne, mentre esempi della seconda ipotesi possono essere i cavi elettrici che collegano più edifici urbani nel centro cittadino, correndo lungo le loro facciate.
[16] “Norme integrative della legge 6 dicembre 1962, n. 1643 e norme relative al coordinamento e all’esercizio delle attività elettriche esercitate da enti ed imprese diversi dall’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica”.
[17] T.A.R. Campania, Napoli, n. 2763/2004.
[18] T.A.R. Campania, Napoli, n. 2763/2004.
[19] “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria”.
[20] Cass. II, 28.4.1981, n. 2579, Rv. 413350 – 01.
[21] Cass. II, 23.5.1984, n. 3148, Rv. 435194 – 01; Cass. II, 16.4.1981, n. 2306, Rv. 413042 – 01.
[22] Giudice di pace di Piacenza, 12.9.2002.
[23] Trib. Lecce, 22.1.2013, n. 271.