Qual è la (vera) natura dell’art. 3 Legge 458/88? Di seguito una nota all’ordinanza interlocutoria n. 17017/2022 con la quale la Cassazione, nel tentativo di uniformare la fattispecie dell’occupazione acquisitiva ai principi costituzionali e convenzionali più attuali in materia di espropriazione, ha rievocato la nota dicotomia tra occupazione acquisitiva e usurpativa.
I fatti di causa
Nel mese di aprile del 2001, il sig. Santoro conveniva in giudizio la Cooperativa Solemar – subentrata nel 1995 alla Cooperativa “Consorzio dello Stretto” – la quale chiamava in garanzia il Comune di Messina, per chiedere, in via principale, la restituzione di alcuni terreni, iscritti in catasto al “fg 39, part. 683-383-384”, previo accertamento del suo diritto di proprietà e, in subordine, il risarcimento del danno.
In primo grado, il Tribunale aveva rigettato la domanda di restituzione del Santoro, ritenendo che l’occupazione dei terreni da parte del Comune integrasse sì la più grave fattispecie dell’occupazione “usurpativa”, ma che, tuttavia, a causa della irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione dell’opera pubblica, il fondo non poteva più essere restituito[1]. Pertanto, condannava la Cooperativa Solemar (e il Comune a tenerla indenne) a pagare una somma a titolo di indennità di occupazione illegittima per le particelle 684 e 383; invece, per la restante particella 384, ne accertava la proprietà in capo all’attore e ne veniva pertanto ordinata la restituzione al medesimo, poiché non era stata coinvolta nel decreto di acquisizione del 1999, ma solo utilizzata dal Comune per realizzare strade e marciapiedi.
La Corte d’appello, in riforma parziale della sentenza di primo grado, da un lato, confermava la decisione di rigettare la domanda di restituzione dell’attore stante la irreversibile trasformazione del fondo, dall’altro, riquantificava in melius le indennità di occupazione[2] e aggiungeva altresì l’ulteriore posta a titolo di risarcimento per la perdita di utilità, ricavabili dalla immissione in possesso dei terreni alla domanda di risarcimento del danno.
Brevi cenni su occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa
La giurisprudenza amministrativa più risalente[3] conosceva l’istituto della cd. espropriazione in sanatoria, volta ad assicurare la possibilità di sanatoria, in forza di un decreto di espropriazione emesso ex post con effetti ex tunc, a opere pubbliche realizzate in virtù di un’occupazione d’urgenza scaduta o di un’occupazione abusiva. Tale situazione evidenziava dei limiti soprattutto sul versante della tutela del privato, in quanto al proprietario, a fronte della perdita del diritto, non era riconosciuta una adeguata riparazione sul piano economico.
La Cassazione[4], dunque, elaborò la figura dell’occupazione appropriativa, che si verifica quando il fondo è stato occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità e ha subito una irreversibile trasformazione in esecuzione dell’opera di pubblica utilità, trasformazione che ha prodotto l’effetto traslativo del diritto in capo alla p.a., senza che però sia intervenuto un valido decreto di esproprio. Il privato, in tal caso, non può che chiedere la tutela per equivalente, essendosi già perfezionato l’acquisto a titolo originario in capo all’Amministrazione.
Tale fenomeno viene contrapposto a quello di occupazione usurpativa, caratterizzato dalla apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza ravvisata nell’ipotesi di assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità o, secondo alcuni, nell’annullamento della dichiarazione ex tunc, o di sua inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera pubblica. In tale fattispecie, il proprietario può scegliere tra la restituzione del bene e, ove a questo rinunci così determinando il prodursi dell’effetto traslativo, la tutela per equivalente[5].
A seguito dell’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza n. 735/2015, ogni distinzione tra occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa è stata superata. Deve parlarsi, in entrambi i casi, di occupazione abusiva o illegittima tout court, posto che la relativa domanda risarcitoria è caratterizzata da una medesima causa petendi, rappresentata da un illecito a carattere permanente[6].
Infatti, le Sezioni Unite del 2015 hanno chiarito che “in materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla CEDU, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”, comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicché il privato ha diritto di chiederne la restituzione. L’illecito a carattere permanente, insito sia nell’occupazione appropriativa che in quella usurpativa è dunque “inidoneo a comportare l’acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato”.
La disciplina applicabile e i problemi interpretativi dell’art. 3 l. 458/88
L’art. 3, comma 1, l. 458/88, da alcuni considerato espressa consacrazione, seppur settoriale, dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, stabilisce il diritto al risarcimento del proprietario del terreno “utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata”, per il danno causato dal provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo[7] con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene.
Tale disciplina, ancorché abrogata dall’art. 58 del d.P.R. 327/2001, resta comunque applicabile alle fattispecie anteriori all’entrata in vigore del Testo Unico delle Espropriazioni, avvenuta in data 30/6/2003.
La Corte d’appello, richiamandosi al contenuto della pronuncia delle Sezioni Unite n. 735/2015, non ha preso posizione sulla questione inerente al tipo di occupazione realizzata dal Comune di Messina, limitandosi a precisare che, dopo tale sentenza, la distinzione tra occupazione usurpativa e occupazione appropriativa “non assumeva più rilievo” e che, nella fattispecie in esame, si applicasse la disciplina dell’art. 3 l. 458/88, essendosi realizzato un programma di edilizia residenziale pubblica, spettando dunque al privato solo il risarcimento del danno.
Nel ricorso in Cassazione, il ricorrente assume vi sia stata violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. 458/88 ex artt. 360 n. 3 c.p.c. e 360 n. 5 c.p.c., per omesso esame di fatto decisivo, rappresentato dall’assenza di alcuna dichiarazione di pubblica utilità, ritenendo dunque che, nella fattispecie, non ricorresse il presupposto legittimante l’esclusione della restituzione ex art. 3, rappresentato dalla “costruzione e manipolazione del bene contrassegnata dal vincolo di scopo conseguente una dichiarazione di pubblica utilità” e, pertanto, avesse diritto alla restituzione delle aree occupate.
Si è invero dibattuto sulla questione se l’esclusione della restituzione al proprietario dei suoli occupati debba essere giustificata e, dunque, condizionata dall’esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, che ne affermi il vincolo di scopo.
Secondo una tesi giurisprudenziale[8], l’operatività della esclusione della restituzione del bene, “resta subordinata alla preventiva esistenza di una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell’immobile”, a ciò inducendo sia il tenore della norma che, con formula analoga a quella ex art. 42, comma 3, Cost. introduce uno specifico vincolo di scopo (“per finalità di edilizia residenziale”), che è da escludere in assenza di dichiarazione, sia la “caratterizzazione della fattispecie della norma considerata, di annullamento o di declaratoria di illegittimità del provvedimento espropriativo, che necessariamente presuppone l’esistenza della dichiarazione di pubblica utilità”, sia l’interpretazione recepita dalla C.cost.[9], che considera la norma come una sostanziale applicazione al settore specifico della edilizia residenziale pubblica della figura della occupazione appropriativa, caratterizzata dall’esistenza di detta dichiarazione.
Secondo altra interpretazione[10], condivisa peraltro anche dalla pronuncia in esame, l’art. 3 non può invece ricondursi all’istituto dell’occupazione acquisitiva, da un lato, non essendo configurabile l’effetto acquisitivo in favore dell’ente territoriale in mancanza di una legittima procedura espropriativa e, dall’altro, neppure essendo ipotizzabile l’accessione invertita in favore di cooperative, mancandone i presupposti[11].
Pertanto, tale disposizione si applicherà nelle ipotesi nelle quali, comunque, alla trasformazione irreversibile del terreno consegua necessariamente l’acquisto della stessa da parte di chi ha realizzato l’opera, anche in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità, donde l’impossibilità della restituzione.
Disamina della sentenza
Nella pronuncia in esame, la Cassazione richiama il ragionamento svolto sul suddetto art. 3 dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 460 del 2019, che, a sua volta, fa riferimento a quanto statuito dall’Adunanza Plenaria con sentenza n. 2 del 2016.
Se si interpretasse la disposizione secondo un criterio letterale, essa consentirebbe tuttavia la reintroduzione di una fattispecie di espropriazione indiretta, conseguente al mero fatto della irreversibile trasformazione dell’area a seguito del compimento dell’opera pubblica, con correlativo acquisto della proprietà del fondo da parte di chi ha realizzato le opere. È dunque necessario, a parere della giurisprudenza amministrativa sopra citata, sottoporre la disposizione a “un’opera di interpretazione giuridica che tenga conto degli approdi raggiunti dalle Corti interne alla luce dei fondamenti pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.
A tale scopo, deve quindi essere “escluso il presupposto sostanziale “a monte” (il potere di acquisizione indiretta), con la conseguenza che cade, necessariamente, l’effetto meramente procedimentale “a valle” (il potere di non retrocedere il bene)”, così riconvertendo anche quest’ultima residuale ipotesi di occupazione appropriativa nel solco dei principi ormai consolidati dettati dalla giurisprudenza e “salvandola” anche dalle possibili censure di incostituzionalità ex art. 117, comma 1, Cost.
Infine, la Cassazione, dopo aver ammonito la Corte d’appello a non aver previamente in ogni caso verificato se la fattispecie integrasse o meno una ipotesi di occupazione appropriativa[12], accoglie l’interpretazione dell’Adunanza Plenaria, lasciando alla Corte d’appello di Messina in sede di rinvio la decisione sul caso, decisione che quindi non “dovrebbe” escludere a priori la possibilità di restituzione del suolo al proprietario.
Conclusioni
Il tentativo della giurisprudenza di uniformare la fattispecie dell’art. 3 ai principi costituzionali e convenzionali più attuali in materia di espropriazione ha dato adito a numerosi dubbi.
Occorre anzitutto sintetizzare i presupposti al ricorrere dei quali è applicabile l’istituto disciplinato ex art. 3, comma 1 (oltre a quello implicito ratione temporis), come risultante dall’interpretazione fornita dalla sentenza in esame (che ha recepito l’orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato):
- a) è una disposizione settoriale che, dunque, si applica alle ipotesi di utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata (il cd. vincolo di scopo);
- b) dà diritto al risarcimento del danno al privato nel caso in cui risulti una “dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell’immobile”;
- c) se la procedura ablatoria si è invece svolta in mancanza di provvedimento o con un provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, non si esclude la possibilità di restituzione al privato.
Tale ricostruzione sembra tuttavia rievocare la dicotomia ormai superata tra occupazione appropriativa e occupazione usurpativa.
Inoltre, la Cassazione non chiarisce quali siano i presupposti in presenza dei quali il soggetto che ha realizzato l’opera è tenuto alla restituzione e come quest’ultima debba avvenire. Infatti, la restituzione spesso (come nel nostro caso) richiede la demolizione dell’opera, in quanto il suolo è già stato irreversibilmente trasformato e, pertanto, il ripristino dello stato originario potrebbe avvenire solo in presenza di un intervento strutturalmente modificativo della nuova fisionomia.
[1] In particolare, la particella 683 era stata oggetto di un decreto di acquisizione della proprietà del Comune (decreto n. 470 del 1999) che, sebbene dichiarato illegittimo in via incidentale, non poteva essere annullato dal giudice ordinario e ciò impediva quindi anche di pronunciare l’accertamento della proprietà in capo all’attore. La particella 384 era stata illegittimamente occupata dalla Solemar, in quanto tale area non rientrava tra quelle assegnatele per la realizzazione del programma edilizio (la Cooperativa aveva infatti costruito gli immobili su terreni diversi da quelli occupati in via di urgenza, indicati con decreto n. 461/1985).
[2] Attraverso la riquantificazione del valore dei terreni, operando una “media tra i valori espressi dal CTU col metodo della permuta e con quello sintetico-comparativo”.
[3] Ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 1978, n. 14 e 19 dicembre 1975, n. 1327.
[4] Cass. 26 febbraio 1983, n. 1464.
[5] Nel caso di occupazione acquisitiva si ha un illecito istantaneo a effetti permanenti e il diritto al risarcimento del danno si prescrive in 5 anni dalla irreversibile trasformazione del fondo, che coincide con il completamento dell’opera nelle sue componenti essenziali; nel caso di occupazione usurpativa, poiché il proprietario non perde la proprietà (se non nel momento in cui rinunci ad essa), si ha un illecito permanente, che non si prescrive.
[6] Nello stesso senso: Cass., n. 7135 del 2015; Cass., n. 12260 del 2016; Cass., n. 22929 del 2017.
[7] La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, la quale, con sentenza del 27 dicembre 1991 n. 586, ne ha esteso l’applicabilità anche all’ipotesi di mancanza del provvedimento espropriativo.
[8] Cass., n. 18239 del 2005 e Cass., n. 20131 del 2013.
[9] C.cost., n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991.
[10] S.U. n. 12546/1992.
[11] I presupposti che darebbero luogo alla accessione invertita (e che, nel caso di specie, non sussistono) sono la irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un’opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) e la appartenenza del bene a un soggetto pubblico. Nella fattispecie in esame, da un lato, la costruzione delle opere di edilizia pubblica è realizzata da parte di cooperative all’uopo delegate dal Comune e, dall’altro, gli alloggi costruiti vengono di regola assegnati a privati.
[12] In particolare, secondo la Cassazione in esame, la Corte d’appello avrebbe dovuto verificare se vi fosse o meno nel caso di specie una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell’immobile.