Breve esposizione dei fatti di causa
La questione trae origine dal rigetto da parte del Giudice amministrativo di prime cure di un ricorso presentato da una società, dichiarata concessionaria a seguito di procedura ad evidenza pubblica (rectius: gara pubblica), avverso un’autorità (parte concedente).
Nel dettaglio, la ricorrente (concessionaria) agiva innanzi al T.a.r. ponendo a corredo della propria posizione specifiche e dettagliate doglianze, raggruppabili sotto un diverso ordine di considerazioni.
Difatti, chiedeva dichiararsi l’illegittimità della condotta inerte serbata dall’autorità (concedente) a fronte di istanza di accesso; domanda, quest’ultima, presentata dalla società con un fine ben preciso: ottenere una revisione del piano tariffario caratterizzante il servizio pubblico, oggetto di concessione, sull’assunto di una drastica ed imprevedibile riduzione della quantità posta a sostegno della stessa.
Di qui, invocava la condanna dell’autorità al risarcimento del danno da ritardo e, conseguentemente, l’ostensione degli atti del relativo procedimento.
Il giudice di primo grado, invero, respingeva il ricorso sull’assunto che l’inerzia dell’autorità andava intesa non già quale ipotesi di silenzio inadempimento bensì trovava conforto nel c.d. “rischio operativo” quale presupposto connotante i rapporti di concessione di pubblico servizio. Precisando, per un verso, che la società ricorrente (concessionaria) nessuna legittima aspettativa avrebbe potuto vantare circa il quantitativo addotto a fondamento della concessione né, per altro, poteva dirsi profilato a carico dell’autorità, quale concedente, uno specifico dovere di revisione del prezzo nell’ipotesi di variazioni del quantitativo.
Segue appello della società concessionaria che, a seguito di discussione in camera di consiglio, viene ad essere respinto con conseguente adesione della tesi argomentativa e, dunque, del principio di diritto già sostenuto dai giudici amministrativi in prima battuta.
Una disamina dei riferimenti normativi
Prima di addentrarci nell’analisi della statuizione offerta dal Consiglio di Stato, appare necessaria una preliminare disamina delle previsioni normative nonché dell’assetto giurisprudenziale che assumono un ruolo centrale nella tematica di cui si dibatte.
Partendo dall’impianto normativamente positivizzato, le fonti di regolamentazione da doversi tenere in debita considerazione sono rappresentate dalla Legge n. 241/1990 (Legge sul procedimento amministrativo) nonché dal Decreto Legislativo n. 50/2016, meglio noto quale “Codice dei Contratti Pubblici”.
In particolare, con riguardo al primo intervento legislativo (Legge n. 241/1990) rilevano le disposizioni di cui agli artt. 20, 2, 2bis regolamentanti rispettivamente il silenzio della Pubblica amministrazione, la conclusione del procedimento nonché le conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento.
Al riguardo, va precisato che da una lettura integrata delle suesposte norme si evince che il legislatore si è preoccupato di definire nonché perimetrare ambito, tempi e limiti entro cui un dato procedimento deve concludersi, stante l’accurata regolamentazione del c.d. “danno da ritardo”.
Non a caso, la legge (art. 2-bis cit.) stabilisce, al primo comma, che le “amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. Il che conduce ad uno specifico meccanismo sanzionatorio per il soggetto pubblico che non abbia provveduto come da legge prescritto, venendo a rilevare, in tema di definizione della condotta tenuta dalla P.A., specifici criteri attributivi della responsabilità dell’amministrazione propriamente riportati nella norma in commento.
Criteri rilevanti sotto molteplici angolazioni: oggettiva, soggettiva (stante il riferimento all’inosservanza dolosa e colposa) nonché temporale.
È chiaro che si pone il problema di comprendere se anche il silenzio vada inteso quale ipotesi integrante il suddetto danno da ritardo. Ed in proposito viene in soccorso il medesimo articolo 2-bis Legge 241/1990 a mente del quale tra le ipotesi derogatorie e, come tali, non comportanti la ricorrenza del pregiudizio sopra menzionato, vi rientra il c.d. “silenzio qualificato” (cfr. comma 1-bis, art. 2-bis Legge cit.).
Ebbene, al fine di meglio definire cosa debba intendersi per silenzio qualificato è sicuramente doverosa una previa disamina del dato normativo rappresentato dall’articolo 20 Legge citata.
Quest’ultimo, infatti, nel disciplinare il c.d. silenzio assenso statuisce che, al di fuori dell’ipotesi contemplata dall’articolo 19 (Legge n. 241 cit.), : “nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide”; con la precisazione ulteriore (cfr. ultimo capoverso dell’art. 20 cit.) che non sia intervenuta alcuna comunicazione da parte dell’amministrazione, nel termine sancito dall’articolo 2, di diniego ovvero che la stessa non abbia provveduto all’indizione, entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, di una conferenza di servizi.
Si evince chiaramente che con il silenzio assenso (accoglimento) il legislatore abbia inteso disciplinare, seppur indirettamente, una forma di accesso positivo, sempre che non vengano a profilarsi quelle situazioni e/o circostanze deroganti propriamente previste dalla stessa norma in commento.
Tra queste rilevano le ipotesi contemplate dai commi terzo e quarto dell’articolo 20.
Trattasi, in primo luogo, dei casi in cui vengano assunte dalla P.A. competente determinazioni in via di autotutela (richiamandosi sul punto, gli articoli 21- quinquies[1] e 21- nonies[2]); in secondo luogo, invece, viene ad essere sancita una vera e propria eccezione all’operatività del silenzio assenso che trova fondamento e/o base legale in una accurata perimetrazione delle materie presente nella previsione de qua.
In particolare, il quarto comma statuisce espressamente che le disposizioni regolamentanti il silenzio assenso non trovano applicazione in riferimento “agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la tutela del rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità” nonché con riguardo “ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto[3] dell’istanza” e, infine, relativamente “agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti”.
La non configurabilità del silenzio assenso per espressa disposizione normativa conferma la volontà del legislatore di attribuire valore di “silenzio inadempimento” al comportamento inerte e/o inattivo dell’amministrazione assunto al ricorrere delle suesposte materie. Di qui, si evince la necessità che l’attività amministrativa, quale esternazione del potere pubblico, venga ad essere palesemente esercitata in rapporto a quei settori dettagliatamente elencati dal quarto comma dell’articolo 20, stante il preminente valore che essi assumono. Ciò comporta che in tali ipotesi la condotta inattiva del soggetto pubblico (rectius: silenzio inadempimento) sia passibile di azione giurisdizionale da parte di colui che abbia sofferto l’inadempimento. Rilevando, in proposito, la disciplina posta dagli artt. 31 e 117 del Codice del processo amministrativo, di cui al D.Lgs n. 104/2010[4].
È ben evidente, in virtù delle considerazioni sinora esposte anche per il tramite dei rispettivi referenti normativi, che non è possibile considerare in una concezione sinonimica il silenzio assenso ed il silenzio c.d. qualificato. Ancor più che esistono ulteriori tipologie del suddetto istituto a confermare il carattere multiforme dello stesso.
E sulla scorta di tali catalogazioni il Consiglio di Stato, nella sentenza oggetto di esame, è giunta a ritenere che il silenzio serbato dall’autorità concedente non sia passibile di ricorso da parte della concessionaria laddove viene ad essere inquadrato nell’ottica non già di un inadempimento ma, diversamente, in termini di condotta qualificata e, come tale, avente natura di risposta.
Argomentazione, quest’ultima, avallata dal fatto che l’istanza di accesso presentata dalla società concessionaria mirava ad ottenere la revisione del prezzo e/o tariffario posto a fondamento del servizio. Venendo qui a rilevare fondamentali presupposti che hanno rappresentato delle vere e proprie linee direttrici per il giudice amministrativo nella risoluzione della vexata quaestio e, conseguentemente, nella definizione di quelli che sono i confini interpretativi che consentono di distinguere le due importanti fattispecie, quali l’appalto di servizi e la concessione di servizi pubblici.
Tali presupposti, invero, trovano copertura normativa nel Codice dei Contratti pubblici e sono rappresentati, nello specifico, dal “rischio operativo” nonché dal “rischio di domanda”.
Ciò consente di volgere lo sguardo all’ulteriore fonte normativa, qual è il D.Lgs. n. 50/2016 altresì conosciuto quale Codice degli Appalti.
In proposito, assume ruolo centrale l’articolo 3 del Decreto, il cui pregio è di fornire una definizione accurata dei diversi aspetti qualificanti la tematica dei contratti pubblici, ivi compresi i presupposti sopra menzionati.
Partendo dal rischio operativo, la lettera zz), dell’art. 3 (D. Lgs cit.) statuisce che con esso si intende “il rischio legato alla gestione dei lavori o dei servizi o dei servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi, trasferito in capo al concessionario”.
In sostanza, si ritiene che “il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti o dei servizi oggetto della concessione”. Con la ulteriore annotazione che “la parte del rischio trasferita al concessionario deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”.
Il rischio di domanda, invece, viene ad essere correlato “ai diversi volumi di domanda del servizio che il concessionario deve soddisfare”; detto altrimenti quale “rischio legato alla mancanza di utenza e quindi di flussi di cassa” (cfr. art. 3, lett. ccc), Decreto n. 50/2016).
Orbene, giunti a tal punto, occorre necessariamente integrare il complesso e variegato quadro normativo con i diversi arresti che hanno caratterizzato, negli anni, il panorama giurisprudenziale.
(Segue) Precedenti giurisprudenziali
Nella pronuncia in commento, i giudici amministrativi specificano in maniera dettagliata quali siano i punti di differenziazione che intercorrono tra l’appalto e la concessione di servizi.
Invero, nell’osservare che l’appalto ha struttura bilaterale specificano come lo stesso sia caratterizzato, sotto il versante soggettivo, dalla presenza di due soggetti (appaltante e appaltatore), il che conduce alla conclusione per cui il compenso (spettante all’appaltatore) ricade interamente sulla figura dell’appaltante.
Profilo, quest’ultimo, di non poco conto atteso che nella diversa ipotesi della concessione, stante la natura eminentemente triadica di quest’ultima, la corresponsione della remunerazione in favore del concessionario trae origine dalla richiesta di servizi avanzata dall’utenza finale.
Di qui emerge che la concessione si pone su di un piano diametralmente opposto rispetto all’appalto, laddove la fluttuazione della domanda del servizio rappresenta un rischio insito alla concessione e trasferito in capo al soggetto concessionario[5]. Tanto più che viene ad essere definito quale rischio principale connotante la fattispecie della concessione (di servizi), relativamente al quale già il previgente decreto n. 163/2006 si era espresso.
A supporto di tale ultima osservazione, i giudici sottolineano come già in passato la giurisprudenza abbia inteso evidenziare il rilievo che assume il principio di “invariabilità del canone” nelle concessioni di servizi, comportante una inapplicabilità dell’istituto della revisione dei profili economici.
Ne discende, dunque, che il rischio di gestione economica non vale a giustificare una revisione dei prezzi in ipotesi di concessione dei servizi; ciò in quanto il meccanismo di causalità connotante la concessione è propriamente rappresentato dalla fluttuazione della domanda di servizio che, come sopra detto, va inteso quale rischio ricadente sulla figura del concessionario.
Il che comporta che nella concessione affinchè possa operare una revisione dei prezzi occorra la “sussistenza di eventi eccezionali, esterni e straordinari al funzionamento del mercato di settore, non potendosi considerare sufficienti mere fluttuazioni della domanda rappresentando, queste ultime, un dato fisiologico di ogni mercato[6]”.
Soluzione
Le suesposte considerazioni hanno condotto il Consiglio di Stato a rigettare l’appello proposto dalla società concessionaria sulla base delle seguenti motivazioni.
Il massimo organo giurisdizionale amministrativo ha ritenuto di non dover dichiarare illegittimo il comportamento inerte dell’autorità concedente a fronte dell’istanza di accesso presentata dall’appellante (società concessionaria).
Ciò in quanto trattasi di inattività da doversi identificare in termini di silenzio qualificato.
Pertanto, il silenzio serbato dalla concedente equivale a risposta, stante anche la natura della richiesta posta a fondamento dell’accesso; difatti, l’istanza concerne una materia non rientrante tra quelle specificamente individuate dal quarto comma dell’articolo 20 legge n. 241/1990, di guisa che non si sarebbe potuto discorrere di silenzio inadempimento.
Ancor più, poi, l’istanza di accesso è stata presentata al fine di ottenere la revisione tariffaria del servizio.
Venendo a rilevare, in relazione a tale ultimo aspetto, specifici ambiti, quali: definizione e presupposti fondanti l’operatività della concessione dei servizi. Anche e soprattutto in riferimento alla diversa figura dell’appalto di servizi.
Difatti, come abilmente precisato dai giudici amministrativi, la concessione presenta una diversità ontologica e/o fisionomica con l’appalto, meglio comprensibile per il tramite della disamina di un fondamentale presupposto qual è il c.d. “rischio operativo”.
Detto altrimenti, nel caso dell’appalto dei servizi spetta all’amministrazione provvedere alla corresponsione del prezzo in favore dell’appaltatore di guisa che, stante la natura evidentemente bifasica, il rapporto ben può intendersi in una ottica negoziale e/o convenzionale.
Diversamente, la concessione di servizi è un rapporto connotato dalla trilateralità (concedente- concessionario – utenza finale) e, come tale, presuppone che il rischio venga interamente trasferito sul concessionario, soggetto, quest’ultimo, la cui remunerazione è funzionalmente connessa alla richiesta dell’utenza finale.
È evidente che nella concessione di servizi è il concessionario ad assumere il rischio legato alla gestione economica del servizio; ne deriva che non basta una variazione del prezzo causalmente dipendente da una mera fluttuazione della domanda di servizio a giustificare una revisione dei profili economici addotti a fondamento della concessione medesima. Ciò sull’assunto che le mere variazioni e/o oscillazioni della domanda rappresentano un dato fisiologicamente ed intimamente connesso alle operazioni di mercato e, pertanto, non atto a fondare una variazione dei profili di natura economica posti a sostegno dell’operazione.
E, sul punto, la giurisprudenza è ormai concorde, nel ritenere che una revisione della concessione, stante il rischio traslato in capo al concessionario, possa trovare un valido fondamento nella sola ricorrenza di “eventi eccezionali, straordinari, estranei al funzionamento del mercato del settore”.
[1] Cfr. articolo 21-quinquies L. 241/1990 regolamentante la revoca del provvedimento amministrativo.
[2] Si veda articolo 21- nonies L. 241/1990 intitolato “Annullamento d’ufficio”.
[3]La disciplina del silenzio rileva sotto una dimensione non già statica ma dinamica, atteso che diverse sono le ipotesi di silenzio che la legge contempla. Al riguardo, l’articolo 20 Legge n. 241/1990 non va considerato isolatamente bensì in una logica inclusiva/integrativa, assumendo un ruolo sicuramente centrale, ai fini di un completamento del complesso quadro, gli articoli 25 (Legge 241/1990), 6 D.P.R. n. 1179/1971 e, infine, 20 Legge n. 1034/1971 (altrimenti conosciuta quale Legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali).
In particolare, l’articolo 25 Legge n. 241/1990 al quarto comma disciplina una specifica ipotesi di silenzio diniego operante in tema di accesso ai documenti amministrativi; in particolare è previsto che l’istanza di accesso si intende respinta allorquando intervenga l’inattività della P.A. da intendersi quale decorrenza inutile dei termini prescritti “ex lege”.
Al contrario, spostando l’attenzione al secondo nucleo di norme (artt. 6 D.P.R. n. 1179/197, 20 Legge n. 1034/1971) si suol discorrere di silenzio rigetto; ipotesi, quest’ultima, funzionalmente connessa alla mancata pronuncia sul ricorso gerarchico decorsi novanta giorni dalla presentazione. Ergo, in tale ultima situazione il ricorso si intende respinto in assenza di comunicazione della decisione da parte dell’organo adito.
[4] Cfr. articolo 31 c.p.a. rubricato “Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità” e art. 117 c.p.a. intitolato “Ricorsi avverso il silenzio”.
[5] Sul punto, invero, è intervenuta anche la giurisprudenza comunitaria. In particolare, si veda CGUE, sentenza 10/09/2009, causa C-206/2008, Eurawasse; CGUE sentenza 10/03/2011, causa C274/09, DEB. In tali statuizioni, la Corte di Giustizia Europea rinviene nel rischio di gestione economica il fondamentale elemento di distacco e/o differenziazione tra concessione di servizi ed appalto, precisando, al riguardo, come nel solo caso della concessione di servizi lo stesso ricada sul concessionario e che il mancato trasferimento al prestatore del rischio suddetto sia indicativo del fatto che l’operazione rappresenti un appalto pubblico di servizi.
[6] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3653.