Il tema della presente dissertazione offre spunti di riflessione in materia di impugnazione di delibere assembleari con specifico riferimento a quelle che hanno ad oggetto l’installazione di ascensori da cui deriva una lesione di alcuni diritti di qualche condomino.
La prima parte della presente dissertazione ha ad oggetto il commento alla sentenza Cass. Civ. n. 24235 del 29/11/2016, affronta da principio l’istituto delle impugnazioni delle delibere assembleari e di proprietà esclusiva, successivamente il testo della Legge n. 13/1989 recante “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati” e in particolare l’art. 2 così come modificato dalla legge di riforma del condominio –Legge 220 del 2012 e da ultimo i rinvii che fa la Legge al testo degli artt. 1120 comma 2 c.c. in materia di innovazioni e 1136 comma 2 c.c. in materia di quorum assembleari deliberativi.
Infine, viene analizzato l’orientamento giurisprudenziale sul tema, fornendo un’analisi e una motivazione dettagliata di quanto sancito dalla Suprema Corte in materia di lesione dei diritti di condomini in materia di innovazioni condominiali.
La seconda parte della dissertazione ha ad oggetto la redazione di un parere legale in tema di impugnazione di delibera assembleari avente ad oggetto l’installazione di un ascensore da cui deriva una lesione dei diritti di un condomino.
Il caso proposto vede come protagonista un soggetto, Tizio, che è proprietario esclusivo di un’area adiacente all’ingresso condominiale che mette in comunicazione tale area con il cortile in cui sono ubicati i box auto; a seguito della richiesta di alcuni condomini, nonostante il dissenso manifestato da Tizio, durante un’assemblea condominiale viene approvata l’installazione di un ascensore nell’ingresso del vano delle scale. Tale installazione costituisce però un impedimento all’accesso al cortile ed ai box auto, riducendo lo spazio di passaggio e andando a ledere i diritti di Tizio, quale proprietario esclusivo dell’anzidetta area.
L’elaborato verterà su una disamina dottrinale e giurisprudenziale in materia di impugnazione di delibere assembleari, di proprietà esclusiva, di comunione e di innovazioni finalizzata ad individuare la migliore soluzione legale consigliabile al cliente.
Ricostruzione della fattispecie e svolgimento delle vicende processuali
1.1. Fattispecie
La riflessione dottrinale e giurisprudenziale riguardo al tema delle deliberazioni assembleari e della lesione dei diritti dei condomini è stata oggetto di numerose pronunce nel corso degli anni.
Per condominio si intende la comunione forzosa dei beni facente capo ai proprietari delle singole unità immobiliari di uno o di più edifici.
Più precisamente il condominio è la comunione degli edifici composti da più unità abitative in proprietà esclusiva[1].
Il condominio è una comunione speciale, disciplinata dagli artt. 1100 c.c. e seguenti.
Oggetto del condominio è un edificio di civile abitazione nell’ambito del quale coesistono le parti comuni e le unità abitative in proprietà esclusiva dei singoli condomini.
La disciplina della comunione dell’edificio in cui il bene casa è inserito è intesa a garantire l’esigenza abitativa del condomino nell’ambito di un’ordinata regolamentazione della comunità condominiale.
La disciplina legale del condominio si caratterizza particolarmente rispetto a quella della comunione ordinaria per: l’obbligatorietà del regolamento condominiale, la particolareggiata indicazione della costituzione, funzionamento, e attribuzioni dell’assemblea, la previsione dell’amministratore quale organo necessario dei condomini.
La distinzione tra la situazione giuridica di contitolarità dei diritti e l’organizzazione dei contitolari, centro di imputazione dei diritti e doveri, risulta ancora più netta con riguardo al condominio, quale struttura dotata di organi aventi competenze esclusive.
La legge di revisione del 2012 ha accentuato tale distinzione, ma non ha espressamente riconosciuto la soggettività del condominio. La giurisprudenza, infatti, insiste nel definirlo mero ente di gestione.
La tesi che nega soggettività al condominio incide sulla disciplina sostanziale e processuale dell’istituto principalmente nell’attribuire ai singoli condomini ampi poteri di ingerenza nella gestione delle parti comuni e nella loro difesa in giudizio.
Pertanto, negli edifici che sono costituiti da più unità immobiliari coesiste sia una proprietà individuale di ciascun condomino costituita dall’unità stessa sia una comproprietà sui beni comuni.
Sono qualificati come beni comuni a tutti i condomini il suolo, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, i lastrici solari, le scale, il portone di ingresso, i cortili, le aree destinate a parcheggio e in genere tutte le parti dell’edificio o ad esse accessorie, necessarie all’uso comune. Su tali beni vi è una comunione forzosa in quanto il singolo condomino non può -rinunciando al suo diritto sulle cose comuni – sottrarsi al contributo delle spese.
In dottrina è condivisa la tesi dell’esistenza di una presunzione legale semplice di comunione.
L’esclusione contrattuale di singoli beni dell’ambito della comproprietà condominiale non deve tuttavia pregiudicare le normali esigenze abitative dei condomini dovendo altrimenti ritenersi nulla per immeritevolezza dell’interesse perseguito.
Le cose comuni sono divisibili solo con il consenso di tutti i condomini e a seguito della divisione la cosa diviene oggetto di proprietà esclusiva e non è quindi suscettibile di uso, comodo o incomodo da parte di ciascun condomino.
Tuttavia però vi sono casi in cui sono ritenute legittime le impugnazioni di quelle delibere assembleari che vanno a ledere il diritto anche di un solo condomino, come per esempio nel caso circoscritto e oggetto di esame del presente elaborato di installazione di ascensori.
Il tema oggetto di analisi del presente elaborato fa un rimando alla Legge n. 13/1989 recante “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati” e in particolare alla Legge n. 220/2012 che ha attuato una riforma in materia condominiale riformulando così i testi degli artt. 1120 comma secondo c.c. e 1136 comma secondo c.c.
Con la riforma condominiale ex lege n. 220 dell’11 dicembre 2012, il legislatore ha introdotto alcuni commi nel testo dell’art. 1120 c.c., indicando una serie di innovazioni che per poter essere approvate è necessaria una maggioranza meno forte rispetto alle innovazioni dirette in generale al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, di cui all’art. 1120 comma primo c.c.
Per la maggioranza richiesta dalla riforma condominiale si fa riferimento al comma quinto dell’art. 1136 c.c., ossia ad un numero di voti che rappresentano la maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno i due terzi del valore dell’edificio.
Tra queste innovazioni rientrano tutte quelle fattispecie dirette a valorizzare il condominio circa gli aspetti della sicurezza e della salubrità degli edifici e degli impianti, dell’abbattimento delle barriere architettoniche, del contenimento del consumo energetico, della realizzazione di parcheggi e dell’installazione degli impianti per l’accesso a flussi informativi.
L’art. 2 della Legge n. 13 del 9 gennaio 1989, recante norme per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, prevedeva invece la possibilità per l’assemblea condominiale di approvare le innovazioni preordinate a tale scopo con le maggioranze indicate nell’art. 1136 commi secondo e terzo c.c., così derogando all’art. 1120 comma primo, che fa riferimento alle maggioranze di cui all’art. 1136 comma quinto c.c.
In particolare il testo dell’art. 2 della Legge 13/1989 disponeva che: “Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’art. 27, primo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118, ed all’art. 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno di edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione con le maggioranze previste dall’art. 1136, secondo e terzo comma del codice civile.
Nel caso in cui rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte di accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages.
Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile.”
Le maggioranze richieste dalla suddetta legge per poter approvare le innovazioni erano quindi secondo il disposto del comma 2 dell’art. 1136 c.c. la maggioranza degli intervenuti e la metà del valore dell’edificio e secondo il disposto del comma 3 dell’art. 1136 c.c. un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio.
Si rileva come già la Legge n. 13 del 1989, nel riconoscere le innovazioni volte a favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, sanciva il divieto nei confronti di tutte quelle innovazioni che rendevano alcune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità, secondo l’originaria costituzione della comunione e pertanto non poteva essere consentita l’installazione di un ascensore che rendeva alcune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.
Sono considerate inefficaci e quindi attaccabili in qualunque tempo, ma soltanto dai condomini che ne siano individualmente danneggiati e non vi abbiano aderito tutte quelle decisioni che violano o ledono i diritti di taluni, anche di uno solo sulle cose o sui servizi comuni o ne rendano difficile l’esercizio o lo disturbino non lievemente determinando una lesione per l’esercizio di tutti quei diritti che gli derivano dall’atto di acquisto o dall’accordo con tutti i condomini o, comunque, dalla sua situazione di condomino, quali: diritto di uso, di godimento di una certa misura, obbligo di contribuire nelle spese in quella misura e non di più, ecc. … Rientrano, pertanto, maggiormente in questa categoria i provvedimenti che ledono i diritti di un condomino sul proprio piano o appartamento o che gli impongono comportamenti che incidono sulla sua libertà o autonomia[2].
Il testo originario dell’art. 1120 c.c. del 1942 rubricato con il titolo “innovazioni” prevedeva che “I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’art. 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni”. Dal testo normativo del medesimo articolo si evince che erano vietate tutte quelle innovazioni che potevano arrecare un qualche pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alteravano il decoro architettonico o che rendevano alcune parti dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.
Si rileva come però il testo originario dell’art. 1120 c.c. del 1942 disciplinava in maniera del tutto generica le innovazioni e non specificava quale tipo di opera doveva essere considerata innovazione e non distingueva tra le innovazioni in base alle finalità o scopo della stessa e, in particolare, non era prevista nessuna norma che disciplinava il cambio di destinazione d’uso dei beni condominiali di cui all’art. 1117 c.c.
La situazione è mutata con la riforma del condominio varata dal legislatore nel 2012, che ha attuato una netta distinzione tra innovazioni e cambio di destinazione d’uso dei beni.
Il novellato testo dell’art. 1120 c.c. prevede che “i condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell’art. 1136 c.c. e cioè con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell’edificio, possano disporre di tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni. I condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell’art. 1136 c.c. e cioè con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio, possono disporre le innovazioni che rispettando la normativa di settore hanno ad oggetto: le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, nonché per la produzione di energia mediante l’utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra superficie comune; l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto.
Dal testo della norma si evince che sono previste due tipi di innovazioni: il primo tipo sono quelle generiche dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al miglior rendimento delle cose comuni che richiedono la maggioranza degli intervenuti e i due terzi del valore dell’edificio; il secondo tipo di innovazioni sono quelle specifiche, finalizzate a realizzare specifici scopi come ad esempio il miglioramento della sicurezza o salubrità dell’edificio o l’eliminazione delle barriere architettoniche o il risparmio energetico oppure alla realizzazione di parcheggi e tali innovazioni possono essere assunte con il voto della maggioranza dei presenti e di almeno la metà del valore dell’edificio.
Si ritiene opportuno evidenziare come sia prima che dopo la riforma del condominio del 2012, sono state vietate le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità dell’edificio o che alterano il decoro architettonico dello stesso o che rendono inservibili all’uso o al godimento anche di uno solo dei proprietari.
È stata però la giurisprudenza a far chiarezza sul concetto di innovazione in senso tale del termine e sul concetto di cambio di destinazione d’uso del bene, in quanto il legislatore del 1942 e la riforma condominiale del 2012 non si sono espressi circa tale distinzione.
Per la giurisprudenza precedente alla riforma condominiale non c’era molta differenza tra innovazione in senso stretto del termine e cambio di destinazione d’uso del bene e, il cambio di destinazione d’uso del bene poteva essere una conseguenza dell’esecuzione di opere materiali e poteva consistere in una cambiamento in senso materiale del bene, ma è pacifico il principio secondo il quale anche in assenza di un mutamento in senso materiale del bene, il cambiamento può esserci e può consistere anche solo virtualmente e derivare da un cambio di destinazione d’uso del bene.
La riforma condominiale del 2012 ha codificato questo principio giurisprudenziale e ha disciplinato una particolare tipologia di innovazione, che consiste nel cambio di destinazione d’uso del bene condominiale.
Dall’art. 1117 ter c.c., rubricato con il titolo di “Modificazioni delle destinazioni d’uso”, emerge che il cambio di destinazione d’uso del bene e le innovazioni rientrano sempre nello stesso grande ambito delle modifiche ai beni e resta fermo il problema della distinzione tra innovazioni e mutamento d’uso del bene. Si può affermare quindi che il cambio d’uso non soggiace all’esecuzione d’opere sul bene stesso, ma può essere anche virtuale.
Un’altra differenza tra innovazioni e cambio di destinazione d’uso emerge dal nuovo testo dell’art. 1120 c.c., da cui è sancito il divieto di tutte quelle innovazioni che vanno ad inficiare l’uso o il godimento del bene anche per un solo condomino. Un tale divieto non è espresso nel testo dell’art. 1117 ter c.c. in relazione al cambio di destinazione d’uso dei beni condominiali.
Secondo una parte maggioritaria della dottrina è possibile che il legislatore abbia incorso in una svista, poiché non ci sarebbe un senso logico che spiega il motivo per il quale sono vietate solo le innovazioni che rendono inservibile il bene comune, ammettendo invece i cambi di destinazione d’uso che rendono inservibile il bene comune. Anche il cambio di destinazione d’uso è sempre un’innovazione.
Alla luce di quanto sopra esposto, si può rilevare che il nodo essenziale dell’art. 1120 c.c. è il divieto delle innovazioni, intese sia come innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. sia come cambio di destinazione d’uso del bene di cui all’art. 1117 ter c.c. che rendono totalmente inservibili il bene all’uso o al godimento i beni comuni.
1.2. Decisione del Tribunale
La decisione in commento trae origine da un caso di una delibera assembleare avente ad oggetto l’installazione di un ascensore all’interno dell’androne delle scale.
L’androne delle scale è considerato uno spazio comune a tutti i condomini.
La vicenda in esame ebbe inizio quando a seguito di un’assemblea condominiale veniva deliberata l’installazione di un ascensore all’interno dell’androne delle scale.
A seguito di ciò, tre eredi di un condomino nel frattempo deceduto, che erano comproprietari di singole unità immobiliari site al piano terra dell’edificio, hanno impugnato tale delibera davanti al Tribunale di Taranto, lamentando che a seguito della realizzazione dell’ascensore sarebbe stato loro impedito l’accesso all’area retrostante di cui erano proprietari esclusivi e ai box auto.
Il condominio si costituisce ed eccepisce la prescrizione del diritto di servitù del passo carraio e il Tribunale di primo grado accoglie l’eccezione proposta dal convenuto, respingendo così la domanda attorea.
1.3. Decisione della Corte d’Appello
Nei confronti della sentenza di primo grado è stato proposto, nel 2011, appello innanzi alla Corte d’Appello di Lecce sezione distaccata di Taranto.
L’impugnazione è stata fatta da parte di due degli eredi rimasti anche quali eredi della terza sorella nel frattempo deceduta.
La Corte d’Appello fa emergere nella sua decisione che l’installazione dell’ascensore non impediva l’accesso degli appellanti all’area di loro esclusiva proprietà.
Veniva affermato anche che in merito alla violazione dell’art. 1120 comma 2 c.c. con specifico riferimento alle innovazioni che vanno a ledere diritti dei condomini, nel caso di specie non sussiste tale violazione.
Inoltre, la Corte d’Appello di Taranto sezione distaccata di Lecce rileva anche che i testi escussi hanno riferito che gli appellanti non erano mai entrati nell’area di loro esclusiva proprietà con degli autoveicoli.
Da qui si nasce il problema circa l’esercizio dei diritti che ciascun proprietario può far valere su un’area di sua esclusiva proprietà all’interno di un condominio e il rapporto che intercorre tra servitù tra comuni e proprietà esclusive.
Nella giurisprudenza della Suprema Corte per molti anni vi è stato molto contrasto in ordine alla ammissibilità di servitù tra parti comuni e proprietà esclusive[3].
In senso favorevole alla costruzione nell’ambito dell’edificio condominiale di pesi o limitazioni qualificabili come servitù a favore della proprietà esclusiva e a carico di quella comune e reciprocamente si è affermato che non si può disconoscere, con riguardo alla realtà delle cose ed alle necessità pratiche, che anche in un edificio in condominio vi sono o possono insorgere dei rapporti fra proprietà individuale e proprietà comune riconducibili nello schema della servitù.
A ciò non osta che né la regola del nemini res sua servit, valendo essa quando un’unica persona sia proprietaria del fondo servente e del fondo dominante e non anche quando questa sia proprietaria di uno dei fondi e comproprietaria dell’altro, né la specifica disciplina del condominio.
E’ infatti possibile configurare in uno stesso edificio condominiale la proprietà comune come entità distinta e separata da quella individuale, non soltanto dal punto di vista materiale, essendo esattamente identificabili le cose in condominio, in base al titolo costitutivo ed al regolamento, e, in mancanza, in base alla legge, ma anche sotto il profilo della titolarità del diritto, posto che, mentre il proprietario delle cose di proprietà esclusiva o solitaria è un soggetto individuale e titolare delle cose di proprietà comune è un soggetto plurimo e quindi diverso.
Né è di ostacolo l’indissolubilità materiale esistente in un edificio in condominio tra le cose di proprietà esclusiva e le cose di proprietà comune, perché la destinazione dei fondi, indispensabile affinché la servitù possa funzionare, va intensa soprattutto in senso giuridico.
Non si potrebbe neppure sostenere che accordare al condominio nell’interesse del suo bene di proprietà esclusiva, diritti particolari sulla cosa comune significa soltanto ampliare l’intensità del diritto del condominio stesso e che, ove si tratti di oneri a carico della proprietà individuale per l’utilità delle cose comuni, gli stessi troverebbero la loro giustificazione in una norma interna al condominio.
Per quanto concerne la prima ipotesi di maggiore intensità del diritto del condominio si può parlare sempre che il potere sulle cose comuni, pur accresciuto rispetto a quello degli altri condomini, non alteri la destinazione delle cose, ma non quando, invece, si tratti di un eventuale godimento di diversa natura, che non può trovare spiegazione o giustificazione nel diritto del condominio.
In ordine alla seconda ipotesi le obiezioni riferite si spunterebbero contro il principio che la disciplina del condominio trova applicazione solo per ciò che concerne l’uso ed il godimento delle cose comuni, ma non riguarda la proprietà esclusiva dei singoli condomini, giacché il rispetto di questa esige che gli altri condomini non possono invaderne la sfera né gravarla di pesi o limitazioni ove non abbiano al riguardo acquistato un particolare diritto.
In senso contrario si è affermato che nei rapporti tra proprietà esclusiva e parti comuni non può farsi riferimento alla servitù, in quanto in materia di condominio di edifici si è in presenza di un insieme di diritti e obblighi, armonicamente coordinati e contrassegnati dal carattere della reciprocità; tali diritti ed obblighi che danno al condominio una peculiare fisionomia, escludono la possibilità di far ricorso all’istituto della servitù, presupponente, invece, fondi appartenenti a proprietari diversi, nettamente separati, l’uno al servizio dell’altro.
Più specificamente la configurabilità di un rapporto di servitù tra parti comuni e parti in proprietà esclusiva va esclusa sulla base di due argomenti.
Il primo è di carattere logico e trova il suo fondamento nella struttura stessa del condominio: se si parte dalla premessa secondo la quale il collegamento tra le parti comuni e quelle in proprietà esclusiva va qualificato come relazione di accessorietà, è evidente che non può configurarsi un rapporto di servitù tra cosa principale e cosa accessoria.
Il secondo argomento è di carattere testuale invece: con riferimento ad un’ipotesi in cui è stato previsto un particolare diritto di godimento a favore di un condomino su determinate parti comuni il legislatore ha parlato di diritto ad uso esclusivo ex art.1126 c.c.
Ogni singolo condomino, siccome proprietario delle parti di esclusiva proprietà, ha sulle stesse i diritti che gli derivano dalla titolarità del diritto, con il limite espressamente previsto dall’art. 1122 c.c., ossia il divieto di eseguire opere che rechino danno sulle parti comuni dell’edificio e le altri limitazioni derivanti dai rapporti di vicinato.
La normativa che contempla le relazioni intercorrenti fra parti comuni dell’edificio condominiale e parti di proprietà esclusiva assume la connotazione di sistema, essendo non solo di per sé finalizzata organicamente a consentire l’esercizio in forma di diritto del godimento del bene a favore del proprietario delle parti esclusive sulle cose comuni, proporzionalmente al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene, ma perché impone a colui di continuare a contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni anche in caso di rinuncia al diritto su di esse e gli vieta di eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio[4].
L’attenzione del legislatore è dunque rivolta più che alla obiettiva preservazione delle parti comuni dalle illegittime iniziative del singolo condomino, a dettare un criterio primario di gestione dei diritti e dei doveri dei soggetti che nell’edificio condominiale abitano, dovendosi considerare che diritti e doveri del condomino si trasferiscono in gran parte anche sui soggetti che con lui (i familiari) o in sua sostituzione nel caso del conduttore hanno il godimento della parte esclusiva di competenza e delle parti comuni dell’edificio.
E’ quindi possibile sostenere che l’esercizio del proprio diritto trova più che mai nell’istituto condominiale una contemperazione fisiologica nella concomitante e presente esistenza di diritti altrui di altrettanta importanza, al punto che è possibile affermare il principio consolidato secondo il quale la libertà di un soggetto cessa ove inizia l’altrui libertà.
1.4. Il contenuto di natura sostanziale delle censure
Uno dei due eredi appellanti ha proposto ricorso alla Suprema Corte avverso la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Lecce sezione distaccata di Taranto.
I Giudici di Piazza Cavour si sono espressi in merito evidenziando due sostanziali censure.
La prima censura attiene alla violazione dell’art. 1120 comma 2 c.c. ante riforma apportata dalla Legge n. 220 del 2012 in merito alle innovazioni in tema di deliberazioni condominiali.
L’installazione di un ascensore rientra tra le innovazioni e sul punto la Corte di Cassazione si è espressa sancendo che è da considerarsi illegittima quella deliberazione condominiale che approva un’innovazione se questa innovazione va a ledere il diritto all’uso o al godimento anche di un solo condomino e ciò prescinde anche da qualsiasi eventuale utilità compensativa dell’innovazione stessa.
Tale principio, assodato nella giurisprudenza della Suprema Corte, come dimostrato da sue precedenti pronunce, non deroga all’art. 1120 comma 2 c.c. ante riforma condominiale del 2012, ma apporta una deroga solo alla maggioranza di voto assembleare richiesta dall’art. 1136 comma 5 c.c., richiamato dall’art. 1120 comma 1 c.c.
Nel caso di specie parte ricorrente sostiene che l’innovazione in oggetto viola l’art. 1120 comma 2 c.c., poiché lo spazio di mq. 1,12 lasciato libero per il passaggio menoma gravemente il godimento della stessa area comune e degli immobili di sua proprietà.
Ciò si desume dal fatto che tale misura è inferiore a quella minima di metri 1,20 fissata dal D.M. n. 236 del 1989 relativamente al superamento delle barriere architettoniche.
La seconda censura mossa dalla Suprema Corte attiene alla natura dell’azione esperita, ossia se il passaggio attraverso l’androne condominiale è qualificabile come un diritto di comproprietà oppure un diritto di servitù.
In merito i Giudici di Piazza Cavour non si sono espressi, respingendo il secondo motivo, perché nessuna delle sue sentenze precedenti si erano pronunciate a riguardo.
Decisione della Suprema Corte di Cassazione
2.1. Pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in merito
Il caso in esame fa sorgere il quesito, a cui ha fornito risposta la Suprema Corte in diverse sue pronunce, se l’installazione di un ascensore può o meno compromettere il diritto di proprietà anche se non goduto di un solo condomino.
Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour si sono espressi sancendo che l’installazione di un ascensore in un contesto condominiale pregiudica il diritto di proprietà anche di un solo condomino se questo si oppone a tale installazione. E, il ragionamento fatto dalla Suprema Corte rimane il medesimo anche nel caso in cui venga pregiudicato il diritto di proprietà di un solo condomino, sebbene tutti gli altri condomini siano favorevoli[5].
L’installazione dell’ascensore nel caso sottoposto ad analisi ha prodotto una menomazione ad un solo condomino e successivamente agli eredi di questo, i quali hanno sostenuto che l’installazione dell’ascensore in questione all’interno dell’androne delle scale ha arrecato loro un disagio impedendo l’accesso all’area di loro esclusiva proprietà retrostante e ai box auto presenti in quest’area.
La Corte ha rilevato come in appello sia stato commesso un errore di valutazione avendo i giudici di secondo grado fondato il loro giudizio sull’istruttoria svolta, in particolare sulle dichiarazioni rilasciate dai testi escussi.
Questi ultimi, infatti, hanno dichiarato che gli eredi del condomino deceduto non avevano mai destinato l’utilizzo dei box auto di cui erano proprietari al ricovero dei loro autoveicoli e che non erano mai entrati con i loro autoveicoli nell’area di loro esclusiva proprietà a cui l’installazione dell’ascensore avrebbe loro impedito l’accesso.
Tuttavia, però, la Corte nella sua pronuncia fa emergere che il diritto di godimento di beni di proprietà esclusiva non si estingue per non utilizzo e, pertanto, anche se gli attori non hanno usato l’area in questione di detengono l’esclusiva proprietà non ne hanno perso il diritto poiché tale diritto non si estingue per non uso.
Nel motivare la sua decisione, la Suprema Corte si è ricollegata al principio espresso in una sua precedente pronuncia secondo cui anche nel caso in cui l’installazione di un ascensore in un contesto condominiale sia volta ad arrecare dei vantaggi a condomini portatori di handicap, ma allo stesso tempo si dimostra lesiva di diritti anche di un solo altro condomino su una porzione di sua esclusiva proprietà, tale installazione è da ritenersi illegittima[6].
Nel caso oggetto di questa pronuncia era stata impugnata una delibera assembleare che approvava l’installazione di un ascensore all’interno di un condominio per facilitare le esigenze di una condomina portatrice di handicap. L’installazione di tale ascensore, però, allo stesso tempo arrecava un danno ad una condomina proprietaria di un’unità immobiliare sita la piano terra.
Nel caso in questione la Corte motiva la sua decisione sancendo che: “Se non possono essere lesi da delibere dell’assemblea condominiale, adottate a maggioranza, i diritti dei condomini attinenti alle cose comuni, a maggior ragione non possono essere lesi, da delibere non adottate all’unanimità, i diritti di ciascun condomino sulla porzione di proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative”.
La realizzazione di un ascensore all’interno di un condominio è annoverato tra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, essendo considerato l’ascensore un mezzo per superare la barriera costituita dalle scale.
Prima della riforma del condominio attuata con la Legge 120 del 2012, l’art. 1120 c.c. prevedeva per l’approvazione di innovazioni la maggioranza dei condomini oltre ai due terzi del valore dell’edificio, rimanendo insuperabile il divieto di innovazioni che arrecavano un pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che alteravano il decoro architettonico e che rendevano parti comuni del condominio inservibili all’uso anche di un solo condomino.
A seguito della riforma di cui sopra, il legislatore ha novellato l’art. 1120 comma 2 c.c., stabilendo che per la validità delle deliberazioni assembleari approvanti innovazioni, come l’installazione di un ascensore per esempio, è necessaria solo la maggioranza dei presenti all’assemblea oltre alla metà del valore dell’edificio. Rimane però invalicabile il divieto di realizzazione di tutte quelle innovazioni che creano un pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato, che alterano il decoro architettonico e che rendono parti comuni del condominio inservibili all’uso anche di un solo condomino, nel rispetto di quanto sancito dall’art. 1120 comma 5 c.c., secondo cui è da ritenersi illegittima l’innovazione che non rispetta i divieti di cui sopra.
Al fine di comprendere meglio il ragionamento su cui si fonda la decisione dei Giudici di Piazza Cavour, si ritiene utile fornire una spiegazione del concetto di condominio, della sua natura giuridica e delle relative innovazioni che possono essere fatte, nonché del diritto di proprietà dei singoli condomini.
Un condominio implica la coesistenza della proprietà esclusiva di parti indistinte di un medesimo fabbricato con la comunione indivisa di altre parti determinate e un condominio viene ad esistenza quando si verifica il trasferimento di singole porzioni ad una pluralità di soggetti in virtù di negozi giuridici atti a trasformare una situazione di dominio esclusivo e solitario in una situazione di dominio plurimo.
Il condominio configura una comproprietà del tutto particolare, la cui specificità non è conferita dall’oggetto in sé e per sé, configurato dalle parti comuni, ma dalla relazione strumentale di accessorietà esistente tra le cose, gli impianti ed i servizi ad uso comune, che del condominio formano l’oggetto, e le unità immobiliari in proprietà esclusiva[7].
L’art. 1117 c.c. apporta una suddivisione in tre distinte categorie delle parti di un condominio di proprietà comune a tutti i condomini e la ripartizione è costituita da: parti necessarie all’esistenza dell’edificio e all’uso comune quali il suolo, le fondazioni, i muri maestri, le scale, i tetti, i lastrici solari, i portoni, i vestiboli, i portici, i cortili; i locali destinati al servizio; le parti destinate al servizio comune quali i locali per la portineria, l’alloggio del portiere, i locali per la lavanderia, lo stenditoio, il riscaldamento centrale; il terzo gruppo di parti comuni è costituito da quelle opere, installazioni e manufatti che servono all’uso o al godimento comune anche se è possibile che tale utilizzazione sia riservata solo ad alcuni condomini come: ascensori, cisterne, acquedotti, fognature.
Fra i manufatti contemplati dall’art. 1117 c.c. assume particolare rilievo l’ascensore. Esso è qualificabile come bene comune quando è installato originariamente nell’edificio condominiale ed appartiene anche ai proprietari degli appartamenti posti al piano terra, in quanto anch’essi traggono utilità dall’impianto. Se al contrario venisse però realizzato successivamente appartiene a quei condomini ad opera dei quali è stato posto in essere e pertanto l’installazione successiva dell’ascensore comporta modifiche di parti comuni dell’edificio; rappresenta quindi un’innovazione e come tale dovrà essere approvata dall’assemblea ai sensi dell’art. 1136 comma 5 c.c.[8]
L’uso dell’ascensore è per lo più normato da disposizioni del regolamento e la sua costruzione è soggetta al vincolo di non arrecare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, ma anche di non ledere il diritto di proprietà anche di un solo condomino, così come disposto dall’art. 1120 comma 2 c.c.
Il congiuntivo che caratterizza il testo della norma è indice che il legislatore ha voluto lasciare all’interpretazione del giudice di merito la decisione se le innovazioni rientrano o meno nella sfera di quelle vietate. Ne deriva che la materia è soggetta al dominio della casistica, talvolta in apparente contraddizione interna; va precisato però che una indagine sulla casistica non lascia spazio ad alcuna seria valutazione sulla contraddittorietà, essendo legata per definizione al singolo caso, ma semmai è possibile dare ingresso ad indagini statistiche, che hanno la finalità di verificare in quale percentuale è stata data dalla giurisprudenza una valutazione comportante una certa scelta in una determinata tipologia di situazioni[9].
In particolare, per decoro architettonico che non deve essere alterato dalle innovazioni si intende quel bene a cui sono interessati tutti i condomini e che è suscettibile di valutazione economica, in quanto concorre a determinare il valore sia della proprietà individuale sia di quella collettiva sulle parti comuni; ne consegue che la compromissione del decoro si tramuta in un deprezzamento economico dell’edificio, anche senza assurgere ad una vera e propria deturpazione di questo, rappresentando la deturpazione un quid pluris peggiorativo rispetto alla semplice alterazione.
Sembra difficile dunque addivenire ad una nozione di decoro architettonico che in via obiettiva possa essere uniformemente accettata.
Le innovazioni tali da recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o da rendere inservibili talune parti comuni dell’edificio all’uso o al godimento anche di un solo condomino si connotano per un maggior grado di obiettività rispetto a quelle che alterano il decoro architettonico dell’edificio: pur essendo sempre difficile addivenire ad enunciazioni connotate dal requisito della astrattezza e della generalità per rientrare nell’archetipo la nuova opera deve essere tale da alterare la sostanza della cosa comune, con mutamento dell’essenza funzionale e strutturale, ovvero ne muti la destinazione impressavi dalla volontà dei compartecipanti ed espressa dal titolo quale regolamento di condominio, deliberazione assembleare, o dall’uso o dalla natura stessa della cosa.
Nel costante sforzo di adeguare la rigidezza dell’art. 1120 c.c. ad esigenze legate con un più aperto sfruttamento dei beni comuni, la giurisprudenza ha enunciato la distinzione fra innovazione e modificazione, intendendosi per la prima non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre la modificazione mira a potenziare o rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lascia immutata la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini.
Costituisce innovazione, ai fini dell’art. 1120 c.c., qualsiasi opera nuova che, eccedendo i limiti della conservazione, della ordinaria amministrazione o del godimento della cosa comune, ne comporti una totale o parziale modificazione nella forma o nella sostanza, con l’effetto di migliorarne o di peggiorarne il godimento e comunque alterare la destinazione originaria, con conseguente implicita incidenza sull’interesse di tutti i condomini, i quali devono essere liberi di valutare la convenienza dell’innovazione. Pertanto non è corretto identificare il concetto di innovazione con quello di atto vietato al singolo condomino, perché se quest’ultimo non può apportare innovazioni alla cosa comune, le modificazioni che alterano la destinazione della cosa, se non sono deliberate a maggioranza non possono definirsi innovazioni[10].
La definizione di innovazione non è data da alcuna norma giuridica e pertanto per innovazione si intende generalmente qualsiasi modificazione materiale d’una certa entità delle cose comuni oppure qualsiasi modificazione immateriale che delle cose comuni muti la destinazione economica[11].
E’ stato peraltro sottolineato come lo sforzo dottrinale, per quanto notevole ed articolato per arrivare ad una soddisfacente nozione definitoria del concetto di innovazione, finisce di essere riduttivo in riferimento alla totale assenza di limitazioni che la categoria di per sé ignora.
Un elemento che caratterizza un condominio è l’esistenza di parti definite comuni, di proprietà di tutti i condomini, e di parti di proprietà esclusiva di determinati condomini, che possono essere utilizzate e godute solo da questi ultimi.
La normativa che disciplina il rapporto intercorrente tra le parti comuni di un edificio condominiale e le parti di proprietà esclusiva assume la connotazione di sistema, essendo non solo finalizzata a consentire l’esercizio in forma di diritto del godimento a favore del proprietario delle parti esclusive sulle cose comuni, proporzionalmente al valore di piano o porzione di piano che gli appartiene, così come enunciato dall’art. 1118 c.c., ma perché impone a colui di continuare a contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni anche in caso di rinuncia al diritto su di esse, e del pari gli vieta di “eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio”, così come enunciato dall’art. 1122 c.c.
L’attenzione del legislatore è pertanto rivolta, più che alla obiettiva preservazione delle parti comuni dalle illegittime iniziative del singolo condomino, a dettare un criterio primario di gestione dei diritti e dei doveri dei soggetti che nell’edificio condominiale abitano, dovendosi considerare che diritti e doveri del condominio si trasferiscono in gran parte anche sui soggetti che insieme con lui o in sua sostituzione hanno il godimento della parte esclusiva di competenza e delle parti comuni dell’edificio. L’esercizio del proprio diritto trova più che mai nell’istituto condominiale una contemperazione fisiologica nella concomitante e pressante esistenza di diritti altrui di altrettanta importanza, al punto che è possibile affermare a piena voce che “la libertà di un soggetto cessa ove inizia l’altrui libertà”[12].
La proprietà, disciplinata dall’art. 832 c.c. è un diritto reale di godimento, che attribuisce al titolare di tale diritto il potere di godimento del bene, per tale si intende il potere di trarre dalla cosa le utilità che la stessa è in grado di fornirne, decidendo se, come e quando utilizzarla, direttamente oppure indirettamente e il potere di disposizione del bene, che consiste nel potere di cedere ad altri, in tutto o in parte, diritti sulla cosa. Inoltre, come si evince dal testo dell’art. 832 c.c., il potere di godimento e di disposizione che compete al proprietario è caratterizzato dall’assolutezza, ossia dall’attribuzione al proprietario del bene del diritto di fare della cosa tutto ciò che vuole e dall’esclusività, che consiste nel potere del proprietario del bene di vietare ogni ingerenza di terzi in ordine alle scelte che, in tema di godimento e di disposizione del bene, il proprietario si riserva di effettuare con totale arbitrio e discrezionalità.
Anche la nostra Costituzione dichiara espressamente che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, così come si evince dal testo dell’art. 42 comma 2 Cost.[13]
Inoltre, un altro elemento che caratterizza la proprietà è l’imprescrittibilità: la proprietà non si può quindi perdere per non uso.
Su questo aspetto si ritiene di dover fare un più ampio ragionamento, essendo un elemento di discussione del caso oggetto di analisi.
Il carattere dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà risulta dall’imprescrittibilità dell’azione di rivendicazione, secondo cui se il proprietario può rivendicare in ogni tempo le sue cose, ciò vuol dire che il suo diritto di proprietà non si estingue per il mancato esercizio.
L’imprescrittibilità trova pertanto fondamento nel contenuto generale del diritto di proprietà.
La facoltà del proprietario di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo comprende infatti anche il non uso. Il proprietario che non usa la cosa si avvale pur sempre del suo diritto di proprietà quale diritto di fare della cosa l’uso che crede.
Si rileva però che una parte minoritaria della dottrina è arrivata ad ammettere la prescrittibilità del diritto di proprietà traendo argomento dalla norma costituzionale che riconosce la funzione sociale della proprietà e che escluderebbe pertanto la facoltà del proprietario di lasciare le cose definitivamente inutilizzate sottraendole a quella funzione. Contrariamente va però osservato come la nostra Costituzione rimette alla legge il compito di fissare i limiti della proprietà al fine di assicurare la funzione sociale e la legge non impone in generale al proprietario l’obbligo o l’onere di attivarsi per utilizzare le cose in modo proficuo. Sul proprietario del bene possono gravare doveri specifici di intervento, cura o conservazione dei beni, ma l’inosservanza di tali doveri comporta determinate sanzioni senza però prospettare la prescrizione del diritto per non uso del bene[14].
2.2. Breve commento in merito alla decisione della Suprema Corte di Cassazione
I Giudici di Piazza Cavour si sono espressi in più pronunce sul tema oggetto di trattazione.
E in tutte le loro sentenze, quali per esempio la n. 6109 del 1994[15], la successiva sentenza n. 20639 del 2005[16], fino da ultimo la sentenza oggetto di commento, la n. 24235 del 2016[17], hanno sempre ribadito il principio secondo espresso dall’art. 1120 secondo comma del Codice Civile, principio secondo cui “la condizione di inservibilità del bene comune all’uso o al godimento anche di un solo condomino, che, ai sensi dell’art. 1120 comma 2 c.c. rende illegittima e quindi vietata l’innovazione deliberata dagli altri condomini, è riscontrabile anche nel caso in cui l’innovazione produca una sensibile menomazione dell’utilità che il condomino precedentemente ricava dal bene.
Nel caso di specie i giudici della Suprema Corte hanno rilevato come i giudici di secondo grado abbiano sbagliato a non ritenere configurabile la lesione subita dai ricorrenti sulla base del non uso che i proprietari avevano fatto dei box auto, in quanto il diritto di proprietà non viene meno per il non uso o comunque per un uso differente da quello originario. Nel caso oggetto di analisi, infatti, i ricorrenti non usavano i box di loro esclusiva proprietà per parcheggiare le loro autovetture, ma li avevano destinati ad altro uso e ciò non comporta pertanto l’estinzione del loro diritto di proprietà.
Sebbene la realizzazione di un ascensore all’interno di un edificio condominiale rientra tra le opere finalizzate ad eliminare le barriere architettoniche e pertanto il legislatore sia favorevole a tale innovazione per i vantaggi che produce quali per esempio l’aumento di valore delle unità immobiliari del condominio che realizza tale innovazione oppure il vantaggio per i condomini di potersi servire dell’ascensore per raggiungere le loro abitazioni anziché fare uso delle scale, si ritiene del tutto condivisibile l’orientamento della Suprema Corte in materia.
Infatti, indipendentemente dal fatto che l’ascensore possa comportare senza dubbio altre utilità compensative, il diritto di proprietà rimane un diritto inviolabile e come tale meritevole di tutela.
Il diritto di proprietà e in particolare l’idea della proprietà quale diritto fondamentale era stata già prospettata nel XVII secolo in Inghilterra, in un contesto inteso ad affermare il principio di libertà della persona e la sua tutela in un contesto di società civile. Tale idea venne poi recepita anche successivamente dal pensiero illuminista, che proclamava la proprietà quale diritto inviolabile dell’uomo. Anche lo stesso Statuto Albertino proclamò l’inviolabilità della proprietà, traducendo il concetto di inviolabilità della proprietà nel principio di salvaguardia contro le espropriazioni abusive. Tale principio consentiva l’espropriazione solo per finalità di interesse pubblico e seguendo sempre il procedimento previsto dalla legge che prevedeva la corresponsione di un indennizzo equo al proprietario del bene espropriato.
Il diritto di proprietà diviene allora un diritto fondamentale dell’uomo in quanto sacro e inviolabile[18].
La nostra stessa Costituzione sancisce l’inviolabilità del diritto di proprietà nell’art. 42 e tale garanzia volta a tutelare un soggetto proprietario di un bene recepisce il principio di salvaguardia del diritto contro le espropriazioni abusive. La legge può infatti limitare la proprietà per assicurarne la funzione sociale, ma deve pur sempre trattarsi di limitazioni a carattere generale e compatibili con il concetto di proprietà privata.
Dalla stessa norma costituzionale si evince che il diritto di proprietà non è un diritto soggetto ad estinzione.
Le limitazioni imposte al fine di assicurare la funzione sociale del bene non possono spingersi fino al punto di sacrificare sostanzialmente la posizione del proprietario[19].
Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene che il diritto di proprietà esclusiva che i ricorrenti hanno sui box – a prescindere dall’uso che ne fanno – e sull’area retrostante all’androne delle scale dove è stata deliberata l’installazione dell’ascensore deve essere tutelato in quanto diritto reale inviolabile e insuperabile anche di fronte ad un’innovazione quale l’installazione di un ascensore che può portare dei vantaggi per gli altri condomini, ma allo stesso tempo arrecare dei disagi e un danno ai ricorrenti, violando il loro diritto di proprietà e in particolare di uso dei beni di cui sono esclusivi proprietari.
Il diritto di proprietà, come sopra esposto, è un diritto reale da sempre ritenuto inviolabile e tutelato nel nostro ordinamento giuridico.
Non solo è riconosciuto come diritto imprescrittibile, ma il proprietario ha ampia facoltà di godere e disporre della cosa in modo pieno ed assoluto e tra questi è contemplato anche il diritto di non uso del bene di sua proprietà, in quanto il proprietario che non usa la cosa si avvale pur sempre del suo diritto di proprietà quale diritto di fare della cosa l’uso che crede.
Il proprietario esercita così una scelta insita nel suo diritto.
Sul proprietario possono gravare doveri specifici di interevento, cura o conservazione dei beni, ma l’inosservanza di tali doveri comporta determinate sanzioni senza però prospettare la prescrizione del diritto per non uso.
Quindi è possibile affermare che il diritto di proprietà oltre ad essere un diritto reale imprescrittibile è anche perpetuo, in quanto non ha limiti di tempo e non si estingue per il mero non uso.
Bibliografia
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C.M. Bianca, Diritto civile 6 – la proprietà, Milano, Giuffré, 2017.
- Branca, Commentario del Codice Civile – Libro terzo Della proprietà – Comunione Condominio negli edifici, Bologna, Zanichelli, 1982.
- Ciaccafava, Impugnazione delle delibere assembleari, in Plus Plus 24 Dossier Diritto Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2018.
- Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013.
- E. Napoli, Commentario al codice civile, fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, Milano, Giuffré.
- Torrente, P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Milano, Giuffré, 2009.
- Triola, Trattato di Diritto Privato – Beni proprietà e diritti reali – tomo III Il condominio, diretto da M. Bessone, Torino, Giappichelli, 2002.
- VV., Trattato di Diritto Privato 8 – Proprietà tomo secondo, diretto da P. Rescigno, Torino, UTET, 2002.
Giurisprudenza
Cass. Civ., Sez. II, sentenza 25 giugno 1994, n. 6109.
Cass. Civ., Sez. II, sentenza 7 gennaio 2004, n. 9981.
Cass. Civ., S.U., sentenza 7 marzo 2005, n. 4806.
Cass. Civ., Sez. II, sentenza 25 ottobre 2005, n. 20639.
Cass. Civ., Sez. II, sentenza 24 luglio 2012, n. 12930.
Cass. Civ., Sez. II, sentenza 29 novembre 2016, n. 24235.
Corte d’Appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto, sentenza 5 aprile 2011, n. 120.
[1] C.M. Bianca, Diritto civile 6 – la proprietà, Milano, Giuffré, 2017, pp. 358 e ss.
[2] G. Branca, Commentario del Codice Civile – Libro terzo Della proprietà – Comunione Condominio negli edifici, Bologna, Zanichelli, 1982, pag. 653.
[3] R. Triola, Trattato di Diritto Privato – Beni proprietà e diritti reali – tomo III Il condominio, diretto da M. Bessone, Torino, Giappichelli, 2002 pp. 265-266.
[4] AA.VV., Trattato di Diritto Privato 8 – Proprietà tomo secondo, diretto da P. Rescigno, Torino, UTET, 2002, pp. 420-421.
[5] Cass. Civ., Sez. II, sentenza 29 novembre 2016, n. 24235.
[6] Cass. Civ., Sez. II, sentenza 25 giugno 1994, n. 6109.
[7] Cfr. R. Triola, op. cit., pp. 1-6.
[8] Cfr. AA.VV., op. cit., pp. 403-404.
[9] Cfr. AA.VV., op. cit., pag. 409.
[10] Cfr. R. Triola, op. cit., pp. 187-188.
[11] Cfr. AA.VV., op. cit., pag. 408.
[12] Cfr. AA.VV., op. cit., pp. 420-421.
[13] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Milano, Giuffré, 2009, pp. 254-256.
[14] C.M. Bianca, Diritto civile 6 – la proprietà, Milano, Giuffré, 2017, pp. 108-109.
[15] Cass. Civ., Sez. II, sentenza 25 giugno 1994, n. 6109.
[16] Cass. Civ., Sez. II, sentenza 25 ottobre 2005, n. 20639.
[17] Cass. Civ., Sez. II, sentenza 29 novembre 2016, n. 24235.
[18] Cfr. C.M. Bianca, op. cit., pp. 118-119.
[19] Cfr. C.M. Bianca, op. cit., pp. 125-126: “C’è sempre una soglia o “contenuto minimo” che non è dato al legislatore ordinario superare in nome dell’utilità sociale. La soglia è rappresentata dal normale godimento della cosa. Il vincolo che sottrae al proprietario il normale godimento del bene esautora il diritto di proprietà e ne vanifica la garanzia costituzionale”.