Licenziamento orale: cessazione del rapporto lavorativo non è prova sufficiente

in Giuricivile, 2019, 4 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. Lavoro, sent. 8/02/2019 n. 3822

Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti.

Ne consegue che la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sè sola idonea a fornire tale prova.

Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà dunque chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c., comma 1, rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa.

Il caso in esame

Il lavoratore ricorreva in Tribunale impugnando il licenziamento che assumeva essergli stato intimato oralmente dal datore di lavoro, adducendo quale prova la cessazione del rapporto lavorativo.

Il Tribunale di primo grado accoglieva il ricorso, decisione poi confermata dalla Corte d’Appello di Catanzaro. Secondo la Corte infatti, la cessazione del rapporto lavorativo addotta dal lavoratore era sufficiente come prova dell’avvenuto licenziamento.

Contrariamente, il datore di lavoro non era invece riuscito a dimostrare che la cessazione del rapporto lavorativo era avvenuta per dimissioni del lavoratore, come dallo stesso sostenuto. Il datore di lavoro ricorreva quindi in Cassazione.

I motivi di ricorso

Con il primo motivo di ricorso il datore di lavoro lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art.2697  c. 1 e 2 c.c.” per avere la Corte territoriale posto a suo carico l’onere di provare le dimissioni del lavoratore, nonostante non vi fosse prova del licenziamento orale, ma soltanto della cessazione del rapporto lavorativo.

La Suprema Corte, preso atto che non vi è un orientamento giurisprudenziale univoco in materia, coglie l’occasione per analizzare i precedenti giurisprudenziali più significativi e fare chiarezza.

L’orientamento che è andato delineandosi a partire dalla Sentenza n. 2853/95 è infatti quello seguito dalla Corte territoriale, secondo cui sul lavoratore grava l’onere di provare “l’estromissione” dal rapporto di lavoro, mentre sul datore di lavoro le asserite dimissioni del lavoratore. In seguito a questa sentenza molto si è ragionato e si è scritto sul termine “estromissione”, difatti, secondo l’orientamento al tempo vigente, confermato anche da altre decisioni più recenti (Cass. 18087/2007, Cass. 155/2009) “estromissione” è sinonimo di espulsione del lavoratore dal ciclo produttivo e quindi “licenziamento”. Ne consegue che l’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. secondo cui il lavoratore deve fornire prova del licenziamento, può ritenersi soddisfatto con la dimostrazione della cessazione del rapporto lavorativo, gravando invece sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che l’interruzione del rapporto sia stato determinato da altra causa.

Secondo un altro orientamento invece, non è corretto utilizzare il termine “estromissione” laddove non sia chiara la causa della cessazione del rapporto. Difatti, ritenere che per assolvere all’onere della prova gravante sul lavoratore ex art. 2967 c.c. è sufficiente allegare la circostanza della cessazione del rapporto, determinerebbe un’inaccettabile inversione dell’onere della prova a carico del datore di lavoro (Cass n 12520/2000). Per tali motivi è necessario che l’indagine del Giudice di merito sia particolarmente rigorosa nell’apprezzamento del materiale probatorio.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte decide di avvallare il secondo tra i due indirizzi sopra richiamati, evidenziando che il termine “estromissione” non coincide con “cessazione del rapporto di lavoro”, bensì con un atto del datore di lavoro volto ad espellere il lavoratore dall’azienda (Cass. 31501/2018) Pertanto, il lavoratore che intende impugnare un licenziamento orale dovrà dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ma anche il fatto costitutivo della sua domanda, ovvero la volontà del datoriale, e ciò a prescindere dall’attività processuale del convenuto.

Infatti, il ricorrente, ai sensi dell’art. 2967 c.c. deve provare le ragioni poste a fondamento della propria domanda indipendentemente dal convenuto che, per inciso, potrebbe anche rimanere contumace.  Non trova invece alcun riscontro normativo la tesi secondo cui il lavoratore può limitarsi ad invocare l’intervenuta cessazione del rapporto lavorativo a fondamento della propria domanda.

Graverà invece sul datore di lavoro l’onere di dimostrare la giusta causa del licenziamento o che l’interruzione del rapporto di lavoro sia avvenuta per dimissioni del lavoratore. Secondo la Suprema Corte infatti, una diversa soluzione determinerebbe un’inversione dell’onere della prova a carico del datore di lavoro cui non è possibile trovare fondamento alcuno nemmeno in via sistematica perché eventuali difficoltà nel fornire la prova gravante sul lavoratore trovano adeguato contrappeso in un utilizzo appropriato delle presunzioni da parte del giudice, che è chiamato a ricostruire i fatti con accurata indagine probatoria.

Quindi, ove reputi insufficienti le prove acquisite, il giudice non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova ma ha il potere- dovere di superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti (Cass. SS.UU. n. 11353 del 2004). Nel caso residuale in cui perduri l’incertezza sull’esistenza del licenziamento, opererà la regola dell’art. 2967 c.c., in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della propria domanda la vedrà respinta, indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro abbia o meno fornito prova delle dimissioni eccepite.

La Suprema Corte pertanto accoglie il primo motivo di ricorso invocato dal datore di lavoro e, ritenuti assorbiti gli altri motivi cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.

Una breve riflessione

La Suprema Corte ha pertanto deciso di dare continuità al secondo orientamento giurisprudenziale secondo cui il lavoratore deve adempiere in maniera concreta ed effettiva all’onere della prova gravante su colui che agisce in giudizio, mentre il datore di lavoro, dal canto suo, sarà tenuto a fornire prova delle eccezioni con cui intende contrastare le domande del lavoratore. Gli ermellini, consapevoli che la prova di un licenziamento orale potrebbe risultare particolarmente ardua per il lavoratore, per mitigare almeno parzialmente tali difficoltà, ricordano che il Giudice del Lavoro ha poteri particolarmente incisivi in sede di indagine probatoria, che non deve esitare ad utilizzare per fugare ogni dubbio sulla qualificazione della cessazione del rapporto lavorativo, anche, eventualmente, superando eventuali preclusioni o decadenze cui possano essere incorse le parti. Qualora neppure un’indagine particolarmente rigorosa sia sufficiente, si dovrà allora applicare l’art. 2967 c.c. pertanto, se il lavoratore non sarà in grado di provare che la cessazione del rapporto lavorativo è intervenuta per volontà del datore di lavoro, vedrà la propria domanda rigettata.

Se il ragionamento della Suprema Corte è certamente condivisibile da un punto di vista logico – giuridico, dall’altra parte non si può non considerare come un simile orientamento finisca per sacrificare il lavoratore, parte debole del rapporto lavorativo, che l’ordinamento vorrebbe invece tutelare. Difatti, per il lavoratore, fornire la prova di un licenziamento orale potrebbe essere particolarmente difficoltoso. Si pensi a situazioni in cui il licenziamento viene intimato in assenza di possibili testimoni, o al caso in cui eventuali testimoni possano essere influenzati dal timore di perdere la propria occupazione: per il lavoratore sarebbe pressoché impossibile riuscire a dimostrare che l’interruzione del rapporto è dovuto alla volontà del datore di lavoro e non alla propria e se dalla suddetta vicenda è scaturito un procedimento giunto perfino in Cassazione è altamente probabile che le circostanze in cui si è verificata la cessazione del rapporto non consentivano un dialogo tra le parti, neppure al fine di procedere alla definizione, nelle forme di rito, della cessazione del rapporto.  E’ evidente che in casi simili potrebbe ben poco anche il potere d’indagine del giudice. D’altra parte, si deve considerare che il datore di lavoro, forte della propria posizione, ha a disposizione maggiori strumenti di tutela. Inoltre, è lecito presumere che un datore mediamente accorto sia a conoscenza, quanto meno per esperienza, delle norme che regolano il licenziamento e le dimissioni del datore di lavoro e sia pertanto nella posizione di invitare il lavoratore dimissionario a formalizzare la propria volontà, eventualmente anche in un momento successivo, ad esempio tramite raccomandata a.r.

Secondo il modesto parere di chi scrive, gli Ermellini hanno voluto dare un’interpretazione maggiormente aderente al dettato normativo confidando che l’ampio spazio riservato alla discrezionalità e al potere d’indagine dei giudici di merito sia sufficiente a scongiurare il rischio di penalizzare eccessivamente il lavoratore. Solamente il tempo e le decisioni dei giudici di merito che interverranno dopo questa pronuncia ci diranno se la fiducia della Suprema Corte nell’apprezzamento dei giudici di merito è ben riposta.

Il principio di diritto

Alla luce di tutto quanto evidenziato, la Cassazione ha dunque enunciato il seguente principio di diritto:

Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sè sola idonea a fornire tale prova.

Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c., comma 1, rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa“.

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