Il datore può essere responsabile per danni da ambiente lavorativo nocivo pure in assenza di mobbing

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 27685/2025 (clicca qui per scaricare il PDF integrale della decisione), ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, pur riconoscendo condotte aziendali censurabili. La Suprema Corte chiarisce che, anche in assenza di un intento persecutorio sistematico (mobbing), il datore può essere responsabile ex art. 2087 c.c. per non aver tutelato l’integrità psico-fisica del lavoratore. Per approfondimenti sul nuovo diritto del lavoro, Maggioli Editore ha organizzato il corso di formazione “Corso avanzato di diritto del lavoro – Il lavoro che cambia: gestire conflitti, contratti e trasformazioni”, a cura di Federico Torzo (clicca qui per iscriverti).

Mobbing, straining, negligenza datoriale

La vicenda trae origine dal ricorso di un lavoratore contro una società s.r.l., accusata di aver posto in essere condotte lesive della sua salute e dignità professionale. In primo grado, il Tribunale aveva riconosciuto una condotta mobbizzante, individuando quattro elementi principali:

– la modifica dell’orario di lavoro, con obbligo di prestazione fino a fine giornata dopo anni di permesso anticipato;

– l’assegnazione di mansioni inferiori senza adeguata formazione;

l’indifferenza verso problemi di salute manifesti;

– il tollerare ripetuti episodi di scherno legati all’orientamento sessuale del lavoratore.

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della decisione, aveva respinto la domanda risarcitoria, ritenendo che le condotte non integrassero un disegno persecutorio sistematico. Pur giudicando censurabili alcuni comportamenti, la Corte territoriale aveva escluso la responsabilità datoriale, qualificando le condotte come negligenze prive di intento vessatorio.

Responsabilità pure senza mobbing

La Cassazione, con ordinanza pubblicata il 16 ottobre 2025, ha accolto il primo motivo di ricorso del lavoratore, cassando la sentenza d’appello e rinviando la causa alla Corte d’Appello di Roma in differente composizione.

Il principio affermato è chiaro:

anche in assenza di mobbing, il datore di lavoro può essere responsabile ex art. 2087 c.c. se non adotta tutte le misure necessarie a tutelare la salute e la dignità del lavoratore.

La Corte sottolinea che le nozioni di mobbing e straining, pur diffuse nel linguaggio medico-legale, non presentano autonoma rilevanza giuridica, bensì servono a descrivere condotte che violano gli obblighi di protezione imposti al datore.

In particolare:

  • il mobbing richiede un intento persecutorio sistematico;
  • mentre lo straining si configura anche con condotte isolate o non continuative, purché causino stress lavorativo e danni psico-fisici.

Art. 2087 c.c. come presidio di tutela

La Corte ribadisce che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro un obbligo contrattuale di protezione, che può essere violato anche per colpa, non solo per dolo. È sufficiente che il comportamento omissivo o negligente sia in nesso causale con un danno alla salute del lavoratore.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva riconosciuto:

l’assegnazione di mansioni fisicamente gravose nonostante una patologia conclamata;

episodi di scherno sul luogo di lavoro, anche se non sempre sistematici o diretti;

la mancata predisposizione di ausili per agevolare la prestazione lavorativa.

Tali elementi, per la Cassazione, impongono al giudice del rinvio di valutare se vi sia stata una violazione dell’art. 2087 c.c., indipendentemente dalla configurazione del mobbing.

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Onere della prova e ruolo del giudice

La Corte chiarisce che, in queste ipotesi:

  • il lavoratore ha l’onere di comprovare il danno subito e il nesso causale con l’ambiente lavorativo.
  • Il datore, invece, deve dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per prevenire e contrastare situazioni lesive.

Non è dirimente che il lavoratore abbia qualificato la domanda come “mobbing, in quanto il giudice deve comunque verificare se i fatti allegati integrino una responsabilità datoriale per violazione degli obblighi di protezione.

Implicazioni pratiche e giurisprudenziali

La pronuncia si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato, che estende la tutela del lavoratore oltre le ipotesi di mobbing. La Cassazione richiama precedenti significativi (quali, Cass. n. 3291/2016, n. 33639/2022, n. 5061/2024), ribadendo che finanche condotte isolate, ove produttive di danno, possono fondare una responsabilità risarcitoria.

Per le aziende, ciò comporta un dovere di vigilanza costante sull’ambiente lavorativo, sulle dinamiche interpersonali e sull’adeguatezza delle mansioni assegnate. Per i lavoratori, si apre la possibilità di tutela anche in assenza di una persecuzione sistematica, a condizione che sussista prova del danno e del nesso eziologico.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in disamina, ha riaffermato il principio secondo cui la responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente può sussistere anche in assenza di mobbing, quando vi sia una violazione degli obblighi di protezione ex art. 2087 c.c.

Il giudice del rinvio dovrà riesaminare la fattispecie alla luce di siffatto principio, valutando se le condotte censurate, pur non sistematiche, abbiano cagionato un danno risarcibile. La decisione rafforza la centralità della tutela della persona nel rapporto di lavoro e richiama le imprese a una maggiore responsabilità sociale.

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