Revoca del consenso alla separazione consensuale: natura negoziale dell’accordo

Il Tribunale di Venezia, con la sentenza n. 343/2025 (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), si è occupato di una questione tanto frequente nella prassi quanto controversa: la revocabilità del consenso alla separazione consensuale. La decisione offre l’occasione per riflettere, con taglio sistematico, sulla distinzione tra natura negoziale dell’accordo di separazione e natura processuale del divorzio congiunto, riportando in primo piano un dibattito classico nel diritto di famiglia: fino a che punto può retrocedere l’accordo tra i coniugi?

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Ida Grimaldi,
Avvocato cassazionista, esperta in materia di diritto di famiglia e tutela dei minori, lavoro e discriminazioni di genere. È docente e relatrice in numerosi convegni nazionali, dibattiti e corsi di formazione. Autrice e curatrice di diverse opere in materia di diritto di famiglia e minorile, lavoro e pari opportunità, scrive per numerose riviste giuridiche ed è componente del Comitato Scientifico della rivista “La Previdenza Forense”, quadrimestrale della Cassa di Assistenza e Previdenza Forense.

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Il caso concreto

I coniugi avevano presentato ricorso congiunto per separazione consensuale, contenente un accordo completo in merito all’affidamento dei figli e alla regolazione degli aspetti patrimoniali. Tuttavia, prima che intervenisse l’omologazione del giudice, uno dei due ha dichiarato la propria volontà di non voler più procedere alla separazione.

Il Tribunale, preso atto del venir meno del consenso, ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso, evidenziando come l’accordo non si fosse perfezionato in quanto privo del requisito della concorde volontà sino al momento della decisione giudiziale, secondo quanto previsto dall’art. 473-bis 51 c.p.c.

La natura negoziale dell’accordo: tra autonomia privata e intervento giudiziale

La motivazione del Tribunale si fonda su una ricostruzione che qualifica l’accordo di separazione consensuale come negozio bilaterale atipico a formazione progressiva, soggetto a al controllo dell’Autorità Giudiziaria, la quale deve, in ogni caso, recepire e verificare la permanenza della volontà espressa dai coniugi in sede di ricorso.

In questo contesto, viene richiamato l’art. 1322, secondo comma, c.c., che consente alle parti di concludere contratti atipici purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. La separazione consensuale, spiega il giudice, rientra pienamente in tale fattispecie, presentando i connotati propri di un accordo autonomamente stipulato, soggetto quindi alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti o di terzi.

L’atto di omologazione non ha una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti, ma rappresenta una condizione di efficacia del sottostante accordo tra coniugi. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario che la stessa procedura di omologazione segua l’iter processuale previsto dalla legge e che quindi i coniugi, comparendo innanzi al giudice, dichiarino di non volersi riconciliare e confermino l’accordo negoziale tra loro intercorso.

Ne consegue che, prima dell’omologazione, il consenso costituisce elemento essenziale e insostituibile per la sussistenza stessa del vincolo: la revoca anche unilaterale determina il venir meno del presupposto di validità del ricorso, con la conseguente improcedibilità dell’istanza.

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E il divorzio congiunto?

Il Tribunale si confronta poi con la disciplina del divorzio congiunto, che segue logiche profondamente diverse. In tale ipotesi, non si ha un accordo negoziale, bensì una domanda processuale congiunta, che, una volta proposta e partecipata l’udienza, non può essere revocata unilateralmente. L’asimmetria tra i due istituti è giustificata dalla differente natura degli atti posti in essere: nella separazione consensuale si conserva fino all’omologazione una piena disponibilità negoziale delle parti, mentre nel divorzio congiunto il consenso si converte, con la comparizione in udienza, in un atto processuale, sottratto alla disponibilità della singola parte.

La Cassazione, a tal proposito, ha chiarito che, qualora sia stata proposta istanza congiunta di divorzio, la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi non comporta l’improcedibilità della domanda, dovendo il tribunale provvedere ugualmente all’accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all’esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili e agli interessi dei figli minori.

Infatti, a differenza di quanto avviene nel procedimento di separazione consensuale, la domanda congiunta di divorzio dà luogo a un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell’ambito del quale l’accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale ex art. 3 della l. n. 898 del 1970, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici.

Riflessioni sistematiche

La decisione in commento si segnala per la chiarezza con cui ricostruisce la fisiologia dell’accordo di separazione consensuale e ne traccia i confini. Il richiamo al principio secondo cui non si può costringere una persona a separarsi “di comune accordo” contro la sua volontà, rafforza il valore costituzionale del principio di autodeterminazione personale, anche nella dimensione familiare.

Sotto il profilo operativo, la sentenza ha ricadute concrete per gli avvocati che si occupano di diritto di famiglia: conferma che la revoca del consenso può intervenire in qualsiasi momento prima dell’omologa, anche a ridosso dell’udienza, ed è sufficiente a far cadere l’accordo. Né il giudice può valutare la fondatezza delle motivazioni del ripensamento: deve solo prenderne atto.

Conclusioni

La sentenza del Tribunale di Venezia riporta all’attenzione degli operatori un punto spesso dato per scontato: l’accordo di separazione è un negozio revocabile fino all’omologazione. È quindi legittimo che uno dei coniugi cambi idea, anche all’ultimo momento, e che il giudice, preso atto del venir meno dell’intesa, dichiari l’improcedibilità del ricorso.

È, dunque, una pronuncia che valorizza il principio di autodeterminazione coniugale, ponendo una linea di demarcazione chiara tra negozio giuridico (accordo di separazione consensuale) e atto processuale (divorzio congiunto), con importanti ricadute applicative per la prassi giudiziaria e per l’attività dei professionisti del diritto di famiglia.

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