Discriminazione nei colloqui di lavoro: Il principio di parità di trattamento

La discriminazione in ambito lavorativo è oggetto di un ampio corpus normativo volto a garantire il rispetto della parità di trattamento e la tutela della dignità dei candidati durante le fasi di selezione. Questo articolo analizza, con rigore metodologico, le normative che regolano il colloquio di lavoro, soffermandosi sulle domande vietate e sugli aspetti che conducono a fenomeni di discriminazione diretta e indiretta. L’obiettivo è delineare il quadro normativo italiano e sovranazionale che disciplina tali prassi, evidenziando la ratio alla base dei divieti e l’impatto sulla protezione dei diritti individuali.

Introduzione alla Discriminazione nei Colloqui di Lavoro

La discriminazione rappresenta un ostacolo strutturale alla realizzazione di un mercato del lavoro equo e inclusivo. Essa può insorgere in modo manifesto (discriminazione diretta) o attraverso modalità più subdole che risultano in un trattamento differenziato (discriminazione indiretta). Nel contesto dei colloqui di lavoro, alcune domande vengono vietate esplicitamente per evitare di ledere la dignità personale e garantire la selezione dei candidati unicamente in base a criteri professionali e meritocratici[1].

Discriminazione Diretta e Indiretta: Definizione e Manifestazioni nei Colloqui

La discriminazione diretta si verifica quando un candidato è trattato in modo svantaggioso rispetto ad altri, in ragione di caratteristiche personali protette dalla legge (ad es. sesso, religione, orientamento sessuale, età). Tale discriminazione può manifestarsi attraverso domande dirette volte a conoscere elementi della vita privata del candidato, come “Ha intenzione di avere figli?” o “Qual è il suo stato civile?”.

La discriminazione indiretta, invece, avviene quando un criterio apparentemente neutro si rivela pregiudizievole per determinate categorie. Ad esempio, richiedere una disponibilità illimitata per orari serali può penalizzare chi ha responsabilità familiari, come le madri lavoratrici, incidendo di fatto su un gruppo specifico di candidati. La distinzione tra discriminazione diretta e indiretta è fondamentale, poiché amplia il campo di applicazione delle tutele anche ai casi in cui l’intenzionalità discriminatoria non sia evidente.

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Fonti Normative Nazionali e Sovranazionali

Le fonti normative che disciplinano il divieto di discriminazione nei colloqui di lavoro trovano il proprio fondamento in un insieme articolato di norme, che riflettono una lunga evoluzione giuridica in tema di parità di trattamento. Di seguito si riportano i principali riferimenti normativi:

Costituzione della Repubblica Italiana: L’articolo 3 garantisce il principio di uguaglianza, sancendo che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.” Questo articolo, integrato dal principio di pari opportunità contenuto nell’articolo 37[2], costituisce la base per la tutela contro le discriminazioni in ambito lavorativo, incluse le fasi preliminari di selezione.

Codice delle Pari Opportunità (D.Lgs. 198/2006): Questo decreto definisce e vieta espressamente sia la discriminazione diretta che quella indiretta, estendendo la protezione a diverse caratteristiche personali, quali genere, razza, età, disabilità e orientamento sessuale. Gli articoli 25 e seguenti stabiliscono in modo dettagliato il divieto di domande che possano comportare una selezione non equa, facendo della parità di trattamento una condizione imprescindibile nella selezione del personale[3].

Direttive Europee: La Direttiva 2000/78/CE (sul quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro)[4] e la Direttiva 2006/54/CE (sull’attuazione del principio di parità tra uomini e donne in materia di occupazione)[5] rappresentano i principali riferimenti normativi sovranazionali. Esse stabiliscono l’obbligo per gli Stati membri di adottare misure atte a prevenire la discriminazione sia diretta che indiretta, sancendo il diritto alla parità di trattamento a prescindere dalle caratteristiche personali del candidato.

Codice civile e Statuto dei Lavoratori: L’articolo 2103 del Codice Civile, congiuntamente agli articoli dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970)[6], fornisce ulteriori garanzie di parità di trattamento, prevenendo qualsiasi forma di discriminazione[7] anche nelle fasi preliminari dell’assunzione. Il diritto antidiscriminatorio trova qui un’applicazione estensiva, rafforzata dai principi sanciti nelle normative costituzionali e sovranazionali.

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Il Rationale Normativo: Perché sono Vietate Determinate Domande?

Le limitazioni imposte alle domande durante il colloquio di lavoro rispondono a una precisa esigenza di tutela dei diritti fondamentali dei candidati. Gli obiettivi principali sono i seguenti:

Tutela della Dignità: Il diritto alla dignità personale, espresso in modo inequivocabile nell’articolo 3 della Costituzione, impone che il candidato non venga discriminato per caratteristiche estranee alla propria competenza professionale. Domande inerenti alla vita privata (come la situazione familiare o lo stato di salute) ledono la dignità del candidato e rappresentano un’ingerenza in ambiti non pertinenti.

Rispetto della Privacy: La normativa in materia di privacy, con particolare riferimento al GDPR (Regolamento UE 2016/679)[8], impone che vengano raccolti esclusivamente i dati pertinenti e necessari ai fini della selezione. Qualsiasi domanda volta a raccogliere informazioni sensibili, quali orientamento sessuale, convinzioni religiose o condizioni di salute, è in violazione del principio di minimizzazione dei dati e della privacy individuale.

Parità di Opportunità: Un colloquio di lavoro deve garantire a tutti i candidati le stesse condizioni di accesso, basate su criteri oggettivi e strettamente connessi alle competenze professionali. Domande discriminatorie precludono l’accesso a determinate categorie di persone, ostacolando il principio di pari opportunità, un diritto che rappresenta uno dei pilastri del sistema giuridico europeo.

Prevenzione della Discriminazione Indiretta: L’adozione di criteri apparentemente neutri che escludono certe categorie di candidati costituisce discriminazione indiretta e viene vietata al fine di garantire l’uguaglianza sostanziale. Questo principio implica che non solo siano evitate domande discriminatorie dirette, ma anche prassi che potrebbero produrre effetti svantaggiosi per categorie specifiche.

Ragionamenti Conclusivi

Il divieto di domande discriminatorie durante il colloquio di lavoro rappresenta un aspetto fondamentale della tutela della dignità e della parità di trattamento dei candidati. L’insieme delle fonti normative esaminate testimonia un impegno costante nella promozione di un ambiente di selezione equo e rispettoso dei diritti individuali, prevenendo ogni forma di pregiudizio che potrebbe incidere sulle opportunità lavorative. Un processo di selezione rispettoso delle norme e dei principi di uguaglianza è essenziale per costruire un mercato del lavoro basato sulla competenza e sulla meritocrazia, riflettendo l’evoluzione verso una società più inclusiva e giusta.

NOTE

[1] Per tutti: LA TEGOLA, Ornella. ” Oltre” la discriminazione: legittima differenziazione e divieti di discriminazione. Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2009, 2009/123; SANTAGATA DE CASTRO, Raffaello, et al. Discriminazione diretta e indiretta: una distinzione da ripensare?. Lavoro e diritto, 2022, 497-518; FERLUGA, Loredana, et al. I divieti di discriminazione per motivi di genere. Dirittifondamentali. it, 2021, 153.

[2] D.lgs. del 11 aprile 2006, n. 198 – Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246.

note: Entrata in vigore del decreto: 15-6-2006 (Ultimo aggiornamento all’atto pubblicato il 30/06/2022) – (GU n.125 del 31-05-2006 – Suppl. Ordinario n. 133) Art. 37 – Legittimazione processuale a tutela di più soggetti (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, commi 7, 8, 9, 10 e 11):

  1. Qualora le consigliere o i consiglieri di parità regionali e, nei casi di rilevanza nazionale, la consigliera o il consigliere nazionale rilevino l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo o comunque nell’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni compresa la retribuzione, nella progressione di carriera, nonché in relazione alle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l’azione in giudizio ai sensi dei commi 2 e 4, possono chiedere all’autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a centoventi giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato idoneo alla rimozione delle discriminazioni, la consigliera o il consigliere di parità promuove il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice del lavoro.
  2. Con riguardo alle discriminazioni di carattere collettivo di cui al comma 1, le consigliere o i consiglieri di parità, qualora non ritengano di avvalersi della procedura di conciliazione di cui al medesimo comma o in caso di esito negativo della stessa, possono proporre ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti.
  3. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 2, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina all’autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale. Nella sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano.
  4. Ferma restando l’azione di cui al comma 2, la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d’urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. ((Il Tribunale in funzione di giudice del lavoro adito)), nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 3.

Contro il decreto è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva. ((La tutela davanti al giudice amministrativo è disciplinata dall’articolo 119 del codice del processo amministrativo.))

  1. L’inottemperanza alla ((sentenza di cui al comma 3 e al comma 4)), al decreto di cui al comma 4 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è punita con l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi e comporta altresì il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento da versarsi al Fondo di cui all’articolo 18 e la revoca dei benefici di cui all’articolo 41, comma 1.

[3] D.lgs. del 11 aprile 2006, n. 198 – Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246.

note: Entrata in vigore del decreto: 15-6-2006 (Ultimo aggiornamento all’atto pubblicato il 30/06/2022) – (GU n.125 del 31-05-2006 – Suppl. Ordinario n. 133) Art. 25 Discriminazione diretta e indiretta (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, commi 1 e 2):

  1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando ((le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale,)) le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
  2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento ((, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro,)) apparentemente neutri mettono o possono mettere ((i candidati in fase di selezione e)) i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

((2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:

  1. a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
  2. b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
  3. c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera))

GOTTARDI, Donata Maria Assunta, et al. Il diritto antidiscriminatorio e la nozione di discriminazione diretta e indiretta. In: La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. Casa Editrice Ediesse srl, 2005. p. 117-130.

[4] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX%3A32000L0078

[5] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A32006L0054

[6] Legge del 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. (Ultimo aggiornamento all’atto pubblicato il 25/05/2022) (GU n.131 del 27-05-1970)

[7] Cassazione civile, Sez. Lavoro, ordinanza n. 27266 del 26 ottobre 2018): Il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità aziendale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all’art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari. In tali casi, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell’iniziativa economica privata (garantita dall’art. 41 Cost.), il controllo stesso non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, né questa deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo – Massima in Brocardi.it

[8] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32016R0679

Alessio Barpi è un giurista specializzato nel diritto penale, civile e finanziario d'impresa, con particolare attenzione alla compliance aziendale e alla responsabilità penale degli enti (D.Lgs. 231/2001). Ha conseguito una doppia laurea presso l'Università degli Studi di Genova in Servizi Legali per l'Impresa e la Pubblica Amministrazione e in Giurisprudenza. Attualmente, sta ampliando le proprie competenze con un corso di laurea in Economia Aziendale, integrando le conoscenze giuridiche con una solida base economico-finanziaria. Ha completato percorsi di perfezionamento in Responsabilità Penale degli Enti e Diritto Penale Tributario, con un focus specifico sul diritto commerciale, societario e finanziario.

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