Con sentenza n. 10424 del 15 aprile 2019, la Corte di Cassazione, III Sez. civile, ha riconosciuto la risarcibilità del danno per diagnosi non tempestiva.
Tale pronuncia si inserisce perfettamente nel quadro normativo degli ultimi anni che ha dato maggiore spazio all’autodeterminazione della persona duranti i momenti finali della propria vita. Infatti, proprio di recente, anche in virtù di clamorosi fatti di cronaca, nazionali ed internazionali, il legislatore è intervenuto con la legge n. 219 del 22. dicembre 2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”).
Il caso in esame
I congiunti di una donna deceduta per un sarcoma del tessuto connettivo muscolare liscio, ricorrevano per la cassazione della sentenza della Corte territoriale che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni, iure proprio e iure hereditatis, conseguenti al decesso della predetta, nei confronti della Azienda Unità Sanitaria di Lecce LE/1.
La domanda di risarcimento era stata respinta, perché, secondo la Corte d’Appello, non era stato sufficientemente provato che la ritardata diagnosi del carcinoma avesse compromesso le chance di guarigione o di maggiore e migliore sopravvivenza della paziente.
I ricorrenti si dolevano del fatto che vi fosse stato, da parte della struttura ospedaliera e del medico curante, un errore diagnostico, poiché a seguito di un primo intervento, alla donna veniva comunicato che l’esame istologico presentava l’esistenza di un, ormai asportato, fibroma benigno. A seguito degli incessanti dolori che erano sorti dopo poco tempo dalla prima operazione, la donna veniva nuovamente sottoposta ad un trattamento medico presso l’Azienda Ospedaliera di Padova, dove le veniva diagnosticato un tumore maligno.
In particolare, i ricorrenti lamentavano la mancata considerazione parte della Corte d’Appello competente, delle conseguenze che sarebbero derivate da una corretta e tempestiva diagnosi. Grazie ad essa, infatti, la donna avrebbe potuto decidere di sottoporsi a cure più appropriate, poiché, come evidenziato dalla stessa CTU, vi sarebbero state concrete possibilità di guarire dal carcinoma. E, nell’ipotesi in cui tali terapie non si fossero rilevate salvifiche, la consapevolezza della diagnosi di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto, le avrebbe comunque permesso di scegliere come disporre degli ultimi istanti della propria vita.
L’iter argomentativo della Cassazione
Nell’accogliere il ricorso dei familiari della donna, la Corte di Cassazione precisa quanto di seguito specificato.
In primo luogo, riconosce l’errata motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui questa considerava eventualmente risarcibili i soli danni da perdita di chance di guarigione o di più prolungata sopravvivenza alla patologia ad esito letale, fatti valere iure hereditatis. La stessa Corte di Cassazione, in passato, aveva ritenuto erroneo affermare che, una non tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito comunque infausto, non potesse incidere sulla qualità di vita del paziente. Quest’ultimo, infatti, deve poter scegliere “che fare” e “di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell’essere si esprime, in vista di quell’esito”[1].
In secondo luogo, la Suprema Corte, mette in luce l’autonomia che tale tipo di danno alla persona presenta rispetto a quello da perdita di chance. Il ritardo diagnostico, infatti, ha determinato “la perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, configurabile alla stregua di un quantum (…) di possibilità di un risultato o di un evento favorevole (…), ma apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto”[2]. Nella pronuncia in oggetto si evince, pertanto, di essere in presenza di un evento di danno risarcibile, rappresentato, non dalla perdita di chance di guarigione, bensì dalla privazione della possibilità di organizzare materialmente e spiritualmente il proprio tempo restante.
A sostegno di tale impostazione, la Cassazione cita la recente normativa in materia di disposizioni anticipate di trattamento (l. 219/2017) e quella sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore (l. 38/2010), quali punti cardine di un sistema sempre più indirizzato a garantire l’autodeterminazione del soggetto nelle ultime fasi della propria vita, e non solo di un sistema fornitore di un piano terapeutico in senso stretto. Secondo la Cassazione, la situazione della persona, chiamata alla “più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine”, deve trovare tutela anche sul piano normativo, sia nel caso in cui voglia fare riscorso a trattamenti lenitivi degli effetti della malattia non più curabile, sia qualora voglia semplicemente accettare la propria condizione. Si legge in sentenza che “anche la sofferenza e il dolore là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose”.
Conclusioni
La Suprema Corte conclude, adattando una citazione di una celebre scrittrice del 900’ all’ordinamento giuridico, per cui esso non deve essere affatto indifferente all’esigenza dell’essere umano “di entrare nella morte ad occhi aperti”.
Alla luce di quanto finora esposto, la Cassazione accoglie il ricorso principale e dichiara inammissibili i ricorsi incidentali proposti dalla Azienda Unità Sanitaria di Lecce LE/1 e dal Centro diagnostico, cassando, per l’effetto, la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello in diversa composizione per la decisione in ordine alla domanda di risarcimento del danno iure hereditatis ovvero perché si pronunci sulla richiesta di ristoro del pregiudizio cagionato alla qualità della vita della paziente, nel senso sopra illustrato.
[1] Cass., III Sez. civile, sent. n. 23846/2008
[2] Cass., III Sez. civile, ord. n. 7260/2018