Risarcimento danni in caso di cedimento del parapetto e caduta dal balcone

in Giuricivile, 2017, 4 (ISSN 2532-201X), Nota a sentenza Cass. sez. III civile, 04.04.2017, n. 8673, Presidente Roberta Vivaldi; Relatore Chiara Graziosi

Con sentenza del 4 aprile 2017, n. 8673, la Corte di Cassazione ha deciso un caso di risarcimento del danno dovuto al cedimento di un parapetto che ha provocato la caduta dal balcone da parte del danneggiato.

La pronuncia della S.C. risulta essere particolarmente interessante per tre questioni: la prima di ordine processuale, la seconda e la terza di ordine sostanziale.

1. Applicazione dell’art. 2053 c.c. nel caso di cedimento del parapetto e caduta dal balcone

La sentenza in esame ha confermato che nel caso di cedimento del parapetto e conseguente caduta del soggetto danneggiato dal balcone, trova applicazione l’art. 2053 c.c.Rovina di edificio”.

La disposizione in esame stabilisce che “Il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione”.

Ebbene, secondo un consolidato orientamento[1] richiamato dalla Suprema Corte, la fattispecie descritta nella suddetta norma è in astratto configurabile quando vi è la disgregazione, anche limitata, degli elementi strutturali di una costruzione, ovvero degli elementi accessori in essa stabilmente incorporati.

Si tratta inoltre di una responsabilità oggettiva e, pertanto, la prova liberatoria deve consistere nella dimostrazione che la rovina non sia avvenuta a causa di un difetto di manutenzione o a un vizio di costruzione, ma da un fatto esterno dotato di efficacia causale autonoma come, ad esempio, la condotta del terzo o dello stesso danneggiato, ovvero il caso fortuito.

Tuttavia, il “caso fortuito” non è richiamato dall’art. 2053 c.c., a differenza che dall’art. 2051 c.c.

Siffatta differenza tra le due disposizioni non è, secondo il parere di chi scrive, soltanto terminologica, ma ha risvolti sostanziali.

Infatti, il caso fortuito si identifica con un fatto non prevedibile né prevenibile con l’ordinaria diligenza, a cui sia imputabile l’evento dannoso.

La conseguenza è che chi deve provare il caso fortuito, deve provare la causa dell’evento dannoso e che siffatta causa non era prevedibile né prevenibile con l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia.

Pertanto, il compito del “caso fortuito” non è quello di introdurre una ipotesi di responsabilità oggettiva, ma soltanto di invertire l’onere probatorio e, quindi, far gravare sul custode della cosa (con riferimento all’art. 2051), anziché sul danneggiato (come nelle normali ipotesi di responsabilità extracontrattuale disciplinate dall’art. 2043 c.c.), il rischio che rimanga ignota la causa dell’evento dannoso.

Pertanto l’art. 2051 c.c. presenterebbe una responsabilità che si disloca nell’area della colpa, mentre l’art. 2053 c.c. stabilirebbe una vera e propria ipotesi di responsabilità oggettiva.

Ad ogni modo, la più recente giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere il caso fortuito come un fattore in grado di interrompere il nesso di causalità tra la cosa e l’evento dannoso, caratterizzato dall’imprevedibilità e dall’eccezionalità[2].

2. Quid iuris nel caso in cui il danno venga cagionato da strutture condominiali?

La sentenza in esame ha affrontato il caso del cedimento del parapetto di un balcone di proprietà esclusiva di un condomino.

Quali sono dunque le conseguenze nel caso in cui a cedere sia una parte della struttura condominiale, comune ai condomini[3]?

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18168/2014 ha innanzitutto stabilito che in materia di condominio, la legittimazione passiva nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti dal cedimento di strutture condominiali spetta al condominio, in persona dell’amministratore quale rappresentante di tutti i condomini obbligati, poiché la responsabilità delineata dall’art. 2053 c.c. si fonda sulla proprietà del bene, la cui rovina è cagione del danno, e va imputata a chi abbia la possibilità di ovviare ad un vizio di costruzione o di provvedere alla manutenzione del bene ossia, per le strutture condominiali, al condominio.

Tra l’altro, sempre con riferimento al danno cagionato a terzi da parti comuni dell’edificio condominiale (non costituenti elementi della struttura dell’edificio né elementi in essa incorporati), Cass. n. 17983/2014 ha affermato che il condominio risponde, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei danni cagionati[4].

Tuttavia, nei casi delineati, l’amministratore è soggetto, ai sensi dell’art. 1218 c.c.[5], all’azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che quest’ultimo abbia versato ai terzi danneggiati.

Infatti, l’amministratore è, ai sensi dell’art. 1130, nn. 4 e 6, c.c., tenuto alla gestione delle cose comuni e alla custodia delle stesse, col conseguente obbligo di vigilare affinché non rechino danni a terzi o ai singoli condomini.

3. L’analisi dei principi di diritto stabiliti da Cass., Sez. Un., n. 8053/2014 e ripresi da Cass. n. 8673/2017

Relativamente all’aspetto processuale affrontato dalla Corte di legittimità, viene fatto riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.[6], il quale indica che il ricorso per Cassazione è ammissibile, tra gli altri motivi, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

L’attuale formulazione deve essere letta in combinato disposto con l’art. 348-ter, commi 4 e 5, c.p.c., che vieta il ricorso per Cassazione, in ordine a tale motivo, quando l’appello è stato dichiarato inammissibile sulla base delle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a fondamento della decisione impugnata (comma 4); quando la sentenza di appello ha confermato la decisione di primo grado (comma 5).

In relazione all’art. 360, n. 5, la sentenza in commento si presta a recepire l’insegnamento delle S.U., n. 8053/2014, le quali ne hanno analizzato la portata. È, pertanto, necessario ripercorrere i tratti essenziali di quest’ultima decisione.

In primo luogo, le S.U. hanno rilevato che nella formulazione del nuovo n. 5) scompare ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, oltre al vizio di omissione (che tuttavia assume un diverso significato), non vengono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà.

La ratio di tale riforma risiede, infatti, nell’evitare un abuso dei ricorsi per Cassazione basati sul vizio di motivazione, non necessariamente necessitati dai precetti costituzionali.

In secondo luogo, sia la volontà del legislatore, che la lettera della norma, convergono verso una riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato della Corte di Cassazione in ordine alla motivazione della sentenza impugnata.

Infatti, le stesse S.U. stabiliscono che “ritorna così pienamente attuale la giurisprudenza delle Sezioni Unite sul vizio di motivazione ex art. 111 Cost., come formatasi anteriormente alla riforma del decreto legislativo numero 40 del 2006: il vizio si converte in violazione di legge nei soli casi di omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile, sempre che il vizio fosse testuale”.

Invero, già in passato le Sezioni Unite[7] avevano stabilito che l’unica anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, fosse rappresentata dal vizio attinente all’esistenza della motivazione in sé, a prescindere dal confronto delle risultanze processuali, e si esauriva nei profili della “mancanza assoluta dei motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

Vizio motivazione che deve emergere dal testo del provvedimento impugnato, così da comportarne la nullità.

A siffatta valutazione resta estranea la verifica relativa alla sufficienza e alla razionalità della motivazione, implicante una comparazione tra le ragioni del decidere adottate ed espresse in sentenza e le risultanze probatorie (così come valutate dal giudice di merito).

Le S.U. n. 8053/2014, infatti, confermando l’orientamento appena esposto, ritenuto valido fino alla previgente riforma dell’art.  360 c.p.c.[8], hanno ritenuto che siffatto orientamento appare nuovamente legittimato, a seguito della sostituzione del n. 5 con il nuovo testo in esame, il quale ha l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione alle sole ipotesi di “mancanza di motivazione”, con riferimento all’art. 132, n. 4, del codice di rito.

Tale “mancanza” si configura nel caso in cui la motivazione manchi del tutto, ovvero questa formalmente esista come parte della sentenza, ma le sue argomentazioni sono così contraddittorie da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum[9].

Inoltre, il controllo che deve adoperare la Corte di legittimità in ordine al n. 5 dell’art. 360 deve riguardare l’omesso esame di un fatto storico, risultante dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e che risulti decisivo (nel senso che se fosse stato esaminato, l’esito della controversia sarebbe stato differente).

Infatti, continuano le Sezioni Unite, poiché la sentenza, sotto il profilo della motivazione si sostanzia nella giustificazione delle conclusioni espresse nella stessa, oggetto del controllo in sede di legittimità è costituito dalla plausibilità del percorso argomentativo che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze.

Quando le conclusioni sono implausibili, si può incorrere in una motivazione apparente, ovvero nell’omesso esame di un fatto che spezzi il nesso di verosimiglianza tra le premesse e la probabilità delle conseguenze e, quindi, risulti decisivo.

Infine, le S.U. chiariscono che siffatto controllo adoperato dalla Corte di legittimità non si traduce in una revisione, nel merito, del giudizio.

Invero, il controllo della motivazione adoperato in sede di legittimità ha ad oggetto i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione (e, quindi, della motivazione), senza che la Cassazione possa sostituire la propria massima di esperienza con quella adottata dalla Corte territoriale ovvero confrontare la sentenza con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in esame un fatto diverso o ulteriore rispetto a quelli presi in considerazione dal giudice di merito.

Pertanto, le Sez. Un., hanno affermato il seguente principio di diritto, sostenendo che la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.,

deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione” onde rimane denunciabile “l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Orbene, siffatti principi sono stati fatti propri anche dalla sentenza n. 8673/2017 in esame, la quale, cassando la sentenza della Corte d’Appello, appunto perché viziata da motivazione apparente, ha stabilito[10] che una motivazione è tale quando reca argomentazioni obiettivamente non idonee ad esternare il ragionamento adoperato dal giudice per la formazione del proprio convincimento, ma risulta essere scritta con termini assolutamente ambigui, contraddittori, oppure incompleti, generici ovvero, anche se specifici, assolutamente incomprensibili.

Infatti, la sentenza in esame, conclude sul punto sostenendo che “la motivazione mediante la quale la corte territoriale esterna l’iter percorso nell’espletare il suo accertamento di fatto non è corrispondente al minimo costituzionale, poiché le argomentazioni adottate risultano incomplete e pertanto inidonee a consentire di comprendere realmente sulla base di quali effettivi elementi di prova la corte sia giunta a ritenere sussistenti i presupposti per riformare la sentenza di primo grado”.

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[1] Si veda Cass. n. 23939/2009.

[2] Ex multis, Cass. n. 9323/2015.

[3] Tra l’altro, questo è quanto ha prospettato la difesa del danneggiato nella causa in esame, che ha ritenuto il balcone  parte condominiale e non esclusiva del singolo condomino, chiedendo, quindi la condanna in solido anche del condominio.

[4] Risarcimento che sarà ripartito in solido tra i singoli condomini ai sensi dell’art. 2055 c.c.

[5] Trattasi, infatti, di inadempimento del contratto di mandato tra l’amministratore e il condominio (Cass. n. 9148/2008).

[6] Introdotto con l’art. 54, D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012 n. 134

[7] Sentenza n. 5888/1992.

[8] Avvenuta ad opera del D. Lgs. n. 40/2006.

[9] Cass. n. 20112/2009.

[10] Anche sulla base di quanto disposto dalle S.U. n. 22232/2016.

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