Rimborso negato delle spese legali alla parte vincitrice: illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c.?

Il presente documento ha come scopo quello di evidenziare alcuni aspetti di illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c. il quale attribuisce al Giudice il potere di negare, alla parte vincitrice della causa, il rimborso delle spese legali da essa sostenute nel caso in cui le stesse siano riconosciute come “eccessive” o “superflue” (comma 1), e quello di compensare le spese nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti (comma 2).

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La questione

La tematica è senza dubbio complessa, e, proprio per questo, merita un adeguato approfondimento, considerato che troppo spesso (purtroppo) si rinuncia ad esercitare un diritto costituzionale (qual è quello alla difesa) proprio per il timore di subire, anche nel caso di vittoria, una condanna alle spese, e ciò sicuramente non contribuisce ad alimentare nel cittadino una grande fiducia nella “equità” delle sentenze e quindi nella credibilità del sistema.
Diritto della parte vincitrice al rimborso delle spese legali nel caso in cui queste vengano considerate “eccessive”: illegittimità dell’art. 92 c.p.c. nella parte in cui non prevede tale diritto

  • Ai sensi dell’art. 96 c.p.c. viene condannata alle spese legali la parte (convenuto) che ha resistito in giudizio con colpa grave, ossia che ha accettato di partecipare al giudizio pur dovendo sapere che la sua difesa sarebbe stata considerata infondata. Allora, per un principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.), non dovrebbe essere condannato a pagare una parte delle spese (vedi il mancato rimborso di cui all’art. 92 c.p.c.) l’attore la cui domanda sia stata, invece, riconosciuta come fondata. Nel primo caso (art. 96 c.p.c.), la condanna alle spese è giustificata dalla “temerarietà” della lite, ossia dal fatto che il Giudice ha riconosciuto la difesa del convenuto come “manifestamente infondata”: quest’ultimo avrebbe dovuto astenersi dal resistere alla domanda proposta contro di lui; nonostante ciò, ha deciso di opporsi, causando però in tal modo un danno all’attività giurisdizionale, la quale, se non vi fosse stata l’opposizione, avrebbe potuto essere indirizzata su altri contenziosi; inoltre, egli, opponendosi, ha costretto l’attore a svolgere un’ulteriore attività difensiva, il che ha necessariamente comportato, a carico di quest’ultimo, un aumento delle spese da corrispondere al proprio difensore. Nel secondo caso (art. 92 c.p.c.), la condanna dell’attore, pur vincitore della causa, alle spese (vedi mancato rimborso), si basa sulla “eccessiva onerosità” che queste comportano ai danni del soccombente, laddove tuttavia tali spese – è questo il punto – sono state determinate dalla necessità di dimostrare la piena fondatezza della domanda dell’attore, fondatezza che poi infatti è stata riconosciuta dal Giudice, ragion per cui, automaticamente, la domanda stessa non è stata “temeraria”.

Peraltro, questa tesi sembra destinata ad essere accolta solo nel caso in la difesa del convenuto sia stata riconosciuta come “temeraria”, ossia come “manifestamente infondata”. Essa appare difficilmente sostenibile per l’ipotesi in cui i motivi addotti dal convenuto, pur essendo stati respinti, non siano stati qualificati dal Giudice come “temerari”: ciò, per esempio, può accadere quando il convenuto abbia ancorato la sua difesa ad un orientamento giurisprudenziale consolidato, oppure abbia fatto un pregevole lavoro di interpretazione sistematica della norma a lui sfavorevole, costringendo il Giudice ad un attento approfondimento della questione, anche se poi la sentenza gli ha dato torto. In questi casi, certamente, non si potrà parlare di “temerarietà” della lite, e quindi sembra legittimo che il Giudice escluda (quanto meno in parte) il diritto della parte vincitrice al rimborso delle spese legali sostenute.
Tuttavia, occorre rilevare quanto segue.
Il potere del Giudice ex art. 92 c.p.c. di negare alla parte vincitrice il rimborso, da parte del soccombente, delle spese sostenute per la difesa, nel caso in cui egli le ritenga “eccessive”, va analizzato alla luce di altre norme dell’ordinamento, le quali attribuiscono al Giudice questo potere riduttivo in presenza di somme ritenute da lui, per l’appunto, eccessive.
Una di queste norme è quella contenuta nell’art. 1384 c.c. . Tale norma stabilisce che “la penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento”.
Nel caso dell’art. 1384 c.c., al debitore il Giudice concede – mediante la riduzione della penale – una  diminuzione della somma dovuta quando egli non ha ancora adempiuto, ma quando comunque è ancora in tempo per adempiere, tant’è che il creditore non gli ha ancora fatto causa. Però questa riduzione gliela concede solo per la parte che eccede “manifestamente” il valore della prestazione non ancora adempiuta; segno che quindi il debitore non ha il diritto a tale riduzione quando l’ammontare della penale ecceda di poco quello della suddetta prestazione, ossia quando la differenza tra la prima e la seconda non sia poi così grossolana (appunto “manifesta”).
Nel caso dell’art. 92 c.p.c., al debitore il Giudice concede – mediante l’esclusione dell’obbligo di rimborso – la riduzione della somma dovuta pur quando egli è stato riconosciuto inadempiente, e quindi pur quando egli è stato dichiarato soccombente, e questa riduzione gli viene concessa anche quando tale somma non sia “manifestamente” eccessiva: infatti l’art. 92 c.p.c. non richiede che l’eccessività sia “manifesta”.
La disparità di trattamento sta in ciò: il debitore contro cui il creditore non abbia ancora proposto domanda giudiziale e che quindi sia ancora in tempo per adempiere (art. 1384 c.c.) ha diritto alla riduzione della penale solo ove questa sia “manifestamente” eccessiva; il debitore il quale sia stato riconosciuto dal Giudice come inadempiente, e che quindi non ha più tempo per adempiere, ha diritto alla riduzione del quantum dovuto (vedi esenzione dall’obbligo di rimborso spese legali ex art. 92 c.p.c.) anche quando questo quantum sia “eccessivo”, e non “manifestamente” eccessivo. In sostanza, il debitore che sia stato condannato dal Giudice per inadempienza riceve un trattamento di favore (esclusione dell’obbligo del rimborso delle spese “eccessive”) rispetto al debitore contro cui non sia stata ancora proposta domanda giudiziale e che quindi abbia ancora tempo di adempiere (tale debitore, infatti, ha diritto alla riduzione della penale solo ove questa sia “manifestamente eccessiva”). La disparità di trattamento, quindi, è tra il debitore che non è ancora stato ancora condannato dal Giudice come “inadempiente”, il quale può chiedere la riduzione del dovuto solo quanto questo sia “manifestamente eccessivo” (art. 1384 c.c.), ed il debitore che invece è stato condannato dal Giudice, il quale può usufruire, ferma restando la valutazione discrezionale del Giudice stesso, della riduzione del dovuto anche quando questo sia semplicemente “eccessivo”, e non “manifestamente” eccessivo.
Tale disparità dovrebbe quindi indurre a pensare ad una modifica dell’art. 92 c.p.c., nel senso di stabilire che l’esclusione del diritto della parte vincitrice al rimborso delle spese legali possa essere disposta solo quando tali spese siano considerate dal Giudice come “manifestamente eccessive”, e non soltanto come “eccessive”.

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Diritto della parte vincitrice al rimborso delle spese legali nel caso in cui queste vengano considerate “superflue”: illegittimità dell’art. 92 c.p.c. nella parte in cui non prevede tale diritto

La parte vincitrice non ha il diritto al rimborso delle spese nel caso in cui il Giudice le ritenga “superflue”, ossia quest’ultimo potrebbe anche stabilire che alcune attività di difesa svolte non fossero necessarie a dimostrare la fondatezza della domanda, perché questa avrebbe potuto essere accolta anche senza memorie, documenti ed osservazioni ulteriori rispetto a quelli già presentati.
L’art. 96 c.p.c. stabilisce che è obbligata al pagamento delle spese legali la parte la quale abbia agito (o resistito) in giudizio con colpa grave, laddove tale colpa viene certificata dal fatto che la domanda proposta (o l’eccezione sollevata) non è stata accolta, ragion per cui la parte è stata soccombente. Invece, nel caso dell’art. 92 c.p.c., si sta parlando di spese sostenute dalla parte vincitrice. Un conto è l’infondatezza (manifesta, visto che si tratta di “colpa grave”) della difesa proposta dalla parte soccombente, un altro conto è la “superfluità” della difesa svolta dalla parte vincitrice: una difesa “superflua” non è uguale ad una difesa “infondata”, perché la prima non è stata ritenuta dal Giudice come necessaria ad accogliere la domanda, la quale tuttavia è stata accolta, mentre la seconda è stata qualificata dal Giudice come priva di fondamento (tant’è che poi la parte è stata condannata).
Escludere il diritto della parte vincitrice al rimborso delle spese sostenute per una difesa “superflua” significa trattare quest’ultima alla stessa stregua della parte soccombente, la quale è stata condannata al pagamento delle spese sostenute per una difesa “infondata”.
Tale parità di trattamento si presta a formare oggetto di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c. ex art. 3 Cost. .

Compensazione delle spese nel caso di novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti: illegittimità dell’art. 92 c.p.c.

  • Per quanto riguarda “l’assoluta novità della questione trattata”.

La ratio della norma sembrerebbe essere questa: il contenzioso verte su un tema mai affrontato prima a livello giurisprudenziale; il ricorrente, proponendo domanda giudiziale, ha dimostrato di avere un concreto interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), in quanto, proprio a causa della novità della materia, era maggiore il rischio che il Giudice potesse anche non accogliere la domanda; il Giudice, invece, malgrado il tema non fosse mai stato trattato prima, ha riconosciuto la domanda come fondata e quindi ha, perciò stesso, certificato che il ricorrente non ha agito né con dolo né con colpa grave, circostanze, queste ultime, che, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., integrano gli estremi della “temerarietà della lite” e che, per tale ragione, costituiscono il presupposto per la condanna alle spese di giudizio.
L’art. 92 c.p.c., prevedendo che, nel caso di assoluta novità della questione trattata, una parte delle spese rimangano a carico del ricorrente vittorioso, addebita a quest’ultimo “la responsabilità” di aver proposto una domanda giudiziale che non è stata riconosciuta come temeraria, e quindi contrasta con il principio di cui all’art. 96 c.p.c. .

  • Per quanto riguarda il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”.

Il Giudice può addebitare alla parte vincitrice, anche per intero, le spese legali nel caso in cui, pur avendo riconosciuto la domanda come fondata, abbia basato la propria decisione su un mutamento giurisprudenziale.
La ratio della norma sembra essere la seguente.
L’Avvocato della parte soccombente aveva basato la propria difesa su un determinato orientamento, ma, nella fase compresa tra la data di chiusura della trattazione e la data della decisione, è intervenuto un nuovo orientamento, il quale ha inevitabilmente indotto il Giudice ad adottare una decisione ad essa sfavorevole. Siccome la parte soccombente non poteva sapere che, prima della decisione della causa, si sarebbe delineato un nuovo orientamento, non è “equo” che essa ora debba sopportare tutte le spese del giudizio, in quanto, probabilmente, se avesse potuto prevedere questo mutamento, non avrebbe neanche fatto causa (oppure non avrebbe resistito in giudizio), pena la condanna alle spese per temerarietà della lite ex art. 96 c.p.c. .
Pertanto, viene previsto che le suddette spese stiano, almeno in parte, a carico della parte vincitrice.
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Ai sensi dell’art. 113 c.p.c., “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto”.
Si parla di “norme”, e non di “orientamenti giurisprudenziali”: questi ultimi, ferma restando la loro indubbia rilevanza, non hanno la stessa valenza delle norme adottate dal legislatore, eccezion fatta per le sentenze con la quali la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità di una norma, sentenze le quali hanno l’efficacia di “innovare” l’ordinamento, stabilendo che “quella” disposizione di legge debba essere cancellata da quest’ultimo.
Quindi, il Giudice, siccome deve seguire “le norme” e non i “principi” elaborati dalla giurisprudenza, dovrebbe basare la propria decisione esclusivamente sulle prime. Pertanto, condannare la parte vincitrice a pagare una parte delle spese legali a seguito di un mutamento di “principi”, appare illegittimo alla luce dell’art. 113 c.p.c.
Peraltro, l’art. 363 c.p.c. prevede che la Corte di Cassazione possa enunciare “il principio di diritto nell’interesse della legge”, e ciò nel caso in cui le parti non abbiano proposto ricorso nei termini oppure quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile: tant’è che la norma parla di “principio di diritto al quale il Giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”.
Il fatto che il principio di diritto venga affermato “nell’interesse della legge”, lascia intendere che “la legge”, suo malgrado, non chiarisce quale sia la disciplina da applicare. In questi casi, la Corte di Cassazione, enunciando il principio di diritto, interviene a colmare una lacuna normativa, e lo fa, appunto, “nell’interesse della legge”.
Quindi, nel caso dell’art. 92 c.p.c., il fatto che il Giudice, nel decidere, debba attenersi al “mutamento di giurisprudenza”, deriva dal fatto che la Cassazione ha il potere di stabilire un principio di diritto che dalla “legge”, in quel caso, non era evincibile in maniera chiara.
Ciò posto, tuttavia, si rileva quanto segue.
L’art. 92 c.p.c. prevede che il Giudice possa addebitare alla parte vincitrice una quota delle spese di giudizio sia nel caso di soccombenza reciproca, e cioè quando la domanda del ricorrente e quella del convenuto siate state entrambe respinte, sia quando la giurisprudenza abbia registrato un mutamento di indirizzo a favore del ricorrente, tant’è che poi il Giudice ha accolto la domanda di quest’ultimo.
In questo modo, le spese vengono addebitate al ricorrente non solo quando la sua domanda sia stata riconosciuta come infondata (soccombenza) ma anche quando a suo favore si sia verificato un cambiamento di indirizzo giurisprudenziale: l’addebito delle spese deriva, nel primo caso, dall’infondatezza della pretesa azionata, nel secondo caso, invece, da un fatto (mutamento di indirizzo) che si è rivelato essere a suo favore e che certamente non è a lui imputabile. Il concetto di “imputabilità” della condotta processuale, dal quale poi deriva la condanna alle spese, fa sì che l’art. 92 c.p.c., laddove prevede che le spese di giudizio vengano addebitate alla parte vincitrice anche nel caso in cui a favore di quest’ultima, prima della decisione, sia mutata la giurisprudenza, debba essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 3 Costituzione, poiché la suddetta parte viene condannata esattamente come quella la cui pretesa è stata riconosciuta, anche alla luce della stessa giurisprudenza, infondata (soccombenza).

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Ultimo aggiornamento al Decreto PNRR-bis, D.L. 19/2024 convertito in L. 56/2024

Lucilla Nigro
Autore di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022.

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