Brevi considerazioni civilistiche a margine della sentenza della Cassazione, seconda sezione penale, n. 1324/2018 (Caso: Tempo Rosso)
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 1324/2018, ha preso posizione sulla richiesta di liberazione di uno stabile pubblico per lungo tempo occupato da un centro sociale. La questione è stata affrontata da una visuale prospettica tutta penalistica, in cui si ipotizzavano, per gli occupanti, i reati di cui agli artt. 633, 639 bis, 639 e 677, Co. 2, c.p.: specificamente si contestava l’invasione di terreni ed edifici di proprietà di un Ente Comunale, il loro imbrattamento e l’omissione dei lavori necessari a rimuovere il pericolo da rovina di edificio o costruzione.
Di seguito, illustrate le motivazioni, brevi, utilizzate dalla Corte di Cassazione per respingere la richieste di sequestro delle strutture (ex macello comunale) occupate da un gruppo di attivisti impegnati da tempo nella lotta all’inquinamento nella “terra dei fuochi”, si cercherà di affrontare i risvolti civilistici che la sentenza porta con se, in particolare l’interpretazione degli elementi oggettivi e normativi contenuti negli articoli di cui al capo di imputazione: occupazione e imbrattamento.
Il caso e le conclusioni della Corte
Da oltre 20 anni un gruppo di persone occupava un edificio inutilizzato, di proprietà dell’Ente comunale di Pignataro Maggiore, nel casertano, fondando un centro sociale e portando avanti le conseguenti attività. Il fatto di condurre attività per un lasso di tempo così lungo in un medesimo luogo rende facilmente immaginabile che l’edificio stesso fosse stato oggetto anche di atti di modifica degli elementi visibili, occupati da murale e graffiti.
Il Comune, da parte sua, aveva continuato a pagare le utenze della struttura (nello specifico: energia elettrica) e non aveva dato alcun cenno di voler riappropriarsi sostanzialmente della stessa.
Il Giudice delle Indagini Preliminari e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere avevano entrambi rigettato le richieste di sequestro preventivo avanzate dal Pubblico Ministero rilevando “che non fosse configurabile il fumus” della richiesta in quanto, in ordine al reato di cui all’art. 633 cp, i soggetti “indagati erano bambini al tempo in cui l’ex macello era stato occupato dal centro sociale Tempo Rosso” e comunque “il Comune aveva prestato ventennale acquiescenza all’occupazione, sostanzialmente legittimandola e impedendo la configurazione dell’elemento soggettivo in capo agli indagati”; in ordine al reato ex art. 639, Co. 2, cp “i murale dipinti sui muri dell’immobile non rientravano nel concetto di imbrattamento, non era noto chi li avesse dipinti e neppure poteva considerarsi il dolo del reato”; quanto alla contestazione di cui all’art. 677, Co. 2, cp, “non vi era prova di una situazione di pericolo” e in ogni caso “non sarebbe spettato agli indagati porvi rimedio, ma, semmai, al Comune, proprietario dell’immobile”.
La Cassazione riprende esattamente la statuizione della Corte di merito, rilevando altresì, su specifica questione posta dal Pubblico Ministero ricorrente, che il reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cp, seppur astrattamente rappresentando una situazione di lesione permanente del bene giuridico tutelato (o, più propriamente, un reato ad effetti permanenti), il che permetterebbe di rilevare positivamente l’elemento soggettivo in capo agli indagati che all’epoca dell’invasione erano minorenni, non esclude l’altra considerazione del Tribunale e del Gip in ordine all’elemento soggettivo consistente nel dolo, escluso per il lungo periodo di tempo in cui il Comune aveva prestato acquiescenza all’occupazione così “ingenerando il convincimento negli indagati, attraverso atti positivi come il pagamento dell’utenza relativa al consumo di energia elettrica dell’immobile, della legittimità dell’occupazione”.
Preliminari considerazioni pubblicistiche
Il Comune aveva prestato la sua acquiescenza implicita, provata anche dal pagamento delle utenze afferenti lo stabile e così aveva ingenerato un legittimo affidamento circa la legittimità dell’occupazione per lo svolgimento di iniziative di utilità sociale.
Visto infatti il progetto di difesa ambientale portato avanti dagli attivisti in quel luogo particolarmente colpito dalla piaga dell’inquinamento da incenerimento dei rifiuti, ben si comprende la presupposta accettazione, non presa espressamente in considerazione dalla Corte per ovvi motivi di opportunità e di competenza, da parte del Comune, di un’attività che non è estranea alle prerogative dello Stato e degli Enti locali.
L’ambiente è un bene di interesse collettivo e già nella Costituzione si trovano i riferimenti principali per definirne il ruolo. La prima menzione dell’ambiente tratta da norme costituzionali si ha con la sentenza della Consulta del 30 dicembre 1987, n. 614, con la quale si è affermato che: “Nel nostro ordinamento giuridico la protezione dell’ambiente è imposta da precetti costituzionali (artt. 9, 32 Cost.) e assurge a valore primario ed assoluto”.
È in questo contesto che si chiede al sindaco di operare e svolgere la sua attività di ufficiale di governo rappresentante la collettività territoriale.
Il D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali) delinea all’art. 5 la figura del sindaco quale “responsabile dell’amministrazione del comune e rappresentante dell’Ente”
In particolare l’art. 50, Co. 5, del medesimo decreto (Competenze del sindaco e del presidente della provincia) prevede che “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco quale rappresentante della comunità locale”.
Specifiche attribuzioni sono poi poste in capo al Sindaco dall’art. 54 del medesimo Decreto.
Ebbene non può esimersi dal ricordare che la materia ambientale è stata oggetto di specificazioni da parte della Corte Costituzionale e proprio da queste e dalle prescrizioni sulle responsabilità del Primo cittadino discende l’importanza della presupposta accondiscendenza da parte dell’Ente verso l’attività del Centro sociale Tempo Rosso: “Per ambiente deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protette dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltreché unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali, veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario” (Cassazione Penale, sez. III, 28 ottobre 1993, n. 9727).
Con la sentenza Tempo Rosso viene allora riconosciuto, a parere di chi scrive, il valore sociale e pubblico di molti spazi sottratti al degrado e all’abbandono, specialmente se soggetti attivi dell’occupazione sono realtà strutturate secondo i crismi dell’art. 18 Cost. Così ponendosi, la sentenza, in un momento politico particolare per l’attenzione negativa manifestata da alcuni esponenti verso tali realtà.
Gli edifici pubblici occupati non possono essere sgomberati se per anni il comune proprietario dei locali ha tollerato l’occupazione, a maggior ragione se le attività portate avanti all’interno di quegli spazi rappresentano un tassello fondamentale della vita comune e in comune della popolazione di un territorio, senza che ciò rappresenti una forma di sostituzione illegittima delle competenze sindacali: la salute e l’effettiva tutela ambientale, per come intesa ormai unanimemente dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, rappresenta un ambito centrale dell’impostazione dei diritti civili
Ma anche la giurisprudenza di merito si è esposta in questa materia. Le richieste e le considerazioni del Pubblio Ministero di Santa Maria Capua Vetere erano già state contrastate dai giudici ordinari; in particolare la richiesta di sgombero, motivata anche da ragioni di pericolo, aveva portato il Gip ed il Tribunale a statuire che il porre rimedio alla presunta pericolosità dei locali spetterebbe, nel caso, al Comune e non agli occupanti.
Sono inoltre cadute anche le accuse di occupazione abusiva per una decina di militanti del centro sociale. Per il Tribunale campano, il Comune aveva prestato ventennale acquiescenza all’occupazione, sostanzialmente legittimandola, e impedendo la configurazione del reato di occupazione abusiva. Quanto infine ai murale, per i giudici campani non rientrano nel concetto di imbrattamento.
Alla Suprema Corte non è rimasto che dichiarare infondato il ricorso, non configurandosi alcuna violazione di legge.
Brevi considerazioni civilistiche
Nel caso sottoposto alla Corte di Cassazione, seppur, come visto, rilevi la centralità della decisione e motivazione fornita dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, vengono in esame due momenti che portano con se risvolti civilistici.
L’invasione di terreni o edifici al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto è una fattispecie posta a tutela dell’inviolabilità e dell’integrità della proprietà immobiliare pubblica o privata.
L’invasione, quale elemento oggettivo del reato, rappresenta il comportamento di colui che si introduce arbitrariamente, ovvero di colui che si introduce nell’immobile altrui senza titolo giustificativo.
Avendo la Corte escluso che tale reato sia stato posto in essere, in quanto risulta assente il dolo di occupazione, si pone all’interprete la questione circa il valore autorizzativo dell’acquiescenza.
Dimostrato come la rilevanza costituzionale della materia de quo e dei risvolti sociali dell’attività del centro sociale possano aver indotto il Giudice a soppesare la condotta inerte dell’amministrazione, non resta che cercare il giusto inquadramento di tale inattività in ambito privatistico qual è quello dell’azione amministrativa che esuli dall’adozione di atti aventi natura autoritativa come disposto dall’art. 1, Co. 1 bis, l. 241/1990.
Senza poter dare alcun valore di titolo abilitativo alla sentenza di cui trattasi, essendo questa la conseguenza di un’azione penale, e senza che alcuno specifico titolo “codicistico” possa essere ritrovato in altri atti, ad avviso di chi scrive può venire in soccorso la c.d. teoria dei beni comuni ideata da Stefano Rodotà.
Si tratta di beni che non ricadono nell’ambito dei beni privati né pubblici. Vi rientrano tutti quelli che hanno una valenza di diretta rappresentanza dei diritti fondamentali delle persone; quei beni considerati componenti dell’uomo.
Il centro sociale, non solo Tempo Rosso, può essere considerato un’impresa comune, ovvero non collettiva, ma comune a chiunque vi entri in contatto a prescindere dall’appartenenza sociale e territoriale. L’immobile occupato è allora un bene strumentale all’impresa stessa e, non essendo stato commesso alcun reato di invasione abusiva, certo è ben possibile considerarlo un bene comune.
Venendo ora alla questione riguardante l’imbrattamento ex art. 639 cp, si tratta di un reato che risulta integrato solo qualora si verifichi un danno estetico facilmente e radicalmente eliminabile, non quindi permanente, diversamente si avrebbe il delitto di danneggiamento.
Ma cosa deve considerarsi danno estetico?
La domanda deve leggersi in combinazione con la ratio legis della fattispecie, che mira a difendere il decoro del patrimonio mobiliare e immobiliare.
Se di danno estetico al decoro deve trattarsi, è necessario valutare allora l’oggetto su cui ricade l’imbrattamento e se lo stesso possa definirsi decoroso.
Solo in riferimento al decoro che accompagna il bene potrà valutarsi il merito di una condotta che, agli occhi di chi la compie, ha una funzione abbellitiva.
Problema fondamentale, e di preminente interesse nel paragrafo che si sta affrontando, è nuovamente la definizione del concetto di proprietà.
Il proprietario stabilisce il valore di decoro del proprio bene e in base ad esso deve essere valutato l’imbrattamento. Ma se il bene, pur mantenendosi il titolo di proprietà, è abbandonato come può conservare il suo decoro, da ricostruire anche in base all’utilizzo (o al non utilizzo) che se ne faccia?
Oltretutto entra qui in considerazione l’acquiescenza prestata dal Comune verso l’invasione del bene e la sua occupazione. Tale attività di accettazione implicita, riconosciuta dalla Corte, vale a fondare un’autorizzazione modificativa del decoro, che sarà quello proprio di un centro sociale “fiancheggiato” dal Comune.
È plausibilmente sulla base di tali considerazioni che la Cassazione e la Corte di merito non ritengono si sia trattato di un imbrattamento.
Non si tratta, come sembrerebbe, di una prospettiva soggettiva della creazione dei murale o di ciò che rappresentano, ma di un’interpretazione del concetto di imbrattamento che deve essere data sulla base del titolo civilistico di utilizzo del bene, conformemente ai principi del diritto e all’art. 42 Cost, che prescrive, seppur stretta da limiti legali, la libertà della funzione sociale.
Conclusioni
La sentenza n. 1324/2018 ha dato nuova linfa non soltanto a tutte quelle realtà sociali che si pongono sul sottile filo di demarcazione tra legalità e inciviltà, ma soprattutto a quelle teorie che ormai da tempo stanno coinvolgendo gli interpreti per addivenire ad una nuova fase giuridica della società, che non ammette gerarchie assolute né autorizzazioni necessariamente espresse.
Come si è visto, la teoria dei beni comuni accompagna la lettura del caso Tempo Rosso e ne descrive un profilo sociale di spiccato interesse.
Ma non deve sottacersi la presenza necessaria della legge. Questa non si scansa di fronte a nuovi angoli visuali, ma anzi per essi deve rappresentare un fermo riferimento.
Conclusivamente il caso Tempo Rosso può ad oggi rappresentare il paradigma di come il diritto sia mutevole in quanto la società è mutevole e ciò è insito non tanto nella lettura penalistica delle statuizioni, ove il diritto penale è posto a presidio ultimo del sistema, quanto in particolare nei suoi risvolti privati, ove il diritto civile è diritto delle immediate relazioni tra i consociati e perciò maggiormente soggetto ai cambiamenti di prospettiva sociale.