Mantenimento figli maggiorenni conviventi: chiarimenti della Cassazione

in Giuricivile, 2020, 11 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. III civ., sent. 14/08/2020 n. 17183

La questione affrontata dalla Cassazione vede coinvolti un genitore ed un figlio maggiorenne convivente con la famiglia di origine, con particolare riguardo alla tematica del mantenimento di quest’ultimo.

Fatti e motivi del ricorso

In primo grado, il Tribunale ha statuito una riduzione dell’assegno di mantenimento in favore del genitore nei riguardi del figlio di maggiore età.

Successivamente, con pronuncia di secondo grado, la Corte territoriale è intervenuta disponendo la revoca dell’assegno di mantenimento nonché l’assegnazione della ex casa familiare.

Più precisamente, il giudice di seconde cure ha ritenuto che il mantenimento non trova ragion d’essere nell’ipotesi di raggiunta capacità di mantenimento del figlio, ancor più se ha superato i trent’anni; sottolineando come in tal caso una persona deve ordinariamente presumersi indipendente sotto ogni angolazione, ivi compresa quella economica, eccezion fatta per comprovati casi di deficit del soggetto che richiedono una assistenza costante.

Precisa, inoltre, che la mancanza del lavoro, in determinati momenti storici, non può ricondursi ad una incapacità di provvedere a sé stessi, in quanto situazione che ben potrebbe colpire anche persone di età più elevata senza che tale condizione faccia automaticamente ritenere legittimo l’obbligo di mantenimento parentale. Diversamente opinando, finirebbe con l’assumere la veste di una copertura assicurativa.

Con la precisazione ulteriore che su di un piano ben distinto si pone l’obbligo alimentare, laddove quest’ultimo non incontra limitazione di carattere temporale, dovendosi considerare costantemente in vita tra congiunti nonché reciprocamente operabile tra gli stessi.

Segue ricorso per Cassazione del figlio, sulla scorta di due ordini di motivazioni.

In prima battuta, il ricorrente ha invocato la violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c..

In proposito, si ritiene che il giudice d’appello abbia erroneamente ritenuto che il figlio abbia percepito redditi significativi, sebbene di entità modesta, avvalendosi di mera documentazione prodotta in atti.

Al riguardo, il ricorrente sottolinea che il reddito annuo lordo di cui si fa menzione nella statuizione di primo grado riguardi la media annua, precisando, altresì, che lo stesso sia inserito nelle graduatorie di fascia III, in qualità di insegnante non abilitato. Di qui, specifica che egli svolge occasionalmente attività di supplenza e, al fine di un effettivo inserimento in graduatoria per l’ottenimento di una cattedra, dovrebbe frequentare un tirocinio formativo di durata annuale, avente un costo, in termini di tasse, elevato.

La seconda doglianza concerne, invece, la violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 148, 315-bis, 326-bis, 337-sexies e 337-septies c.c.. avendo la sentenza impugnata ritenuto che il figlio maggiorenne sia capace di mantenersi autonomamente, non tenendo, tuttavia, in debita considerazione ulteriori aspetti problematici. Ovvero che: il ricorrente è insegnante precario, in quanto destinatario di contratti a tempo determinato e, come tale, non dotato della necessaria capacità di provvedere a sé in maniera indipendente; che manca, a livello documentale, la prova che egli abbia raggiunto una effettiva e stabile autonomia e/o autosufficienza economica; infine, richiama argomentazioni giurisprudenziali in cui i giudici di legittimità hanno avuto modo di sancire che l’impiego, cui il figlio possa dedicarsi, deve essere in linea con la sue attitudini, aspirazioni e  professionalità, al fine di offrirgli una adeguata collocazione nel settore di riferimento, precisando che in mancanza di tale condizione l’obbligo di mantenimento deve ritenersi a carico del genitore.

Di seguito, le argomentazioni esposte dai giudici nella sentenza in commento, in considerazione dei riferimenti normativi e giurisprudenziali operanti in merito alla tematica del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.

La risposta del Supremo Consesso: inammissibilità e infondatezza dei motivi di ricorso

Le due censure poste dal figlio maggiorenne vengono entrambe rigettate, in quanto considerate in parte inammissibili ed in parte infondate.

L’inammissibilità trova terreno fertile in merito a quei motivi coi quali il ricorrente ha inteso censurare argomentazioni che rientrano nella sfera di competenza non già della corte d’appello bensì del giudice di primo grado.

Per altro verso, l’infondatezza poggia sulla circostanza secondo cui il ricorrente sostiene di avere diritto, sebbene maggiorenne, a risorse e mezzi dai genitori utili al proprio mantenimento in quanto non avente una situazione reddituale tesa a garantirgli una autonoma indipendenza economica.

Assunto, quest’ultimo, che il figlio/ricorrente ha ricollegato al mancato raggiungimento del lavoro prescelto, quale attività in linea con le sue inclinazioni e, come tale, atto a consentirgli un adeguato inserimento nel tessuto sociale ed economico.

Il quadro normativo

Sotto il versante normativo, la tematica riguardante il mantenimento dei figli è stata oggetto di diverse revisioni e modifiche.

Dapprima, con la Legge n. 54 del 2006, recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”.

Quest’ultima, difatti, ha inserito nell’ambito del codice civile una previsione tesa a regolamentare il dovere di mantenimento in favore dei figli maggiorenni. Si tratta, nello specifico, dell’art. 155-quinquies c.c., a mente del quale “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni in favore dei figli minori”.

Successivamente, il disposto di cui sopra è stato abrogato per mano del decreto legislativo n. 154 del 2013 (art. 106[1]) per poi essere ripreso ed integralmente trasfuso nell’art. 337-septies, primo comma, del codice civile.

Ne discende un quadro maggiormente delineato in tema di dovere di mantenimento verso i figli, laddove le norme differenziano a seconda che si tratti di figli minorenni o di maggiorenni non indipendenti economicamente.

Ed in rapporto a questi ultimi, di cui si dibatte nel lavoro in questione, vi è da fare una precisazione. Ovvero che il punto di distacco rispetto alla disciplina previgente risiede nel fatto che l’attuale disposizione fa perno su dati profili rilevanti: l’impiego del verbo “può” nonché l’indicazione dell’espressione “valutazione delle circostanze”.

Dunque, il legislatore ha inteso accostare ad un verbo indicante mera probabilità e/o possibilità un criterio di portata generale che ben si riallaccia all’ambito probatorio. Accostamento che, come desumibile dalla lettura del dato normativo in oggetto, deve accompagnare il giudice nella sua valutazione circa la disposizione dell’assegno di mantenimento.

I pregressi orientamenti giurisprudenziali

In seno alla giurisprudenza in più occasioni e a più riprese è stata affrontata la questione relativa all’obbligo dei genitori al mantenimento dei figli maggiorenni, conviventi o meno con i genitori. Venendo in rilievo molteplici aspetti.

In prima battuta, si osserva come la maggioranza degli orientamenti sia concorde nel sostenere che la valutazione del giudice del merito debba essere svolta tenuto conto della singola fattispecie dinanzi a lui pendente, dovendosi, pertanto, ritenere ancorata alle specifiche circostanze del caso concreto[2].

Ancor più, viene precisato che il giudizio deve essere condotto anche in considerazione di taluni profili fondamentali, come l’età dei beneficiari. Ciò al fine di evitare un irragionevole permanere del mantenimento e, dunque, un protrarsi dell’obbligo assistenziale che finirebbe con il sostanziarsi in una forma di parassitismo in danno dei genitori[3].

Di qui, si evince chiaramente che la ratio sottesa al mantenimento vada ricercata nella sua funzione prettamente educativa laddove, come abilmente sottolineato in ambito giurisprudenziale, l’obbligo assistenziale è intimamente e funzionalmente connesso al diritto/dovere di istruzione ed educazione. Difatti, come sostiene la stessa Cassazione, la funzione educativa dell’obbligo di mantenimento è atta a “delimitarne la portata, sia in termini di contenuto che di durata, avuto riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per l’inserimento del figlio all’interno della società”[4].

Dovendosi specificare, inoltre, che in presenza di altri figli coetanei, il permanere del mantenimento solo nei riguardi di un figlio o alcuni figli conviventi e sedicenti non autonomi determinerebbe una disparità di trattamento ingiustificabile[5].

Di qui ne discende che la creazione di un autonomo nucleo familiare da parte del figlio determina l’esclusione del dovere di mantenimento in suo favore, atteso che il matrimonio o la convivenza implicano, di norma, che nessun obbligo assistenziale possa permanere[6].

È con riferimento a questi ultimi passaggi argomentativi che veniamo al successivo punto ben evidenziato dai giudici nella sentenza in commento.

Trattasi della connessione che ricorre tra funzione educativa del mantenimento e principio di autoresponsabilità.

Difatti, gli Ermellini sul punto sottolineano come il figlio debba comunque attivarsi nella ricerca di un lavoro in attesa dell’impiego auspicato, al fine di garantirsi un autonomo sostentamento; ciò in quanto non può vantare alcuna pretesa nei riguardi del/dei genitore/genitori[7].

Al riguardo, riportano un importante precedente giurisprudenziale, il quale intende sottolineare come “il dovere di mantenimento non possa collegarsi esclusivamente alla mancanza di un’attività lavorativa in linea con il proprio percorso di studio o le proprie competenze professionali e tecniche”.

È evidente, pertanto, che la situazione di crisi occupazione non può fungere da scriminante laddove il rischio di allargare il raggio d’azione del parametro di adeguatezza e/o coerenza alle proprie inclinazioni e/o aspirazioni potrebbe trovare terreno fertile. In tal modo, si finirebbe con il giustificare il rifiuto di un lavoro ovvero una situazione di attesa, quando, invero, tali situazioni potrebbero essere indicative di comportamenti inerziali colpevoli[8].

Infine, si precisa come, in termini di portata applicativa, il principio di autoresponsabilità venga spesso richiamato in campo giurisprudenziale, trovando affermazione in diversi ambiti giuridici.

Dal diritto di famiglia (con riguardo all’assegno di divorzio e alla posizione del separato con nuova convivenza[9]) finanche ad arrivare ai rapporti di natura patrimoniale (si pensi al contratto d’investimento finanziario[10], al contratto di compravendita[11] e agli effetti della trascrizione[12]).

Non mancano, inoltre, pronunce che applicano il principio dell’autoresponsabilità in ambito processuale. Venendo qui in rilievo diversi temi: la scelta del foro competente, notificazione, mancata integrazione del contraddittorio, dichiarazione di terzo, giudizio di opposizione agli atti esecutivi[13] e via discorrendo.

Mantenimento e profili di differenziazione tra figli minorenni e figli maggiori di età

Partiamo dalla disciplina operante in tema di figli minori, laddove un ruolo centrale va attribuito alla norma di cui all’art. 337-septies, primo comma, lett. e), c.c..

Stando a quest’ultimo dato normativo, difatti, l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori, resta in piedi sino al raggiungimento della maggiore età del figlio.

Ciò in piena aderenza ai dettami normativamente positivizzati dal legislatore e facenti capo ai fondamentali diritti-doveri nei riguardi della prole, propriamente rappresentati dall’istruzione, educazione ed assistenza materiale (art. 147 c.c. e art. 315-bis, primo comma, c.c.).

Relativamente alle disposizioni previste in favore dei figli maggiorenni a rilevare è, invece, la previsione di cui all’art. 337-septies, primo comma, c.c., a mente del quale: “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.

Dalla suindicata norma si evince chiaramente che l’attribuzione del diritto al mantenimento non opera in termini automatici ma, al contrario, il legislatore attribuisce valore alla dichiarazione giudiziale circa la valutazione delle circostanze che lo rendono ammissibile. Di qui, non potrà considerarsi requisito legittimante la sola mancanza dell’autonomia e/o indipendenza economica del figlio maggiore di età.

È opportuno vagliare le singole situazioni, caso per caso, rimettendo all’autorità giurisdizionale il giudizio circa la corresponsione dell’assegno di mantenimento.

Certo è che, come abilmente evidenziato dagli stessi giudici nella sentenza in esame, assume un ruolo focale il concetto di “indipendenza economica”, quale criterio che ben si riallaccia ai principi di autoresponsabilità e capacità lavorativa.

E proprio in tale prospettiva non possono non sottolinearsi le argomentazioni (di matrice giurisprudenziale) che hanno posto importanti tasselli risolutivi alla questione.

Circa la nozione di autosufficienza economica, la giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che la nozione de qua trovi riscontro positivo nonché copertura nelle fonti di derivazione costituzionale, rappresentando in tal senso un valido punto di riferimento gli artt. 36, 1, 4 e 30 Cost..

In particolare, le prime tre disposizioni vanno necessariamente lette in combinato disposto tra di loro laddove gli artt. 1 e 4 della Costituzione attribuiscono importanza di assoluta centralità al lavoro.

Non a caso, definiscono, rispettivamente, l’Italia quale Repubblica fondata sul lavoro nonché tesa a riconoscere in capo a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuovendo le condizioni atte a renderlo effettivo. Precisando, inoltre, che è dovere di ogni cittadino svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che contribuisca al progresso materiale o spirituale della società. Quadro che ben si sposa ed integra al disposto di cui al primo comma dell’art. 36 Costituzione, statuendo che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.

La norma di cui all’art. 30 Cost., infine, pone l’accento sul nesso intercorrente tra funzione educativo-formativa ed obbligo di mantenimento sancendo: “il dovere e diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli”. Correlazione, quest’ultima, che risponde ad una precisa finalità: evitare un abuso del diritto al mantenimento e, conseguentemente, una distorsione e/o irragionevole applicazione del principio di buona fede oggettiva[14].

Passando al principio della autoresponsabilità, gli Ermellini evidenziano la circostanza per cui non sia necessaria l’indicazione, a livello normativo, dell’età entro cui il mantenimento può operare. Ciò in quanto il legislatore rapporta chiaramente tale limite al raggiungimento della maggiore età, salve le specifiche deroghe e/o eccezioni.

Infine, il riferimento alla c.d. capacità lavorativa.

Quest’ultima è intesa quale idoneità a svolgere un’attività lavorativa remunerata. Anch’essa si ritiene acquisita al compimento della maggiore età, allorquando la legge presupponga il conseguimento dell’indipendenza e, dunque, di quella capacità d’agire da poter spendere anche in ambito lavorativo/professionale.

Precisandosi, inoltre, che l’art. 315-bis, quarto comma, c.c. prevede a carico del figlio l’obbligo di “contribuire, in considerazione delle sue capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito nonché al mantenimento della famiglia fintanto che convive con essa”.

Fondamenti sostanziali

Con riferimento ai presupposti dell’obbligo assistenziale e tenuto conto della fattispecie in oggetto, i punti fondamentali possono così schematizzarsi.

In primo luogo, viene sicuramente in rilievo la maggiore età del figlio. Ciò in considerazione di una stretta connessione tra doveri educativi, di istruzione ed obbligo di mantenimento.

Di guisa che la maggiore età quanto più è matura tanto più non giustifica il diritto al mantenimento.

In seconda battuta, poi, occorre guardare all’attività di studio, dovendosi rilevare che tale opportunità viene correttamente data dai genitori ai figli in accordo alla tutela che il nostro ordinamento appresta alle esigenze di carattere formativo e culturale[15].

Sempre che non vengano travalicati i ragionevoli limiti temporali.

Di qui, si evince come la corresponsione del mantenimento non possa trovare applicazione illimitata ed automatica, dovendo, invece, tenere in considerazione taluni elementi che fungono da parametri e/o indici valutativi nella soluzione dei singoli casi.

Si pensi alla durata ufficiale del percorso di studio e al tempo mediamente occorrente ad un laureato per l’inserimento nel mondo lavorativo. In proposito, si ritiene che, in caso di mancata occupazione e/o impiego, spetti al figlio dimostrare che l’impossibilità sia dipesa da cause a lui non imputabili e, come tali, slegate da una condizione di volontarietà. Dovendosi aggiungere che su di esso ricade anche la prova che neppure un diverso lavoro (non afferente ai suoi studi e/o attitudini professionali) sia stato conseguibile, tale da garantirgli la possibilità di mantenersi in via autonoma.

Occorre, inoltre, precisare che ulteriori elementi sono utili ai fini valutativi. Ovvero l’adeguatezza e la ragionevolezza delle scelte formative svolte dal figlio anche in considerazione delle condizioni economiche del nucleo familiare presso cui convive. Ne deriva che non è legittima l’imposizione di un contributo sproporzionato rispetto alle effettive e concrete possibilità della famiglia.

In terzo luogo, nel dispositivo in oggetto, il Supremo Consesso si sofferma sulla tipologia di lavoro desiderato, sottolineando, al riguardo, che la preparazione tecnica e/o professionale non può fungere da causa giustificativa e, come tale, non può impedire al figlio la ricerca dell’autosufficienza economica.

Dalle suesposte argomentazioni, dunque, è palesemente desumibile che solo una volontaria assunzione dell’obbligo di mantenimento da parte dei genitori si pone al di fuori delle circostanze e condizioni sinora indicate. Intervenendo, in tale ipotesi, una libera autodeterminazione delle scelte effettuate dal contesto familiare.

Onere della prova

È ormai consolidata la tesi secondo cui la prova delle condizioni fondanti l’obbligo al mantenimento ricade sul soggetto richiedente.

Pertanto, ai fini dell’accoglimento dell’istanza, spetta al figlio maggiorenne dimostrare la sussistenza dei requisiti integranti il diritto all’assistenza ulteriore, quali la mancata autosufficienza economica nonché l’avere curato, con dedizione, la propria formazione e preparazione professionale e/o tecnica e di essersi attivato, con pari diligenza, nella ricerca di una occupazione.

Il tutto in ossequio al principio di prossimità o vicinanza della prova, per il quale la ripartizione dell’onere probatorio trova copertura nell’ulteriore dogma della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi probatori. Di guisa che l’onere della prova si pone a carico della parte che ha piena contezza dei fatti[16].

Obbligo degli alimenti

A conclusione dell’iter argomentativo, i giudici di legittimità pongono l’accento sul distinguo intercorrente tra dovere di mantenimento ed obbligo degli alimenti.

In particolare, precisano la diversità di disciplina atteso che requisito imprescindibile per la corresponsione degli alimenti va essenzialmente ricercato nella mancanza di risorse necessarie al sostentamento e, come tali, essenziali.

Conseguentemente la determinazione circa l’ammontare degli alimenti avviene in rapporto ai bisogni primari e non rinunciabili, atteso che la prestazione de qua cessa al venir meno dei presupposti richiesti. Fermo restando che ove il genitore non interrompa il relativo diritto (alimenti) questo si considera sussistente anche dopo il raggiungimento della maggiore età.


[1] Art. 106 d.lgs. n. 154/2013 statuisce che: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le sue disposizioni: a) gli artt. 155-bis, 155-ter, 155-quater, 155-quinquies, 155-sexies, 233, 235, 242, 243, 261, 578 e 579 del codice civile; b) gli articoli 34, 124, 125 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 318; c) l’articolo 34 della legge 31 maggio 1995, n. 218”.

[2] Nella sentenza in commento vengono riportati i seguenti precedenti giurisprudenziali: Cass. n. 12952 del 22 giugno 2016; Cass. n. 4108 del 6 aprile 1993; Cass. n. 5883 del 12 marzo 2018.

[3] Si veda, sul punto, cass. n. 12952 del 22 giugno 2016; Cass. n. 12477 del 7 luglio 2004; Cass. n. 12952 del 22 giugno 2016.

[4] Cfr. Cass. n. 18076 del 20 agosto 2014; Cass. n. 12952 del 22 giugno 2016. Altresì, sulla funzione educativa dell’assegno di mantenimento si riporta Cass. n. 5088 del 5 marzo 2018.

[5] Tale situazione crea una palese disparità tra i figli appartenenti allo stesso nucleo familiare, laddove i primi si gioverebbero della normativa sul mantenimento mentre i secondi godrebbero solo del diritto agli alimenti. Sul punto, si riporta sentenza della Cassazione n. 12477 del 7 luglio 2004.

[6] Al riguardo, Cass. n. 1830 del 26 gennaio 2011; Cass. n. 24498 del 17 novembre 2006.

[7] Medesime considerazioni vengono riprese, dalla giurisprudenza, anche in riferimento al tema dell’assegnazione della casa familiare. In proposito, si sostiene che affinchè possa ritenersi pienamente affermata la convivenza del figlio occorre che “il rientro, presso la casa di famiglia, deve avvenire con regolarità nonché essere frequente nonché riguardare una data unità temporale particolarmente estesa”. Di qui, la rarità dei ritorni e la mancanza per un periodo considerevole non posso essere controbilanciati dalla regolarità, seppur sporadica, del rientro. Diversamente opinando il nesso con la casa familiare presenterebbe confini eccessivamente labili, ponendosi alla stregua di un mero rapporto di ospitalità (sul punto, Cass. n. 16134/2019).

[8] Cfr. Cass. n. 12952 del 22 giugno 2016.

[9] Sul punto, Cass. n. 21228 del 09 agosto 2019; Cass. n. 21926 del 30 agosto 2019; Cass. n. 20525 del 29 agosto 2017. Altresì, sempre in tema di applicazione del principio di autoresponsabilità, gli Ermellini riportano precedenti ove il separato abbia instaurato una nuova convivenza, ritenendo che tale scelta, in quanto consapevole, faccia venir meno i presupposti dell’assegno di divorzio (Cass.  n. 32871 del 19 dicembre 2018; Cass. n. 16982 del 27 giugno 2018).

[10] Cfr. Cass. n. 10115 del 24 aprile 2018.

[11] Si veda, sul punto, Cass. n. 2756 del 06 febbraio 2020, intervenuta in tema di vizi della cosa oggetto di vendita. In particolare, precisa che nell’ipotesi di facile riconoscibilità dei vizi della res la garanzia non può ritenersi operativa.

[12] Sul tema, la giurisprudenza discorre di autoresponsabilità del soggetto trascrivente. Ciò in riferimento all’inesatta indicazione delle generalità della persona contro cui si pone la trascrizione (Cass. n. 7680 del 19 marzo 2019).

[13] In proposito, i giudici di legittimità riportano diversi precedenti: Cass. n. 19048/2019; Cass. n. 24071/2019; SS. UU. Cass. n. 7940/2019; Cass. n. 20726/2019; Cass. N. 5489/2019.

[14] Sul punto, Cassazione n. 18076 del 20 agosto 2014, Cassazione n. 1858 del 1° febbraio 2016.

[15] Sul punto, rilevano gli artt. 9, 30, 33 e 34 della Costituzione.

[16] Sul punto, Cass. n. 20484 del 25 luglio 2008; Cass. n. 17108 del 16 agosto 2016; Cass. n. 6008 del 17 aprile 2012.

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