Principio di buona fede e tutela del contraente debole nelle pratiche commerciali scorrette

in Giuricivile, 2019, 10 (ISSN 2532-201X)

Esaminato il principio di buona fede e la nozione di pratiche commerciali scorrette occorre soffermarsi sugli strumenti di tutela del contraente debole, sia di natura pubblicistica che privatistica, per comprenderne l’incidenza del principio in esame.

Il principio di buona fede: definizione e funzione

Il principio di buona fede non assume un significato unitario[1] nell’ambito del nostro ordinamento giuridico potendo distinguersi tra buona fede in senso soggettivo e buona fede in senso oggettivo. In particolare la prima accezione identifica uno stato soggettivo di coscienza ed è rinvenibile in diversi articoli del codice civile. A titolo meramente esemplificativo basti pensare alla convinzione erronea di agire in conformità a un diritto ex art. 128 c.c., all’ignoranza di ledere un diritto altrui ex art. 1147 c.c. o ancora all’affidamento incolpevole a una situazione apparente che diverge dalla realtà ex art 1189 cc.

La seconda definizione di buona fede invece si traduce in una serie di modelli di comportamento o regole di condotta che le parti sono tenute ad osservare nella fase di formazione, conclusione ed esecuzione di un negozio giuridico  ex artt. 1175 c.c. e 1375 c.c.

Pertanto, acclarata la natura cangiante del significato di buona fede occorre esaminarne la funzione soprattutto in relazione alla fase esecutiva del contratto.

A tal proposito un orientamento minoritario[2] della dottrina ha rilevato che la buona fede possa assurgere a mero criterio di valutazione del comportamento tra i privati.

In senso diametralmente opposto l’orientamento prevalente è concorde nel riconoscere una funzione integrativa dello stesso. In particolare la dottrina e la giurisprudenza distinguono tra una funzione integrativa suppletiva e una funzione integrativa cogente. Nel primo caso,[3]qualora il regolamento negoziale pattuito tra i contraenti fosse incompleto, la buona fede assurgerebbe a regola idonea a colmare le lacune la cui inosservanza determinerebbe una responsabilità contrattuale.

Di contro, al cospetto di un negozio giuridico completo in tutti i suoi elementi la buona fede assumerebbe una funzione correttiva consentendo di paralizzare la pretesa in contrasto con essa tramite il rimedio dell’ exceptio doli generalis[4].

In tal ottica viene in rielevo la distinzione tra regole di validità e redole di condotta in base alla quale la violazione delle prime da luogo ad una nullità mentre l’inosservanza delle seconde può essere solo fonte di responsabilità.

Recentemente in giurisprudenza è invalso l’assunto secondo il quale la buona fede può assumere anche una funzione integrativa cogente quale limite all’autonomia negoziale delle parti determinando la nullità virtuale della clausola che viene in contrasto con essa. Così ricostruita però la buona fede opererebbe come regola di validità. Questo assunto è stato utilizzato con riferimento a particolari categorie negoziali quali ad esempio il  contratto di leasing[5] in base al quale i giudici di legittimità hanno ritenuto nulla la clausola contenente un’inversione del rischio a carico dell’utilizzatore per contrasto con la buona fede. In termini analoghi la Corte Costituzionale[6] si è espressa con riferimento alla caparra confirmatoria manifestamente eccessiva ex art. 1385 cc.

Pratiche commerciali scorrette

Così sommariamente ricostruito il principio di buona fede occorre esaminare la disciplina delle pratiche commerciali scorrette in modo da rilevare in che termini la buona fede intesa come strumento di controllo sull’autonomia negoziale, possa incidere su queste ultime.

Le pratiche commerciali sono disciplinate dal titolo III, capo I, del codice del consumo (D.lgs. 2005 n. 206) In particolare ai sensi dell’art. 8 sono definite tali quelle azioni, omissioni, condotte o dichiarazioni e comunicazioni commerciali poste in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita  o fornitura di un prodotto ai consumatori.

Con riferimento all’ambito soggettivo di applicazione, l’art. 19 specifica che la disciplina in esame opera per le pratiche commerciali scorrette realizzate tra professionisti e consumatori o tra i primi e le microimprese[7].

Per quanto concerne invece l’ambito applicativo oggettivo, l’art. 20 Cod. cons. ha previsto che una pratica è scorretta se ricorrono due condizioni: i) la sua contrarietà alla «diligenza professionale»; ii) la sua idoneità «a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge» (art. 20, comma 1).

Il codice del consumo ha inoltre consacrato le circostanze che inducono a qualificare una pratica commerciale come scorretta distinguendo tra quelle ingannevoli, aggressive e quelle in ogni caso scorrette.

In particolare si considerano ingannevoli quelle pratiche che contengono informazioni non rispondenti al vero o idonee ad indurre in errore il consumatore medio con riferimento ad uno degli elementi ivi indicati oppure idoneo ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

Ai sensi dell’ art. 24 invece sono considerate aggressive quelle pratiche che limitano o sono idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio, in relazione al prodotto, mediante molestie, coercizione o ricorso alla forza fisica.

Da quanto suesposto si evince che il presupposto applicativo della disciplina in esame è l’incidenza della pratica sul consumatore medio la quale tuttavia è idonea a produrre effetti di natura generale sull’intro mercato.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea[8] ha inoltre evidenziato che la pratica in questione non richiede un comportamento reiterato, né l’incidenza su più consumatori potendo rilevare anche una singola condotta posta in essere contro un solo individuo.

Strumenti di tutela di natura pubblicistica del contraente debole

Così perimetrato l’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione delle pratiche commerciali occorre soffermarsi sugli strumenti di tutela dei quali si può avvalere il contraente debole.

Orbene a tal proposito il legislatore a espressamente consacrato nell’art. 27 del codice del consumo una forma di tutela pubblica la quale attribuisce all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) in primo luogo un potere inibitorio diretto a impedire la continuazione delle pratiche scorrette eliminandone gli effetti. A questo si aggiunge poi un potere di sospensione provvisoria in casi di particolare urgenza e l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria commisurata in base alla gravità e alla durata della violazione.

A tal uopo occorre rilevare che la tutela pubblica in questione aveva suscitato dei contrasti in giurisprudenza e in dottrina circa l’individuazione dell’autorità competente ad attivarla trattandosi di una materia trasversale.

A seguito di numerosi interventi giurisprudenziali è intervenuto il legislatore il quale, ha aggiunto il comma 1 bis al summenzionato art. 27 il quale prevede quanto segue: i) «anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente»; ii) «resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta»; iii) «le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze».  In altre parole il legislatore ha precisato che la competenza con riferimento alle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta spetta in via esclusiva all’AGCM fermo restando la competenza delle Autorità di regolazione  ad esercitare i propri poteri nelle diverse ipotesi di violazione della regolazione.

Inoltre, come ha precisato la Corte di Giustizia[9], la nozione di “contrasto” «denota un rapporto tra le disposizioni cui si riferisce che va oltre la mera difformità o la semplice differenza, mostrando una divergenza che non può essere superata mediante una formula inclusiva che permetta la coesistenza di entrambe le realtà, senza che sia necessario snaturarle».

Orbene, nel caso di specie la Corte ha ritenuto che non sussiste tale contrasto in quanto la direttiva servizio universale (direttiva 2002/22/Ce) e il suo recepimento interno (art. 70 d.lgs. 259 del 2003) contengono disposizioni di carattere generale. In particolare, l’art. 70 dispone che gli utenti che hanno stipulato un contratto con una impresa che fornisce servizi di comunicazione elettronica hanno diritto di avere le informazioni “su eventuali altri condizioni che limitato l’accesso o l’utilizzo di servizi e applicazioni” .

Strumenti di tutela di natura privatistica del contraente debole

Diversamente dalla tutela pubblica, espressamente consacrata dal legislatore, la tutela privata è priva di un esplicito riscontro normativo[10].

Pertanto qualora venga stipulato un contratto in attuazione di una pratica commerciale scorretta, spetterà al giudice e alle parti individuare il rimedio più idoneo in base all’attività negoziale.

In particolare occorre distinguere tra rimedi di responsabilità e rimedi di validità.

Quanto ai primi si può distinguere a sua volta tra una responsabilità precontratttuale, contrattuale ed extracontrattuale in base al momento in cui viene posta in essere la pratica scorretta. Invero se questa si inserisce nella fase di formazione del contratto può venire in rilievo il rimedio della responsabilità precontrattale, mentre se attiene alla fase esecutiva quello della responsabilità contrattuale. A questi due rimedi è possibile aggiungere un terzo di carattere generale ossia la responsabilità civile o extracontrattuale esperibile a seguito della violazione del principio generale del neminem ledere ex art 2043 c.c.[11]

Questa tutela risarcitoria inoltre può essere attivata in forma individuale o in forma collettiva a norma dell’ art. 140 bis codice del consumo il quale prevede l’esperibilità di una class action anche a tutela di diritto omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.

Per quanto concerne invece i rimedi di validità occorre distinguere tra nullità e annullabilità.

In particolare potrebbe essere esperita un’azione di annullamento da parte del soggetto interessato ogni qualvolta il contratto sia stato concluso per errore, violenza o dolo derivanti dalla condotta illecita posta in essere dal professionista. Tuttavia parte della dottrina[12] ha evidenziato come le cause di annullabilità civilistiche non siano sempre sovrapponibili con le condotte integrative di una pratica commerciale scorretta; Invero di regola l’errore deve essere essenziale e riconoscibile[13]. La riconoscibilità però in questi casi deve essere valutata con riferimento al contraente “medio” e non al singolo contraente. Inoltre per il dolo, l’art. 1439 c.c. richiede, oltre i raggiri, l’intenzionalità dell’azione che potrebbe mancare nel caso di specie e, con riferimento alla violenza ex art. 1435[14], c.c. potrebbe mancare il timore in chi la subisce.

Come suesposto tra i rimedi di validità potrebbe essere invocata anche la nullità. Occorre pertanto stabilire  se possa essere richiamata una “nullità di protezione testuale” o “virtuale”.

Sul punto la Corte di Giustizia[15] ha ritenuto che nel caso di pratiche commerciali scorrette possa operare una nullità di protezione testuale in quanto la condotta illecita posta in essere dal professionista potrebbe essere un valido elemento per valutare l’abusività di una clausola contrattuale ex art. 33 del codice del consumo da parte del giudice.

Pertanto al di fuori di questa ipotesi occorre verificare se sia possibile invocare una nullità virtuale ex art. 1418 cc per la violazione di regole di condotta che definiscono le pratiche corrette alla luce del principio generale di buona fede.

L’esperibilità  di questo ulteriore strumento di tutela potrebbe essere ammessa qualora si aderisse al recente orientamento giurisprudenziale sopra esposto il quale, con riferimento al contratto di leasing e alla caparra confirmatoria, ha attribuito al canone di buona fede in via del tutto eccezionale una funzione integrativa cogente la cui violazione da luogo ad una nullità virtuale. Qualora invece venisse suffragato il diverso indirizzo tradizionale questo rimedio non potrebbe essere invocato dal privato in quanto la buona fede assurgerebbe a mera regola di condotta con funzione integrativa suppletiva la cui violazione integra solo un’ipotesi di responsabilità.


[1] V. Lopilato,  Questioni attuali sul contratto, Milano, 2004, 179 e ss.

[2] L. Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto privato, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, 172 e ss.; U. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, 172 e ss
.

[3] Cass. civ., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725.

[4] Si intende per exceptio doli generalis il rimedio generale diretto a precludere l’esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall’ordinamento; in particolare, l’exceptio è rivolta allo scopo di paralizzare l’efficacia di un atto o di giustificare la reiezione della domanda giudiziale fondata sul medesimo.

[5] Cass., civ., sez. III, 2 novembre 1998, n. 10926; Id., 23 maggio, 2012, n. 8101.

[6] Corte cost., ordinanze n. 248 del 2013 e n. 77 del 2014

[7] L’estensione alle microimprese è stata effettuata dall’art. 7 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge n. 27 del 2012. L’art. 18, lett. d-bis, cod. cons. definisce tali le «entità, società o associazioni che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un’attività economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro (…)».

[8] Corte giust. un . eur., sez. I, 16 aprile 2015, causa C-388/13.

[9] Corte Giust., Sez. II, Sent., 13 settembre 2018, n. 54/17.

[10] A. Nobile, Le tutele civilistiche avverso le pratiche commerciali scorrette, in Contr. e impr., 2014, 180 e ss.; E. Labella, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici, in Contr. e impr., 2013, 678 e ss.; C. Tenella Sillani, Pratiche commerciali sleali e tutela del consumatore, in Obb. e contr., 2009, 775 e ss.

[11] Testualmente l’articolo 2043 c.c. dispone che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

[12] G. Federica, L’accertamento di una pratica commerciale scorretta: il doppio binario rimediale del public and private enforcement, in www .diritto.it., 2016, spec. 16 e ss

[13] Così dispone l’art. 1428 cc: “ l’errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall’altro contraente”.

[14] Tale articolo prevede che «la violenza deve essere di tale natura da fare impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto o notevole». La norma aggiunga che «si ha riguardo, in questa materia, all’età, al sesso e alla condizione delle persone».

[15] Corte Giust. Un. eur., 15 marzo 2012

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