Gratta e vinci: legittima l’amministrazione di sostegno per chi ne abusa

in Giuricivile, 2018, 3 (ISSN 2532-201X), Nota a Cass. Civ., Sez. I n. 5492 del 18/01/2018

È possibile richiedere l’amministrazione di sostegno per chi sperpera tutti i suoi averi acquistando gratta e vinci, uno dei giochi di azzardo più diffusi in Italia?

La questione è stata affrontata dalla Cassazione che ne ha ravvisato i presupposti.

Il caso giudiziario

Il caso sotteso alla sentenza in esame trae origine dalla decisione della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della sentenza del Tribunale di Forlì, ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’applicazione dell’amministrazione di sostegno, in luogo dell’inabilitazione, in un caso di prodigalità relativa all’acquisto di “gratta e vinci” e, a tal fine, ha trasmesso gli atti al giudice tutelare del Tribunale di Forlì, ai sensi dell’art. 418, co. 3, c.c..

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione la figlia della tutelanda, sulla base di sette motivi.

Quelli meritevoli di pregio in questa sede, poiché hanno fornito alla Suprema Corte il pretesto per chiarire interessanti principi di diritto, sono tre; in particolare:

  • con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto la nullità del procedimento di secondo grado, stante la mancata partecipazione del P.M., la cui presenza nel procedimento di inabilitazione è prevista dall’art. 70 c.p.c.
  • in secondo luogo, parte ricorrente ha censurato la decisione della Corte di Appello nella parte in cui aveva riconosciuto la prodigalità come presupposto per l’applicazione dell’amministrazione di sostegno e non dell’inabilitazione;
  • infine, ha lamentato che nel procedimento di appello non fosse stato nominato un CTU che, invece, a suo avviso, era uno strumento istruttorio essenziale per l’accertamento dei fatti.

La decisione della Corte: la partecipazione del PM

La Corte di cassazione ha respinto in toto i motivi di ricorso.

Innanzitutto ha chiarito come la partecipazione del P.M. al giudizio di inabilitazione, prevista a pena di nullità dall’art. 70 c.p.c., debba essere intesa come “partecipazione al processo” e non come “partecipazione al singolo atto del processo” (cfr. Cass. Civ. n. 15346/2000; Cass. Civ. n. 3708/2008).

A tal riguardo, sarebbe sufficiente la comunicazione al P.M. di tutti gli atti del processo, al fine di consentirne la partecipazione, rimanendo rimesse in capo allo stesso le concrete modalità di intervento.

Inoltre, ha ritenuto la Corte, le ragioni pubblicistiche connesse al ruolo del P.M. non sarebbero in grado di giustificare un’eventuale coartazione dello stesso alla partecipazione al processo, considerato, fra l’altro, che ciò non avviene con alcuna altra parte processuale.

L’amministrazione di sostegno in caso di prodigalità

Avverso il secondo motivo di ricorso, che ha dedotto l’erronea applicazione della disciplina dell’amministrazione di sostegno, la Corte ha ribadito che “può adottarsi la misura della protezione dell’amministrazione di sostegno, nell’interesse del beneficiario (interesse reale e concreto, inerente la persona e/o il suo patrimonio), anche in presenza dei presupposti di interdizione o di inabilitazione e dunque anche quando ricorra una condizione di prodigalità, come nel caso in esame (Cass. n. 18171 del 26/07/2013, n. 20644 del 31/08/2017)”.

Per comprendere al meglio tale assunto è bene richiamare la pregressa giurisprudenza civile in tema di istituti tutelari che ha chiarito che l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno non va individuato in base al maggiore o minore grado di infermità del tutelato, quanto piuttosto all’idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di tutela del soggetto a cui è rivolta, stante, fra l’altro, la sua maggiore flessibilità rispetto ai ben più invasivi – e rigidi – istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione (cfr. Cass. Civ. sent. n. 22332/2011).

La scelta dell’amministrazione di sostegno, infatti, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, con la sent. n. 440/2005, è volta ad assicurare al tutelato il sostegno e la protezione più idonei, con la minor limitazione possibile della sua capacità di agire e della sua autodeterminazione.

La mancata ammissione della CTU

In merito alla mancata ammissione della CTU, ritenuta da parte ricorrente come strumento istruttorio essenziale per l’accertamento dei fatti (ex art. 360 co.1 n.3 cod. proc. civ.), la Corte ha sottolineato come la decisione di ricorrere ad un consulente tecnico rientri nella sfera di discrezionalità del giudice di merito che, nel caso ritenesse di non ammetterla, è tenuto solo a motivare le ragioni di tale diniego.

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Bologna aveva negato la CTU sulla base dell’assenza, peraltro non contestata, di alcuna patologia o infermità mentale della tutelanda.

Per la stessa, infatti, la figlia, aveva proposto un giudizio di inabilitazione a causa della sua prodigalità.

La Suprema Corte, richiamando la sua precedente giurisprudenza in materia, ha inquadrato la prodigalità come “un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare eccessivamente rispetto alle proprie condizioni socioeconomiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro”, e ha sottolineato come la stessa possa configurare autonomo presupposto di tutela “anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita” e dunque, anche in assenza di qualsivoglia patologia, “purché sia ricollegabile a motivi futili” (Cass. Civ. n. 786/2017).

La Corte d’Appello di Bologna, alla cui decisione la Suprema Corte si è conformata, aveva ritenuto che, nel caso di specie, la prodigalità potesse essere provata tramite elementi istruttori già presenti nel giudizio (uno fra tanti, un debito di € 34.000,00 con un bar, di cui la metà per l’acquisto di “gratta e vinci”), integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, e che perciò non fosse necessario l’ausilio di un consulente tecnico.

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