Dopo l’arresto del 2018, la Corte d’Appello di Bari, con la sentenza n. 45/2020 del 15.01.2020, è tornata nuovamente ad occuparsi della dibattuta questione della validità dei contratti di fideiussione omnibus “a valle” di intese anticoncorrenziali.
Il caso in esame
Il giudizio traeva origine dalla proposizione del gravame avverso la sentenza n. 314/15 del 25.05.2015, con la quale il giudice di prime cure aveva condannato gli appellanti al pagamento, in favore della banca creditrice, di € 25.799,24.
Gli appellanti eccepivano, in particolare, la nullità – per violazione della normativa antitrust – delle fideiussioni da essi rilasciate in favore dell’istituto di credito a garanzia del corretto adempimento di qualsiasi obbligazione, anche futura, assunta dal cliente garantito.
A fondamento della pretesa, gli appellanti assumevano l’illeceità del patto fideiussorio – concluso in conformità allo schema contrattuale predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) – in quanto contenente clausole contrarie alle disposizioni di cui alla l. n. 287/1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato (segnatamente gli artt. 2, 6 e 8 delle “Condizioni generali di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie”).
In ordine a tali fatti, il giudice del gravame – dopo aver accertato la contrarietà della garanzia predisposta dall’appellata ai principi e alle disposizioni regolative della normativa antitrust (in specie all’art. 2, co. 2, lettera a), l. n. 287/1990) – accoglieva l’eccezione proposta dagli appellanti, ritenendo il contratto di fideiussione indispensabile alla realizzazione e all’attuazione degli effetti dell’intesa “a monte” vietata.
In proposito, giova rammentare che, già nel 2005, la Banca d’Italia – all’epoca investita delle funzioni di autorità garante della concorrenza nel settore bancario[1] – con provvedimento n. 55, aveva dichiarato la contrarietà al diritto antitrust delle disposizioni contenute agli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie. Si tratta degli articoli relativi alla c.d “clausola di reviviscenza”, ovvero della clausola che impone al fideiussore di tenere indenne la banca da vicende successive all’avvenuto adempimento in virtù delle quali la banca si sia trovata a dover restituire il pagamento ricevuto, della clausola di deroga all’art. 1957 c.c. e della clausola che estende la garanzia anche agli obblighi di restituzione del debitore derivanti dall’invalidità del rapporto principale.
Con la pronuncia in scrutinio, la Corte territoriale – ritenendo sussistente, nel caso di specie, una distorsione significativa della competizione di mercato – dichiarava, pertanto, la nullità dell’intero contratto bancario, ai sensi dell’art. 1419 co. 1 c.c., in quanto lesivo della libertà di concorrenza.
La questione della validità dei contratti “a valle” di intese anticoncorrenziali
La Corte d’Appello di Bari – adita dai garanti per la dichiarazione di nullità della fideiussione omnibus stipulata con la banca creditrice per asserita violazione della normativa antitrust – con la pronuncia in scrutinio, accoglie la tesi della nullità assoluta, prospettando una soluzione coerente con i limiti posti dall’ordinamento giuridico all’autonomia privata e alla libertà contrattuale rispetto alla tutela di interessi generali sovra-individuali quali, appunto, la tutela della concorrenza e del mercato.
La Corte territoriale aderisce, dunque, all’orientamento – già suffragato da altri precedenti arresti giurisprudenziali – favorevole alla nullità totale del contratto di garanzia. Ciò nondimeno, le opinioni rispetto alla sorte dei contratti “a valle” di intese anticoncorrenziali sono, come noto, le più disparate. Accanto agli orientamenti che militano per la nullità, ve ne sono altri che ipotizzano il potere del giudice di correggere il testo contrattuale secondo equità, oppure affermano l’annullabilità dei negozi, ovvero escludono ogni specie di invalidità, riservando all’utente danneggiato da una condotta anticompetitiva una esclusiva tutela risarcitoria[2]. Non è possibile, qui, fornire una ricostruzione sistematica di tutte le tesi prospettate in dottrina, sul rimedio esperibile dal privato che abbia concluso il contratto “a valle” dell’intesa anticoncorrenziale. Pertanto, per motivi di inferenza con la soluzione proposta nella pronuncia in commento, si muoverà da una succinta rassegna delle principali soluzioni offerte, in seno al dibattito dottrinario e giurisprudenziale, sul rimedio della nullità (derivata vs autonoma; assoluta vs protezione; parziale vs totale).
La questione giuridica attinente alla valutazione dell’incidenza del comportamento distorsivo della concorrenza – attuato mediante l’applicazione di clausole bancarie uniformi – sui singoli contratti stipulati con gli utenti, è stata risolta – in base ad un primo orientamento – facendo appello alla categoria della nullità derivata[3].
L’art. 2 l. n. 287/1990, come è noto, vieta le intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante. A mente di tale premessa, sembra dunque plausibile ritenere che il legislatore, con la suddetta disposizione normativa, non abbia inteso sanzionare con la nullità solamente il negozio giuridico “a monte”, ma anche gli effetti negoziali dello stesso, ovvero i singoli contratti stipulati tra l’impresa e l’utenza, qualora di ostacolo per la competitività del mercato. Ragionare diversamente significherebbe decretare l’irrilevanza giuridica delle manifestazioni negoziali susseguenti l’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, con l’effetto di creare una pericolosa feritoia nel sistema di public enforcement dei divieti antitrust. Qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, costituisce invero un comportamento rilevante ai fini dell’accertamento dell’illecito anticoncorrenziale. Vi è dunque, come evidenziato da autorevole dottrina, la necessità di considerare i singoli atti come una estrinsecazione negoziale (contratti “a valle”) di un impegno reciproco a una determinata linea di condotta (intesa restrittiva “a monte”)[4].
Queste osservazioni impongono un rigoroso corollario: affinché l’invalidità di un rapporto giuridico possa propagarsi, con effetti invalidanti, ad un altro rapporto, dev’essere previamente accertata l’esistenza tra i due di un vincolo di dipendenza funzionale o, quantomeno, di un collegamento negoziale oggettivamente apprezzabile.
Ebbene, nella delineata prospettiva, l’orientamento in commento, postula l’esistenza di un collegamento negoziale in via unilaterale (dall’intesa ai contratti derivati) tra l’intesa anticoncorrenziale e i sottostanti contratti “a valle”, in guisa da consentire al meccanismo dell’invalidità di operare anche rispetto a quest’ultimi.
È stato infatti evidenziato che, il contratto stipulato con l’utenza – recependo le clausole dello schema-tipo di fideiussione elaborato dall’ABI – costituisce lo strumento attraverso il quale le imprese partecipi all’intesa realizzano il vantaggio che la legge antitrust intende inibire. In specie, impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza, mediante l’applicazione uniforme di condizioni contrattuali deteriori per i fideiussori di operazioni bancarie. Detto altrimenti, “il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante”[5].
Il ragionamento su cui poggia tale ricostruzione, presuppone una visione unitaria dell’illecito anticoncorrenziale: “a valle” della decisione di impedire, restringere o falsare la libertà di concorrenza, mediante l’adozione di uno schema contrattuale contenente clausole precipuamente volte ad attenuare il rischio di credito (deliberazione assunta dall’ABI), vi è una pluralità coordinata di contratti fra imprese e terzi che costituiscono lo sbocco della suddetta decisione, senza la quale l’illecito anticoncorrenziale non potrebbe, invero, estrinsecare i suoi effetti distorsivi nel mercato.
Al riguardo, autorevole dottrina predica, per converso, la nullità dei contratti “a valle”, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrarietà alle disposizioni di cui all’art. 2 l. n. 287/1990[6].
Come è noto, l’art. 1 della citata disposizione ricomprende nel concetto di intese, oltre agli accordi e alle deliberazioni, anche le pratiche concordate, consistenti in comportamenti paralleli o coerenti fra imprese antagoniste tenuti in assenza di accordi formali.
Orbene, nell’approccio qui delineato, i contratti a valle cessano di assumere mero contegno applicativo di una precedente intesa, costituendo essi stessi una forma di coordinamento fra imprese, al fine del conseguimento di un vantaggio illecito. La riproduzione delle clausole “abusive” nei moduli utilizzati dalle banche rileva, dunque, a prescindere dall’esistenza o meno di un atto precedente, in quanto “l’intesa non si verifica per il mero concordare tra le imprese, bensì per l’applicazione di tale collusione, vale a dire per la stipulazione di contratti di mercato dal contenuto uniforme”[7]. Da ciò consegue, la nullità dei contratti con gli utenti di mercato per violazione della disciplina antitrust, anche in mancanza di un precedente negozio invalido.
A tale ricostruzione della fattispecie se ne contrappone un’altra, che qualifica l’invalidità dei contratti stipulati dai soggetti privati, estranei all’intesa anticoncorrenziale, in termini di nullità di protezione[8]. Quest’ultima, come è noto, trova il suo referente normativo nell’art. 36 D. lgs n. 206/2005 (Codice del Consumo) che, in osservanza del principio utile per inutile non vitiatur, sancisce la nullità delle clausole considerate vessatorie, ai sensi degli articoli 33 e 34, con conservazione (parziale) dell’efficacia del contratto.
Le nullità di protezione operano rispetto alla generalità dei rapporti conclusi tra contraenti in posizione asimmetrica in cui, cioè, una parte si avvantaggia della posizione di forza (informativa ed economica) vantata sull’altra, per ottenere condizioni particolarmente profittevoli per sé. Ciò accade, di frequente, in situazioni seriali di debolezza contrattuale, quali ovviamente i negozi attuativi di intese anticompetitive, in cui l’autodeterminazione negoziale dei terzi (contraenti “deboli”), cede innanzi ad un assetto di interessi determinato in via unilaterale dalle imprese partecipanti all’intesa (contraenti “forti”). Va da sé che, la conclusione di contratti omogenei con una molteplicità indeterminata di contraenti, può sensibilmente falsare il comportamento economico dei soggetti “deboli” (in cui vi rientrano non solo i consumatori, ma anche i professionisti, i quali, al pari dei primi, sarebbero costretti a concludere contratti a condizioni a sé svantaggiose, stante l’assenza di valide alternative sul mercato), pregiudicando l’interesse pubblico alla tutela della libertà di concorrenza nel mercato[9].
La ratio di tale invalidità è, dunque, ravvisabile nell’esigenza di ricondurre ad equità il rapporto contrattuale, in ragione dei principi costituzionali di solidarietà ed uguaglianza sostanziale di cui agli artt. 2 e 3 co. 2 Cost. e al contempo, di ripristinare il corretto funzionamento del mercato ex art. 41 Cost..
Orbene, procedendo da simili premesse, l’orientamento favorevole alla ricostruzione della fattispecie in termini di nullità di protezione, prende le mosse dal divieto imposto dall’art. 2 l. n. 287/1990, il quale inibisce le intese “che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, anche attraverso attività consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali.”
In questa prospettiva, la norma attribuisce rilievo anche al negozio “a valle”, in quanto parte integrante (“effetto”) dell’illecito anticoncorrenziale, estendendo anche a quest’ultimo l’invalidità predicata per l’intesa “a monte”. Più precisamente, il negozio in cui si manifesta l’intesa “a valle” è nullo (relativamente alle clausole “abusive”), ai sensi dell’art. 1418 c.c., per violazione di norma imperativa di cui all’art. 2 l. n. 287/1990.
Sebbene la disciplina antitrust non precisi lo statuto dell’invalidità (“sono nulle ad ogni effetto”), la natura plurioffensiva dell’illecito anticoncorrenziale, suscettibile di eludere la possibilità di scelta del contraente “debole”, impone, nella prospettiva qui delineata, una interpretazione della nullità secondo i canoni consumeristici. In tal guisa, la nullità cesserebbe “di essere esclusivamente uno strumento di tutela dell’ordinamento in quanto tale, per divenire, al contempo, strumento sanzionatorio per una delle parti, e di protezione per la controparte più debole.”[10] Quest’ultima, godrebbe quindi, di una legittimazione riservata a valersi della nullità, in deroga al principio generale di cui all’art. 1421 c.c.
Ora, secondo alcuni, il meccanismo della nullità di protezione opera – anche in assenza di esplicita attribuzione ad uno solo dei contraenti del potere di ottenere la dichiarazione di nullità del contratto – solamente ove sia possibile “scorgere dietro l’imperatività di una norma o dietro la esplicita dichiarazione di invalidità, non solo l’evidente protezione […] dell’interesse di una sola delle parti di quel contratto, ma anche la “debolezza” di questi in termini di uguaglianza …”[11]
Al riguardo, basti qui rilevare l’esigenza, avvertita dal legislatore, di predisporre una struttura normativa (l. n. 287/1990) destinata a tutelare – insieme all’interesse generale del mercato – gli interessi individuali dei contraenti “deboli”. In tale prospettiva, l’interesse pubblicistico alla tutela dell’ordine pubblico economico trova pregnanza nell’interesse individuale alla disapplicazione delle clausole “abusive”.
Così ricostruita, la nullità di protezione rappresenta, invero, la giusta sintesi dell’interesse “privato” al riequilibrio del dogma contrattuale e dell’interesse generale al ripristino dei valori del mercato, della concorrenza e dell’utilità sociale.
In definitiva, alla luce delle considerazioni suesposte, l’orientamento in commento, ritiene preferibile qualificare la nullità dei contratti “a valle” in termini di nullità di protezione, in quanto – tale soluzione ricostruttiva – sarebbe maggiormente coerente con la tutela del singolo e la direzione del mercato, con il principio di conservazione del contratto nonché con la ratio legis e la tutela (risarcitoria) accordata dalla legge antitrust[12].
In base a una diversa linea, la questione giuridica attinente alla valutazione dell’incidenza del comportamento distorsivo della concorrenza sui singoli contratti stipulati con l’utenza, è stata risolta facendo appello alla figura della nullità parziale[13].
Questa tesi, pur condividendo gli arresti favorevoli al rimedio della nullità del contratto derivato dall’intesa illecita, ritiene, tuttavia, preferibile circoscrivere tale invalidità alle sole clausole riconosciute come espressione dell’accordo lesivo della concorrenza, senza che tale vizio si estenda all’intera garanzia, trovando applicazione la disciplina prevista all’art. 1419 co. 1 c.c. Quest’ultimo, in osservanza del principio di conservazione del negozio giuridico, così dispone: “La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”. Ne consegue, l’eccezionalità del rimedio della caducazione dell’intero negozio di fronte a vizi insanabili di una parte di esso. La nullità totale del negozio può predicarsi, infatti, solamente ove, la natura essenziale della parte viziata, rivesta carattere essenziale, sicché può dirsi che senza di essa l’atto non sarebbe stato posto in essere, ovvero risulti che il contenuto dispositivo del negozio, privo della parte nulla, sia inidoneo a realizzare le finalità a cui esso era preordinato.
A mente di queste fondamentali premesse, il dettato normativo, sembrerebbe privilegiare una impostazione soggettiva, giacché subordina il meccanismo dell’estensione della nullità, all’accertamento della volontà – reale, o perlomeno ipotetica – dei contraenti alla conservazione del negozio giuridico. In questa prospettiva, il canone ermeneutico – da cui far dipendere la valutazione in ordine al carattere essenziale della parte del contratto inficiata da nullità – sarebbe rappresentato dalla comune volontà dei contraenti, così come desunta da elementi immanenti all’atto ovvero ricostruita in base alle regole dell’interpretazione soggettiva, poste dagli artt. 1362 e ss c.c.[14]
In dottrina, come in giurisprudenza, si registra, tuttavia, anche la diversa tesi secondo cui, ai fini dell’estensione della nullità parziale all’intero negozio, occorre tener conto degli effetti dell’invalidità sulla causa concreta del contratto e, più precisamente, dell’oggettiva permanenza di utilità per i contraenti a mantenere in vita il negozio, seppur privato delle clausole dichiarate nulle[15]. È dunque evidente che, qualora “la nullità parziale non ridondi sulla causa concreta del contratto, dovrebbe escludersi la configurabilità di un’estensione dell’invalidità all’intera convenzione.”[16]
Ora, valorizzando le principali posizioni interpretative emerse in senso al dibattito dottrinale, la tesi in commento, ritiene sussumibile, entro i canoni dell’art. 1419 co. 1 c.c., la fattispecie dell’invalidità del negozio “a valle” di un’intesa anticoncorrenziale, in quanto può ragionevolmente ritenersi che le parti, attraverso il contratto di fideiussione, avessero intenzione di rafforzare la tutela della posizione contrattuale dell’istituto bancario, sicché la garanzia sarebbe stata voluta e prestata anche in difetto delle clausole illecite, rispondendo comunque all’interesse negoziale di entrambi i contraenti.
Posto allora che il privato possa agire per la declaratoria di nullità parziale del contratto di fideiussione “a valle” dell’intesa anticoncorrenziale, occorre nondimeno chiarire le ragioni poste alla base di tale postulato.
Muovendo da una prospettiva economico – funzionale, il contratto “a valle”, seppur privato delle clausole illecite, sarebbe in ogni caso idoneo a perseguire l’utilità avuta di mira dai contraenti, ossia garantire il corretto adempimento dell’obbligazione principale. Per cui, “qualora la causa non venga intaccata dalla mutilazione determinata dalla nullità parziale non vi sarebbe alcun motivo per invalidare l’intero negozio.”[17]
Per quanto attiene alla volontà dei contraenti, è possibile ipotizzare che la banca avrebbe in ogni caso concluso il contratto, posto che per essa l’alternativa sarebbe stata quella dell’assenza completa di fideiussioni, con minor garanzia dei propri crediti. Per ragioni dissimili, concernenti il sinallagma contrattuale, è presumibile che i fideiussori avrebbero comunque concluso il contratto anche senza le clausole invalide.
In definitiva, i contratti “a valle” stipulati incorporando lo schema ABI non sono, dunque, radicalmente nulli ma suscettibili di essere eseguiti, pur se privati delle clausole ritenute in contrasto con la legge antitrust[18].
La soluzione proposta: l’annullabilità dei contratti “a valle”
Le violazioni del diritto antitrust sono sanzionate, sia a livello comunitario sia a livello nazionale, mediante un complesso di norme ispirate dall’esigenza di garantire condizioni di mercato omogenee per i consumatori e le imprese.
Le intese restrittive della concorrenza, consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali, sono dunque vietate in quanto pregiudicano il corretto funzionamento del mercato.
L’insieme delle regole e dei principi originati dal diritto comunitario (e recepiti dall’ordinamento interno con la l. n. 287/1990 in attuazione della direttiva n. 2014/104/UE), a tutela della libertà di concorrenza nel mercato interno, non possono non riflettersi sulla tutela offerta dal codice civile in tema di contratti.
Come è noto, la disciplina antitrust ha inteso dare rilevanza esclusivamente alle intese restrittive “a monte” (ai sensi dell’art. 101 TFUE, gli accordi o le decisioni che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno sono nulli di pieno diritto; inoltre, a mente dell’art. 2 co. 3 l. n. 287/1990, le intese restrittive della libertà di concorrenza sono qualificate come nulle ad ogni effetto), senza tuttavia considerare che, sotto la disciplina in questione vi rientrano tutte le vicende successive del rapporto, in quanto idonee ad incidere sulla restrizione della concorrenza[19].
La disciplina sulle intese anticoncorrenziali si aggiunge, infatti, a quella del contratto, avendo ciascuna di esse un suo tipico e diverso ambito d’applicazione: l’una concerne le intese, in cui sono ricompresi “gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le deliberazioni”, ossia un insieme di comportamenti teleologicamente orientati a coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche fra imprese antagoniste; l’altra, riguarda i singoli atti e ha, di conseguenza, ad oggetto comportamenti negoziali involgenti manifestazioni di volontà per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale.
Ai fini del corretto funzionamento del mercato e nell’ottica di una maggiore certezza del diritto occorre, pertanto, prendere in considerazione non solamente il negozio giuridico “a monte”, ma anche i contratti “a valle” tra le imprese e i terzi, in quanto negozi attuativi della condotta illecita cristallizzata nell’intesa vietata.
Ebbene, mentre la nullità (radicale ed assoluta) dei negozi, con cui le imprese falsano la libertà di concorrenza del mercato, è pacificamente ammessa per ragioni di ordine pubblico economico, oltre che espressamente prevista ex lege, maggiori difficoltà pone la questione dell’invalidità del contratto cui partecipa il terzo.
Benché il dibattito attorno all’individuazione del rimedio applicabile alla fattispecie, abbia prodotto numerosi spunti di riflessione sui nessi sistematici tra disciplina del contratto e diritto antitrust, ritengo, nondimeno, che le soluzioni proposte non esauriscano le obiezioni poste dalla nullità derivata.
Ora, a me sembra che, l’adesione alle condizioni contrattuali unilateralmente predisposte dall’intero ceto bancario conduca ad un vizio del consenso, giacché risulta determinata da un comportamento (scorretto) posto in essere all’unico fine di indurre la controparte ad assumere una decisione che altrimenti avrebbe preso a condizioni a sé più vantaggiose. Non può di certo negarsi che, in un contesto di mercato non perturbato da decisioni lesive della concorrenza, le parti avrebbero concluso un contratto più confacente alla disciplina di diritto comune (artt. 1936 e ss c.c.). Nella delineata prospettiva, assume dunque pregnanza la figura del dolo incidente, disciplinata all’art. 1440 c.c., la quale – influendo su modalità del negozio che la parte non avrebbe accettato, se non fosse stata fuorviata dal raggiro – circoscrive il vizio del consenso al contenuto dispositivo del contratto. È fuor dubbio, infatti, che il fideiussore avrebbe in ogni caso “voluto” il negozio, ancorché a condizioni diverse.
Per di più, la tesi qui sostenuta, dell’annullabilità per vizio del consenso dei contratti derivati dalla fattispecie anticoncorrenziale, risulta coerente con la posizione del contraente “debole” (nella cui accezione è ricompreso anche il professionista), il quale potrebbe avere interesse alla conservazione del contratto, con gli arresti giurisprudenziali (secondo cui l’unica forma di tutela esperibile è quella risarcitoria) e con il principio di non interferenza fra regole di comportamento e regole di validità degli atti.
Del resto, non può non osservarsi, a questo proposito, che le cause da cui derivano vizi del consenso altro non sono se non “comportamenti” incidenti sulla corretta formazione della volontà contrattuale[20]. Altrettanto può dirsi con riferimento alla ratio della legge antitrust, la quale ha inteso dar rilevanza a tutte le “manifestazioni” (accordi, pratiche concordate e deliberazioni) che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza.
In definitiva, il rimedio dell’annullabilità per vizio del consenso permette di superare le obiezioni mosse alle teorie della nullità derivata, assicurando al contempo l’effettività del diritto antitrust nell’ambito delle controversie civili promosse a tutela dei diritti individuali.
[1] Ai sensi degli artt. 14 e 20 l. n. 287/1990. Tale previsione è rimasta in vigore fino al trasferimento dei poteri all’AGCM, con la l. n. 262/2005, a far data dal 12 gennaio 2016.
[2] Per una disamina sul punto, si veda S. D’Orsi, “Nullità dell’intesa e contratto a valle nel divieto antitrust”, in Giurisprudenza commerciale, 2019, fasc. 3, parte II, pagg. 576 – 577.
[3] In tal senso, Cass. civ., sent. n. 13846/2019; Cass. civ., sent. n. 29810/2017; SS.UU. Cass. civ., sent. n. 2207/05.
[4] P. Perlingieri, “La contrattazione tra imprese”, in Rivista di diritto dell’impresa, 2006, pag. 348.
[5] Così Cass. civ., sent. n. 13846/2019.
[6] S. D’Orsi, “Nullità dell’intesa e contratto a valle nel divieto antitrust”, in Giurisprudenza commerciale, 2019, fasc. 3, parte II, pag. 584.
[7] Onorato, “Nullità dei contratti nell’intesa anticompetitiva”, Milano, Giuffré, 2012, pag. 170.
[8] In tal senso, Trib. di Siena, sent. n. 21810/2019.
[9] Ved. SS.UU. Cass. civ., sent. n. 2207/2005 secondo cui “il contratto cosiddetto a valle […] è tale da eludere la possibilità di scelta del contraente debole”, “che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione”.
[10] Gioia, “Vecchie intese e nuove nullità”, in Giustizia civile, 2000, parte II, pag. 24.
[11] A. P. Massamormile, “Nullità di protezione e nullità virtuali”, in Banca borsa e titoli di credito, 2007, fasc. 1, pag. 41.
[12] L. Delli Priscoli, “Rilevabilità d’ufficio delle nullità di protezione, contraente debole e tutela del mercato”, in Giurisprudenza commerciale, 2015, n. 5, Giuffré, parte II, pag. 988.
[13] Ved., ad esempio, Cass. civ., sent. n. 24044/2019; Trib. di Milano, sent. n. 610/2020; Trib. di Roma, sent. n. 9354/2019; Trib. di Ancona, sent. n. 1993/2018.
[14] Per il criterio soggettivo, Criscuoli, “La nullità parziale del negozio giuridico”, Milano, 1959, pag. 232; Messineo, “Il contratto in generale”, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu e Messineo, Milano, 1973, pag. 625.
[15] Per il criterio oggettivo, D’Antonio, “La modificazione legislativa del regolamento negoziale”, Padova, 1974, pag. 253; Carresi, “Il contratto”, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu e Messineo, Milano, 1987, pag. 589; Roppo, “Il contratto”, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 2001, pag. 866.
[16] G. Adilardi, “Autonomia contrattuale ed effetto estensivo della nullità: una relazione pericolosa?”, in Giustizia civile, 2012, fasc. 9, parte I, pag. 1975.
[17] S. Clericò, “Brevi note sulla nullità”, in Rivista del notariato, 2009, fasc. 2, parte II, pag. 457.
[18] F. Rosario, “Operazione economica e nullità dei contratti derivati da intesa anticoncorrenziale”, in Il corriere giuridico, 2018, fasc. 8-9, pag. 1074. In senso critico, G. Calabrese, “Fideiussione omnibus a valle: illecito antitrust e nullità parziale”, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2019, fasc. 3, pag. 522.
[19] Al riguardo, si veda F. Rosario, Ibidem, pagg. 1070 – 1071.
[20] N. G. Zorzi, “Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta”, in Contratto e impresa, 2011, fasc. 4 – 5, pagg. 939 – 940.