Con il termine “compensatio lucri cum damno” si allude ad un principio del nostro ordinamento, immanente alla sfera risarcitoria, già previsto nel sistema romano quale criterio di calcolo del risarcimento. In particolare, l’espressione indicata impone che la determinazione del quantum da risarcire tenga conto, in sottrazione, di ciò di cui il creditore si sia arricchito come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, secondo una logica di compensazione tra costi e benefici.
Tale principio, pur non trovando espressa enucleazione nelle fonti romane, veniva operato al ricorrere di due presupposti: da un lato, sia il vantaggio che il danno dovevano originare da una stessa azione del danneggiante; dall’altro, il vantaggio doveva avere consistenza patromoniale. La compensatio lucri cum damno così delineata si distingueva dalla differente figura della compensatio stricto sensu, quale modo di estinzione di reciproche obbligazioni, e connotata dunque da una diversa disciplina, sulla scorta dell’assunto “nemo se locupletiorem facere potest cum alterius detrimento”[1] .
Tale principio, generalmente applicato dal diritto romano, ebbe nuovi natali nel diritto moderno[2], caratterizzato dalla smania da un lato di riscontrare un dato positivo su cui poterlo ancorare, dall’altro di ampliarne le maglie applicative.
Fondamento e limiti dell’istituto
Nel tentativo di rinvenire un dato positivo che annoverasse tale principio[3], vari sono state le elaborazioni della giurisprudenza, accomunate tutte dall’inquadramento della compensato lucri cum damno nell’ambito indennitario, rispetto a quello risarcitorio.
Di tal che, in alcuni casi il riferimento dell’istituto è stato rinvenuto nell’art. 1592 co. 2 c.c., che, in tema di locazioni, consente al conduttore che non abbia diritto a indennità pie i miglioramenti effettuati di compensarne il valore con il deterioramento che non sia dovuto a colpa grave.
In altri casi, il riferimento all’istituto è stato è stato rinvenuto nell’art. 41 co. 1 l. 25 giugno 1865 n. 2359 (ora art. 33 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che, in tema di espropriazioni per pubblica utilità, prevede che “qualora dalla esecuzione dell’opera pubblica derivi un vantaggio speciale ed immediato alla parte del fondo non espropriata, questo vantaggio sarà estimato e detratto dalla indennità quale sarebbe se fosse calcolata a norma dell’articolo precedente”.
Sul solco di tale operazione ermeneutica che riconduce la compensatio lucri cum damno nell’alveo della tutela indennitaria, la giurisprudenza prevalente ha prediletto la ricostruzione che cerca di rinvenire il fondamento normativo nell’art. 1223 c.c.
In particolare, secondo la giurisprudenza, la compensatio verrebbe in considerazione nell’ambito della causalità giuridica quale forma di semplificazione della tecnica liquidatoria[4].
Così, nel giudizio di raffronto tra due situazioni, cioè tra la situazione patrimoniale attuale e quella che sarebbe stata senza le ripercussioni patrimoniali che il fatto dannoso ha prodotto nel patrimonio del danneggiato, si inserisce la valutazione in ordine ai possibili vantaggi patrimoniali conseguiti dal danneggiato per effetto dell’illecito altrui. Mediante tale principio si finisce dunque con il dare piena attuazione alla funzione riequilibratrice o compensativa del risarcimento, evitando che il danneggiato benefici di una situazione migliore rispetto a quella anteriore al verificarsi dell’evento dannoso (c.d. principio dell’indifferenza) e possa trarre indebite locupletazioni. Giammai, quindi, il fatto illecito può costituire un’occasione di vantaggio, ed il risarcimento del danno deve riportare il patrimonio del danneggiato nello status quo ante l’illecito.
Pertanto, ai fini della tutela risarcitoria, è necessario tenere conto di tutte le conseguenze positive e negative prodotte dall’inadempimento nel patrimonio del creditore.
Si è dunque escluso che la compensatio potesse dirsi corollario del principio generale di cui all’art. 2041 c.c.: mentre l’azione di arricchimento è volta a garantire un indennizzo, la compensatio tende all’estinzione o alla riduzione di un debito mediante la correzione di distorsioni provenienti da un’applicazione rigorosa del dato normativo. Inoltre, l’ingiustificato arricchimento si esplica solo nei casi di spostamenti patrimoniali non sorretti da un valido titolo giustificativo, mentre in caso di compensatio lucri cum danno e più in generale di cumulabilità di ristori di natura diversa (indennitaria e risarcitoria) il riferimento è spostamenti patrimoniali normativamente autorizzati.
Sebbene, dunque, la giurisprudenza rinvenga il fondamento della compensatio lucri cum damno nell’art. 1223 c.c., la dottrina, diversamente, arriva anche a negare l’operatività tale principio nel nostro ordinamento.
La tesi dottrinale negazionista invoca quale argomento dirimente l’assenza di una norma ad hoc che definisca i contorni applicativi dell’istituto, unitamente all’iniquità del suo operare, che porterebbe a sollevare l’autore di un fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.
Altri autori, invece, ammettono l’operare dell’istituto indicando che in taluni casi danno e lucro possono compensarsi, ma senza che ciò avvenga sulla scorta di una regola generale quale la compensatio lucri cum damno[5].
Ad ogni buon conto, tali intendimenti rimangono isolati, essendo ormai indiscussa, grazie all’opera del formante giurisprudenziale, la precisa esistenza di tale principio nel nostro ordinamento.
Le sentenze gemelle delle Sezioni Unite e l’ampliamento della sfera di operatività della compensatio
A seguito di quattro ordinanze di rimessione, le Sezioni Unite hanno avuto occasione di pronunciarsi circa l’ambito applicativo del principio testè analizzato, ed in particolare se la compensatio possa trovare applicazione anche laddove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato, in connessione con il fatto illecito, derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati sulla base di fonti differenti.
Prima di procedere alle quattro specifiche questioni demandate, il Supremo Consesso nella sua composizione più autorevole fissa alcuni principi generali.
Inanzitutto, le Sezioni Unite ribadiscono che la compensatio lucri cum damno “è una regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno”, desumibile dall’art. 1223 c.c., in forza della quale il danno risarcibile deve essere il risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso, cosa che se, in applicazione della regola della causalità giuridica, dall’atto dannoso deriva, accanto al pregiudizio, anche un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento.
Superando il requisito dell’unicità causale, la Suprema Corte arriva ad indicare che la compensatio opera anche quando i vantaggi dipendono, sotto il profilo giuridico formale, da una fattispecie diversa dall’illecito, di cui l’illecito rappresenta un elemento costitutivo; il risarcimento ed il vantaggio patrimoniale devono dunque avere la medesima ragione giustificatrice, o appartenere a classi omogenee[6].
Inoltre, la Suprema Corte subordina l’operatività della compensatio all’esistenza di un sistema di riequilibrio: tale meccanismo opera nei casi in cui è legislativamente previsto un meccanismo di surroga, che sia idoneo ad assicurare il responsabile dell’evento dannoso, destinatario della richiesta risarcitoria avanzata dalla vittima, sia collateralmente obbligato a restituire al soggetto che eroga il beneficio all’assistito l’importo corrispondente[7].
Ciò posto, i principi di diritto fissati dalla Suprema Corte con riguardo ai casi specifici possono essere tracciati nel modo seguente
- Sezioni Unite 12564 del 2018, secondo cui dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’ines al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguente prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo.
- Sezioni Unite 12565 del 2018, secondo cui nell’assicurazione contro i danni, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto, in quanto detta indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito.
- Sezioni Unite 12566 del 2018, secondo cui l’importo della rendita per l’inabilità permanente, corrisposta dall’INAIL per l’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore, va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito, in quanto essa soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo al quale sia addebitabile l’infortunio, salvo il diritto del lavoratore di agire nei confronti del danneggiante per ottenere l’eventuale differenza tra il danno patito e quello indennizzato.
- Sezioni Unite 12567/2018, secondo cui dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto.
La sentenza Cass. Sez. III, 30 ottobre 2020, n. 24177: la vicenda processuale
Recentemente, la Suprema Corte ha avuto occasione di occuparsi nuovamente dell’istituto in esame, ampliandone, ancora una volta, le maglie applicative.
La pronuncia in esame trae origine a seguito della domanda di risarcimento dei danni per responsabilità medica avanzata dai congiunti ed eredi della persona deceduta a seguito di un intervento chirurgico.
La Corte d’Appello di Milano, accertata la responsabilità del chirurgo, liquidò il danno non patrimoniale spettante ai congiunti, rigettando la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, ritenuta priva di supporto probatorio.
A seguito di ricorso per Cassazione, quest’ultima ritenne, in punto di danno patrimoniale, che la Corte d’Appello non avesse tenuto conto delle prove testimoniali attestanti l’assunzione di due dipendenti, con conseguente riduzione degli utili. Pertanto, la Suprema Corte cassò la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, affinché, previa valutazione di attendibilità delle prove testimoniali, tenesse conto da un lato del danno patrimoniale risarcibile, dall’altro dei principi generali in tema di compensatio lucri cum damno “e dunque della circostanza che la farmacia Sant’Antonio era composta da due coniugi legati da vincolo di coniugio e che la scomparsa di uno (la persona deceduta) ha necessariamente determinato l’incremento di reddito del secondo”.
La Corte d’Appello milanese, ritenendo insufficiente le sole dichiarazioni testimoniali circa il presunto danno patito dagli attori, considerò di non poter procedere ad una liquidazione del danno patrimoniale in via equitativa, e, inoltre, ritenne di non poter procedere alla compensatio lucri cum damno, non avendo gli attori fornito elementi in tal senso, né ritenendo che fosse onere della parte convenuta provare la compensatio,“in quanto, trattandosi di un fatto costitutivo del diritto, sarebbe spettato alla parte che affermava l’esistenza del danno delinearne il contenuto nella sua interezza”.
Avverso la sentenza di rigetto della Corte territoriale veniva proposto ricorso per Cassazione, articolato in quattro motivi.
Con il primo motivo, gli impugnanti lamentavano la violazione ex art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c. sia dell’art. 384 co. 2 c.p.c., per non essersi il giudice del rinvio uniformato a quanto statuito dalla Corte di Cassazione con la sentenza rescindente, sia dell’art. 324 c.p.c. per violazione del giudicato interno circa la non decisivi della mancanza di documentazione contabile attestante i maggiori costi sostenuti dalla farmacia.
Con il secondo motivo si lamentava la violazione dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo.
Con il terzo motivo si lamentava la violazione degli artt. 2043 c.c. e 2056 c.c. in relazione agli artt. 1223 e 1226 c.c., per aver omesso di calcolare il danno patrimoniale sulla base delle prescrizioni codicistiche e alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte, che consente id calcolare il danno da lucro cessante consistente nella perdita dei benefici economici che la vittima destinava ai danneggiati.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciavano la nullità della decisione per violazione degli artt. 384 co. 2 c.p.c. e 324 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. per avere il giudice del rinvio eluso il giudicato non ottemperando all’obbligo di applicare, nella liquidazione del danno patrimoniale, la regola della compensatio lucri cum damno, per avere affermato che la suddetta eccezione avrebbe dovuto essere tempestivamente proposta e provata dalle parti e per aver posto a carico dei danneggiati l’onere di allegare e provare, in applicazione della suddetta regola, i dati necessari per la quantificazione del danno differenziale.
La decisione della Corte e la rilevabilità d’ufficio dell’istituto.
La Suprema Corte, con la sentenza in esame, ritiene fondato il primo ed il quarto motivo a lei prospettato da parte dei ricorrenti.
In primo luogo, osserva come la Corte territoriale non abbia tenuto in debito esame le testimonianze acquisite in giudizio, le stesse che il Supremo Consesso aveva ritenuto indispensabili nella sentenza rescindente che aveva pronunciato.
In secondo luogo, accogliendo il quarto motivo di ricorso, osserva come la propria sentenza rescindente avesse dato, quale monito, di tener conto del principio della compensatio lucri cum damno. Il giudice del rinvio, tuttavia, negava tale principio sul presupposto che gli attori non avessero offerto elementi per valutare il differenziale del danno subito e che, di conseguenza, non avessero ottemperato all’onere della prova in tal senso.
La Corte di Cassazione osserva, al riguardo, come per giurisprudenza consolidata[8] – e, in tal senso, anche per acuta dottrina[9] – l’eccezione di compensatio lucri cum damno sia un’eccezione in senso lato, non riguardando l’adduzione di un fatto estintivo, modificativo o impedito del diritto azionato, ma una mera difesa in ordine all’esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato, ed è “rilevabile d’ufficio dal giudice, il quale, per determinarne l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio”[10].
Pertanto, accogliendo il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per un nuovo esame, oltre alla liquidazione delle spese del primo giudizio di Cassazione, di quello di rinvio ad esso conseguito e del giudizio di legittimità a lei devoluto.
[1] L’antico brocardo espone un principio generale del nostro ordinamento, quello secondo cui nessuno può aumentare il proprio patrimonio con pregiudizio di altri. Non è dunque consentito che una persona riceva un vantaggio patrimoniale dal danno arrecato ad altri, senza che vi sia una causa che giustifichi lo spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro.
Il meccanismo della compensatio stricto sensu consisteva quindi nel mero computo economico dei vantaggi ai fini della limitazione quantitativa del risarcimento.
[2] cfr. MAGNUS, Commento all’art. 10:103, in Principles of European Tort Law, Springer, 2005, p. 157. L’art. 10:103 dei Principles of European Tort Law, in particolare, dispone “Benefits gained through the damaging event. When determining the amount of damages benefits which the injured party gains through the damaging event are to be taken into account unless this cannot be reconciled with the purpose of the benefit”. Dunque, secondo la disposizione in esame il beneficio si cumula, quando lo scopo per cui esso viene riconosciuto impedisce di considerarlo nella determinazione del danno risarcibile. Così, Magnus oosserva che la regola applicativa, nei paesi europei, è quella del cumulo e non della riduzione del risarcimento, come invece avviene con la compensatio lucri cum damno.
[3] R. SCOGNAMIGLIO, In tema di “compensatio lucri cum damno”, in Foro it., 1952, I, p. 635
[4] Cass. Civ., ordinanza del 22 giugno 2017, n. 15534 e n. 15535 secondo cui “non potrebbe dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile compensatio lucri cum damno. La regola tralatiziamente definita con questa espressione altro non è che un modo diverso di definire il principio di integralità della riparazione o principio dell’indifferenza, in virtù del quale il risarcimento deve coprire l’intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato. Tale principio è desumibile dall’art. 1223 c.c.”
[5] G. DE NOVA, Intorno alla compensatio lucri cum damno, in Jus civile, 2018, p. 56; R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 625
[6] F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto civile, II ed., Dike giuridica, Roma, 2020, p. 153, secondo cui il criterio del nesso causale funge da argine all’operare dello scomputo da compensatio. Dunque, sarà necessario guardare alla funzione del beneficio, al collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria, al fine di accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento.
[7] pertanto, viene esclusa la rilevanza dell’istituto quando esso avvantaggerebbe il solo danneggiato. cfr. F. CARINGELLA, op. cit., p. 154 secondo cui “la compensatio può operare solo se il danneggiante rimane esposto all’azione di recupero del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale”.
[8] ex plurimis Cass. Civ., n. 20111 del 24.9.2014; Cass. Civ., Sez. III, n. 533 del 14.1.2014.
[9] P. TRIMARCHI, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Giuffrè, 2017, p. 606.
[10] Cass. Civ., Sez. III, n. 24177 del 8.7.2020.