Abusivismo edilizio

in Giuricivile, 2021, 9 (ISSN 2532-201X), nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 28.05.2021 n. 4134

Abusivismo edilizio: responsabilità in ipotesi di compravendita di immobile (abusivo) e profili di differenziazione tra abitabilità e conformità ai parametri normativi

Fatti di causa

Il caso in esame trae origine da un ordine di demolizione emesso dal Comune ed avente ad oggetto un appartamento ubicato in un complesso immobiliare composto di tre edifici nonchè costruito da una società immobiliare in virtù di concessione edilizia.

Nello specifico, il Comune respingeva l’istanza di sanatoria edilizia, una volta eseguito il sopralluogo, ordinando la rimozione delle opere che avevano determinato la trasformazione del garage in unità abitativa.

Seguiva, pertanto, ricorso dei proprietari innanzi al Tar.

Il giudice di prime cure accoglieva la posizione vantata dal Comune ritenendo di non condividere la tesi della non imputabilità dell’abuso edilizio nei riguardi dell’attuale proprietario dell’immobile per avere, quest’ultimo, acquistato in buona fede.

Al riguardo, veniva ad essere precisato come l’ordine di demolizione fosse finalisticamente orientato a ripristinare la legalità violata, ovvero ad assicurare il corretto assetto edilizio del territorio; ciò in misura indipendente rispetto al dolo o alla colpa del destinatario del provvedimento demolitorio.

Ancor più, precisava il Tribunale Amministrativo Regionale, l’istanza di sanatoria riportava una rappresentazione da cui era possibile evincere la trasformazione del garage in due vani di sgombero, in un soggiorno, in un vano camera ed in un locale bagno. Diversamente, dall’accertamento compiuto dal Comune era emersa una situazione ben differente, ovvero che i locali riportati come vani di sgombero erano rappresentati da un vano camera nonché da un vano cucina.

Dunque, il sopralluogo metteva in evidenza una circostanza fattuale distante dal progetto definitivo approvato in sede di rilascio della concessione edilizia e, come tale, una situazione edilizia non sanata. Di guisa che il procedimento di eliminazione dell’abuso edilizio ben poteva ritenersi fondato.

Il nodo problematico che ha poi condotto i ricorrenti, stante il rigetto del proprio ricorso, a presentare appello innanzi al Consiglio di Stato è così sintetizzabile: la non legittimità dell’ordine demolitorio nei loro riguardi essendo non già i diretti autori dell’abuso bensì gli attuali proprietari a seguito di compravendita di immobile originariamente abusivo.

E, come già sopra evidenziato, il principio sul quale i ricorrenti (poi appellanti) hanno inteso poggiare le proprie argomentazioni è la “buona fede”. Baluardo, quest’ultimo, che come vedremo non ha permesso neppure al giudice di secondo di propendere verso un revirement della statuizione di primo grado.

(Segue) Motivi di appello

Alla statuizione emessa dal Tar, come sopra evidenziato, fa seguito la proposizione dell’appello per mano dei proprietari dell’appartamento.

Questi ultimi precisano, anche in tale circostanza, la loro posizione di attuali titolari dell’unità abitativa sottolineando come l’immobile in oggetto fosse stato acquistato da un proprietario precedente il quale, a sua volta, lo aveva comprato da un costruttore.

A ciò, poi, aggiungono ulteriori valutazioni rilevanti sia sotto il profilo fattuale che propriamente giuridico.

Partendo dall’indicazione dei fatti, sottolineano come avessero in precedenza provveduto a presentare istanza di iscrizione anagrafica presso il Comune con il fine di ottenere la residenza, anche in considerazione dell’idoneità dell’immobile all’uso abitativo.

Precisando, inoltre, come la società costruttrice avesse presentato ricorso avverso il diniego di sanatoria, con pendenza della lite. Diniego di sanatoria che, a detta dei ricorrenti, risulta carente sotto il profilo contenutistico nel senso che non presenta alcun riferimento alla difformità del bene rispetto all’originaria concessione edilizia; piuttosto, con essa veniva disposta la riduzione in pristino dello “status quo ante” nonché l’eliminazione degli allacciamenti ai servizi fognari e al gas.

Di qui, i ricorrenti poggiano a sostegno della propria posizione una inadeguatezza dell’istruttoria condotta, sollevando profili dubitativi circa l’ordine di ripristino dell’immobile con conseguente integrazione di uno degli indici sintomatici dell’eccesso di potere.

In riferimento ai motivi di diritto, l’appello poggia su molteplici e specifiche doglianze.

In primo luogo, su una valutazione errata dei fatti oggetto di causa nonché sulla contraddittorietà della motivazione, con una ripresa del percorso argomentativo già esposto nel giudizio di primo grado.

Altresì, vengono ad essere invocate le seguenti censure:

  • violazione di legge con riferimento all’art. 131 della Legge Regionale Toscana n. 1/2005[1] e, conseguentemente, mancata osservanza dell’articolo 3 della Legge n. 241/1990 e ricorrenza dell’eccesso di potere (per esercizio errato della discrezionalità amministrativa e tecnica. In particolare, i ricorrenti ritengono che il ripristino dello status originario dell’immobile sia stato frutto di valutazioni arbitrariamente condotte dall’amministrazione comunale e, pertanto, poggia su di una errata e falsa applicazione della legge (rectius: articolo 134 Legge Reg. n. 1/2005[2]);
  • violazione dell’articolo 3 della Legge 241/1990[3] per inadeguatezza, contraddittorietà della motivazione e carenza dei presupposti, con conseguente eccesso di potere per erronea valutazione dei fatti e dei motivi di diritto;
  • violazione delle previsioni di cui agli articoli 9[4] e 10[5] della Legge n. 241/1990 stante l’omessa valutazione delle dichiarazioni presentate dai soggetti interessati.

Il Comune, dal canto proprio, replica alle motivazioni esposte in appello fornendo una esposizione dei fatti distante da quella offerta dai ricorrenti. In proposito, sostiene che l’intervento autorizzato con la concessione edilizia poggi su di una precisa quanto dettagliata illustrazione degli edifici da potersi realizzare. Aggiungendo, inoltre, come la società costruttrice avesse provveduto a comunicare la fine dei lavori nonché la certificazione di abitabilità, rimanendo privi di esito e/o riscontro i solleciti avanzati ai fini dell’integrazione della documentazione.

Altresì, sottolinea come la totale difformità del bene immobile realizzato rispetto alla concessione edilizia fosse stato oggetto di successivi accertamenti compiuti dall’Ufficio tecnico comunale nonché dalla Polizia Municipale.

Con l’ulteriore precisazione per cui l’immobile aggiunto era di proprietà degli odierni ricorrenti e che tutti i proprietari degli edifici erano stati sanzionati; nel dettaglio, gli appellanti erano stati sanzionati con la riduzione in pristino mediante la rimozione delle opere difformi avendo, queste ultime, determinato una trasformazione del garage in civile abitazione.

Infine, il Comune pone a fondamento delle proprie argomentazioni ulteriori motivazioni così schematizzabili.

Per un verso, l’assunto secondo cui il diniego del permesso a costruire in sanatoria era stato oggetto di impugnazione con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica trasposto, successivamente, in sede giurisdizionale e dichiarato, infine, estinto per intervenuta perenzione.

Per altro, tiene ad evidenziare che il giudice amministrativo in molteplici precedenti[6] aveva, per un verso, accolto in via parziale una serie di ricorsi (proposti dai soggetti destinatari di ordinanze) ritenendo non legittimamente operative le sanzioni pecuniarie sostitutive nei riguardi del proprietario incolpevole ma, per altro, aveva inteso attribuire legittimità alle sanzioni finalizzate ad un ripristino dello stato originario. Sentenze che, tuttavia, risultavano validi referenti giurisprudenziali in quanto passate in giudicato per mancata impugnazione nei termini di legge.

I ricorrenti si opponevano a tutto quanto esposto dal Comune, con ripresa delle argomentazioni già ampiamente sostenute nell’appello. 

Soluzione offerta dai Giudici di Palazzo Spada

Ai fini di una risoluzione definitiva, i giudici richiedono, con ordinanza[7], ulteriori chiarimenti che consentano di documentare in maniera più approfondita la vexata quaestio. Nel dettaglio, i giudici amministrativi ritengono necessaria l’acquisizione, da parte del Comune, di documenti volti a consacrare o meno la possibilità di un effettivo ripristino della destinazione d’uso originaria dell’unità interessata (garage).

Ciò al fine di accertare plurimi aspetti. Ovvero, da un lato, le possibilità di un accesso carraio del garage dal lato indicato nel progetto o da altri lati e, se in tale ultima circostanza, ricorra una conformità rispetto al provvedimento con cui è stato ordinato il ripristino dello stato dei luoghi o si rendano necessari ulteriori titoli abilitativi; dall’altro, per avere chiarimenti circa la ricorrenza o meno dei requisiti di abitabilità e/o agibilità dell’immobile nonché in riferimento all’iter procedimentale involgente la dichiarazione di abitabilità stante la sospensione dello stesso così come da note del Comune.

Alla documentazione richiesta all’amministrazione fa seguito memoria degli appellanti con la quale vengono sollevate deduzioni circa quanto relazionato dal Comune.

Al riguardo, parte appellante evidenzia l’impossibilità di un ripristino dello stato concessionato dell’immobile laddove le argomentazioni addotte dal Comune invocano un intervento postumo a finalità non già ripristinatoria bensì realizzativa di un diverso status da quello ab origine predisposto.

Di qui precisano, in aggiunta, che l’area che doveva essere deputata ad ingresso del garage fosse da imputarsi, in termini di titolarità, ad altra unità immobiliare, con conseguente impossibilità ad aprire un vano di ingresso rientrando nella proprietà di soggetti terzi.

La replica del Comune non si fa attendere; in sintonia con quanto già previamente sottolineato, ribadisce ulteriormente la necessità di procedere alla demolizione dei tamponamenti e divisori interni del locale in oggetto specificando che si tratta di assi non portanti e, come tali, non pregiudicanti la staticità in caso di abbattimento.

Ha luogo, pertanto, un intenso scambio dialettico tra le parti coinvolte cui segue, infine, il deposito di note di udienza da parte dei proprietari/appellanti in merito. Note che fanno perno, ancora una volta, sull’irrealizzabilità del ripristino immobiliare, con imputazione della situazione al costruttore e conseguente inconsapevolezza e, dunque, “buona fede” dei ricorrenti, quali attuali proprietari in virtù di acquisto concluso con i precedenti proprietari e non direttamente con la società costruttrice.

Arriviamo, così, alla soluzione data dal Consiglio di Stato.

I giudici di Palazzo Spada respingono l’appello sulla scorta di plurime argomentazioni di seguito esposte.

Precisano, in primo luogo, come dal ricorso presentato dai ricorrenti non emergesse una chiara e puntuale contestazione avverso la posizione sostenuta dal Comune circa la presenza di più unità immobiliari rispetto a quanto previsto (atteso che l’immobile aggiuntivo rientrava proprio nella titolarità degli stessi) nonché in merito al fatto che vi sarebbe dovuto essere un garage, con apertura volta a favorire il passaggio dei veicoli dalla via pubblica e attraverso la medesima. Né i proprietari attuali hanno fornito, neppure marginalmente, prove acclaranti una coerenza tra l’effettiva consistenza della unità immobiliare e quella che avrebbe dovuto sussistere in ossequio al progetto definitivo di costruzione.

In stretta connessione con quanto sopra riportato, i giudici ritengono prive di fondamento le censure principali dei ricorrenti/appellanti precisando, al riguardo, che il baluardo della buona fede[8] può assurgere a principio liberatorio sempre che la parte interessata non venga dichiarata autrice di abuso edilizio. Dunque, la buona fede non sempre funge da scriminante della condotta, non comportando l’automatica consacrazione di un incolpevole affidamento nelle pratiche commerciali, quale può essere la compravendita. Diversamente opinando verrebbe agevolata una lettura impersonale della responsabilità (melius: responsabilità oggettiva) e, pertanto, una interpretazione statica non prevista dal nostro ordinamento giuridico.

In secondo luogo, a supporto delle argomentazioni anzidette, viene ad essere ben evidenziato che a rispondere di abuso edilizio sia non solo il diretto autore ma anche l’acquirente dell’unità immobiliare; ciò in quanto la proprietà discende sì dall’originario autore dell’abuso ma si estende anche a tutto ciò che successivamente interviene.

Di guisa, nel caso de quo, non è ipotizzabile, neppure in via residuale, discorrere di buona fede dell’acquirente laddove i ricorrenti non hanno provato né documentato di aver previamente posto in essere un comportamento che potesse confermare o quantomeno dimostrare una loro reale intenzione a conoscere la situazione in cui versava, sotto il profilo edilizio, l’immobile oggetto di compravendita.

Precisandosi, inoltre, che neppure la certificazione di abitabilità vale a giustificare una condotta abusiva. Ciò in quanto la conformità immobiliare ai parametri normativamente sanzionati ai fini abitativi nonché sanitari non può condursi su di un piano sinonimico rispetto alla conformità dell’immobile a quelli che sono i criteri richiesti in ambito urbanistico-edilizio.

Pertanto, la ricorrenza della prima non vale a sostituire la seconda non potendo, così, sopperire ad una sua carenza.

Infine, altro punto sul quale il massimo organo giurisdizionale amministrativo interviene concerne un ulteriore parametro che consente di definire o meno i confini entro cui possa dirsi ricorrente o meno una situazione di abusivismo edilizio. Trattasi delle tavole di progetto in base alle quali viene rilasciato originariamente il permesso di costruire. Nel dettaglio, viene ad essere statuito che le stesse assumono un ruolo centrale e dirimente nella valutazione della legittimità urbanistico-edilizio dell’immobile.

Conclusioni

Alla luce del quadro così come sopra delineato i giudici ritengono pienamente ricorrenti i presupposti integranti l’abuso edilizio nei confronti degli appellanti. Statuendo, sul punto, che l’ente locale è legittimamente tenuto a perseguire la direzione della riduzione in pristino, in quanto rimedio a carattere riparatorio rispetto ad una situazione acclarata di abusivismo.

Precisando che la sanzione amministrativa pecuniaria assolve ad una diversa e precisa logica finalistica: può trovare operatività laddove la soluzione primaria risulti impossibile oppure di difficile attuazione. Situazione, quest’ultima, che può dirsi profilata allorquando il ripristino dello stato originario possa comportare gravi conseguenze alla staticità del bene. E nel caso in esame è emerso che le pareti dell’immobile fossero rimovibili in quanto non rientranti nell’accezione di assi portanti; né, tuttavia, il Consiglio di Stato avalla l’ulteriore argomento addotto dai ricorrenti a mente del quale la misura ripristinatoria crea uno spostamento dell’originaria posizione del passaggio carraio, atteso che quest’ultimo può essere aperto su una diversa parete della medesima unità.

Di qui l’impossibilità giuridica di un abbattimento finalizzato ad un ripristino dell’originario status del locale, posta a fondamento dell’appello, non può dirsi meritevole di accoglimento.


[1] L’articolo 131 Legge Regionale Toscana n. 1/2005 regolamenta la “Responsabilità del titolare, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori”. Quest’ultima, al primo comma, precisa che: “Il titolare del permesso di costruire o della denuncia di inizio dell’attività, il committente e il costruttore sono responsabilità, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente titolo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché – unitamente al direttore dei lavori – al permesso di costruire o alla denuncia di inizio dell’attività ed alle modalità esecutive ivi stabilite. Essi sono inoltre tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.

Il successivo comma, poi, precisa i casi in cui il direttore dei lavori può considerarsi come soggetto non responsabile. In particolare, l’articolo evidenzia che la responsabilità del direttore dei lavori può dirsi esclusa allorquando: “la violazione delle prescrizione e delle modalità esecutive contenute nei titoli abitativi con esclusione delle varianti in corso d’opera di cui all’articolo 142, fornendo all’autorità comunale competente contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa”. La norma prosegue, inoltre, precisando che “Nelle ipotesi in cui ricorra una totale difformità o variazione essenziale rispetto ai titoli abilitativi, il direttore dei lavori è tenuto inoltre a rinunziare all’incarico contestualmente alla comunicazione resa dall’autorità comunale competente.” Diversamente e, dunque, “nei casi di mancata rinunzia dell’incarico l’autorità comunale segnala al consiglio dell’ordine professionale di appartenenza la violazione in cui è incorso il direttore dei lavori, al fine di una eventuale applicazione delle sanzioni disciplinari”.

[2] Cfr. Articolo 134 Legge Reg. Toscana n. 1/2005 rubricato “Interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti senza denuncia di inizio dell’attività, in totale difformità o con variazioni essenziali”.

[3] L’art. 3 della Legge n. 241/1990 interviene in tema di supporto motivazionale precisando al primo comma quanto segue: “Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato”. Con riferimento all’aspetto contenutistico, la previsione aggiunge che: “La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.  Vi sono, tuttavia, delle eccezioni che si rinvengono nel comma secondo a mente del quale: “La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”. Precisandosi, inoltre, che nel provvedimento vanno altresì riportati: “Il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere” (cfr. quarto comma).

Ulteriore aspetto altrettanto significativo, infine, concerne la c.d. motivazione “per relationem” la cui finalità ben può comprendersi rivolgendo l’attenzione al terzo comma dell’art. 3 della cit. Legge 241; difatti, la norma precisa al riguardo che “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, unitamente alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama”.

[4] L’articolo 9 Legge n. 241/1990 è rubricato propriamente “Intervento nel procedimento”; quest’ultimo nell’ottica di una valorizzazione della logica procedimentale prevede che: “Qualunque soggetto, portatore di interesse pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento

[5] L’articolo 10 della Legge n. 241/1990 si pone sulla medesima scia, in termini finalistici, dell’articolo 9 atteso che anch’esso mira ad incentivare l’intervento nei procedimenti, involgendo tanto i soggetti così come elencati nella previsione dell’articolo 9 quanto coloro che, invero, trovano copertura normativa in una diversa norma qual è l’articolo 7 della citata Legge. Nel dettaglio, viene precisato che: “I soggetti di cui all’articolo 7 e quelli intervenuti ex articolo 9 hanno diritto di prendere visione degli atti del procedimento, eccezion fatta per le ipotesi sancite dall’articolo 24 nonché presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione è tenuta a valutare ove risultino pertinenti rispetto all’oggetto del procedimento”.

[6] Sul punto, trattasi delle pronunce del Tar Toscana datate 2017 così come riprese nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 4134/2021 oggetto di disamina.

[7] Trattasi dell’ordinanza della Sezione n. 6696/2020, così come riportata nella sentenza oggetto di disamina.

[8] Sulla ricorrenza o meno del principio di buona fede e legittimo affidamento (incolpevole) dei proprietari attuali va segnalato un importante precedente giurisprudenziale. Si tratta della pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 9/2017 con la quale viene ad essere sancito il suddetto principio: “il provvedimento che ingiunge la demolizione di un locale abusivo non richiede motivazione circa le ragioni di interesse pubblico che impongono l’intervento di rimozione dell’abuso”. Ciò indipendentemente dal fatto che il provvedimento venga adottato anche in tempi non celeri. Di qui si giunge a ritenere che il decorrere del tempo e, più precisamente, la tardività con cui viene ad essere emesso il provvedimento che ordina la demolizione non vale a consolidare in automatico un incolpevole affidamento dei privati proprietari circa la regolarità dell’immobile. Pertanto, sintetizzando, il Consiglio di Stato ritiene la non necessità della motivazione dell’ordine demolitorio di un’unità abusiva allorquando sia decorso un arco temporale particolarmente elevato rispetto al momento in cui è stata realizzata.

Al riguardo, nella pronuncia de qua (n. 9/2017), viene precisato che il provvedimento demolitorio ha natura di atto vincolato e, come tale, va adottato sulla scorta di precisi criteri e/o presupposti normativamente sanciti, ivi compresa la valutazione del carattere abusivo o meno del locale. Ciò comporta che per lo stesso non si renda necessario un corredo motivazionale particolarmente rigoroso allorquando assistito da un interesse di carattere pubblico.

Dal quadro suddetto è possibile desumere che l’affidamento per assurgere a principio e/o criterio legittimante la posizione addotta dal proprietario deve potersi qualificare come “incolpevole”; ciò in quanto al provvedimento di demolizione viene riconosciuta operatività anche in riferimento a coloro che non hanno materialmente realizzato la violazione della normativa, risultando indipendente dall’effettiva responsabilità del titolare e/o proprietario dell’opera abusiva.

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