L’avvocato può di certo intrattenersi con un teste ma il contatto non deve essere teso ad avere un vantaggio processuale. Non gli è infatti consentito di esercitare forzature o suggestioni finalizzate ad ottenere dichiarazioni favorevoli per il proprio assistito o comunque sfavorevoli per la controparte, specie se questa è rappresentata da un ex cliente. Un tale comportamento integrerebbe invero la fattispecie di ben due illeciti deontologici che legittimano la sospensione dall’attività.
Così hanno deciso le Sezioni Unite della Cassazione che con la sentenza n. 12183 depositata il 12 giugno 2015, hanno confermato la condanna di un legale a quattro mesi di sospensione per avere difeso la moglie di un farmacista (suo ex cliente per delle controversie di lavoro) nella causa di separazione personale, tentando di precostituire elementi negativi di prova sull’uomo tramite i testimoni, convocati con metodi poco “ortodossi” previa minaccia di accompagnamento coatto con i carabinieri e indotti a deporre su presunte irregolarità contabili dell’uomo nella farmacia.
A tal riguardo, val la pena ricordare che i comportamenti contrari alla deontologia non sono tipizzati e definiti come lo sono le fattispecie di reato: il codice deontologico non enuncia infatti vere e proprie norme, ma “canoni” comportamentali, poi definiti concretamente dall’applicazione ai casi che vengono via via individuati nei provvedimenti disciplinari erogati. Di qui l’importanza di un continuo aggiornamento sulle decisioni in materia di disciplina pubblicate dagli organi che la amministrano (prima i Consigli dell’Ordine ora i Collegi Distrettuali di disciplina, istituiti dalla nuova legge Professionale).
La più evidente violazione riscontrata nel caso esaminato dalle Sezioni Unite è quella relativa all’art. 55 (Rapporti con i testimoni e persone informate) che così recita testualmente al primo comma: “l’avvocato non deve intrattenersi con testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti […]”. Il 6° comma prevede inoltre che, in caso di violazione del divieto di cui al comma 1, dovrà essere applicata “la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi”.
La seconda violazione, ancora più delicata e troppo spesso poco considerata, è stata quella dell’art. 68 (Assunzione di incarichi contro una parte già assistita), a norma del quale “l’avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale“. Il 2° comma dispone poi che l’avvocato non deve assumere un incarico professionale contro una parte già assistita quando l’oggetto del nuovo incarico non sia estraneo a quello espletato in precedenza. Ai sensi del 6° comma, infine, “la violazione dei divieti di cui ai commi 1 e 4 comporta, l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi. La violazione dei doveri e divieti di cui ai commi 2, 3 e 5 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni“.
La Corte, nel caso di specie, ha inoltre individuato due ulteriori violazioni: quella di cui all’art. 9 (probità, dignità e decoro propri della professione forense) e il divieto di impugnazione della transazione raggiunta con il collega ex art. 44, come risultava dal secondo esposto presentato a suo carico da due clienti, i quali affermavano che il legale dopo aver partecipato con un collega di controparte alla redazione di una scrittura transattiva l’aveva disconosciuta e contestata.
Individuate le norme violate, la Cassazione ha dunque dato condivisibilmente ragione all’operato degli organi disciplinari (Ordine e CNF in grado d’appello) confermando la condanna del difensore alla sospensione di quattro mesi. Quanto alla difesa contro l’ex cliente, infatti, il codice prevede espressamente un “termine biennale dalla cessazione del rapporto professionale per l’assunzione dell’incarico“, a nulla rilevando la differenza dell’incarico assunto rispetto al precedente, nè lo stato del processo, pendente solo formalmente, il quale non fa “comunque venir meno il rapporto di mandato ed il conseguente obbligo” deontologico.
Quanto ai testimoni, poi, non sussiste nessun dubbio sulle “forzature o suggestioni” messe in atto per conseguire deposizioni compiacenti e come tali vietate “a tutela della corretta amministrazione della giustizia, che potrebbe essere messa in pericolo da avvertimenti e pressioni“.
Analogo il ragionamento sulla violazione relativa alla transazione, per la quale non passa la tesi che la stessa fosse avvenuta senza l’intervento degli avvocati e che non vi fosse stata alcuna firma, come asserito dal ricorrente. Secondo la Suprema Corte, infatti, il Codice Deontologico Forense “nel prevedere il divieto di impugnare la transazione intervenuta, contiene la sola esimente dei fatti non conosciuti o sopravvenuti”.
Quanto, infine, ai doveri di probità, dignità e decoro la violazione, sulla scorta di quanto indicato, è stata considerata sussistente in re ipsa.
In conclusione, l’avvocato è stato dunque condannato oltre che alla sospensione dalla professione per quattro mesi, al pagamento del doppio del contributo ex art. 13 comma 1-quater del D.p.r. n. 115/2002.
(Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 12183 del 12 giugno 2015)