Com’è noto, l’11 agosto 2018 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge di conversione[1] dell’ormai famoso “Decreto Dignità”, la quale ha definitivamente introdotto nel nostro ordinamento la nuova disciplina prevista per i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato e per i contratti di somministrazione.
Poche, ma significative, in tali materie le modifiche apportate dal Parlamento all’originaria impostazione del DL Dignità.
Su tutte:
- Trasformazione automatica in contratto a tempo indeterminato per i contratti a termine superiori a 12 mesi senza causale;
- Disposizione di un regime transitorio valevole fino al 31 ottobre 2018, in cui sarà possibile stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza i vincoli presenti nel DL Dignità.
Rimangono, invece, tutte le novità introdotte in tema di contratto di lavoro a tempo determinato e contratti di somministrazione a termine.
Sui contratti a tempo determinato:
- Al contratto di lavoro subordinato può essere posto un termine di durata non superiore a dodici mesi;
- Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
- esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
In caso di violazione dei punti che precedono, la risposta sanzionatoria è sempre la trasformazione in un contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi o nella fittizia apposizione della causale.
La ratio del legislatore è evidente, obiettivo primario è quello di evitare quanto più possibile il ricorso ai contratti di lavoro a termine, prefissandosi, allo stesso tempo, un aumento dei contratti a tempo indeterminato.[2]
Quindi, la drastica diminuzione dei contratti a tempo determinato, dovrebbero, per il legislatore, portare alla stipula di più contratti a tempo indeterminato.
Aumento dei contratti a tempo indeterminato o aumento del precariato?
Pensare ad aumento significativo dei contratti a tempo indeterminato, alla luce delle regole tassative suddette è, ad oggi, realisticamente irrealizzabile.
Infatti, i limiti temporali (12 mesi), la presenza di causali altamente generiche e diverse rispetto a quelle previste dal d.lgs. 368/2001[3] e la paura per le aziende di aumentare le controversie relative all’apposizione delle causali porterà ad un drastico aumento del tasso di velocità del turnover, il che aumenterà la precarietà del lavoro e inciderà negativamente sulle opportunità di trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato.[4]
Dunque, è preventivabile, al contrario delle ottime intenzioni del legislatore, un aumento della precarietà sulla forza lavoro che era già soggetta ai contratti di lavoro subordinati a tempo determinato.
L’intervento dei contratti collettivi alla luce del Decreto Dignità
La scelta del legislatore di rendere cosi rigida la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, poteva essere temperata dalla possibilità, per le aziende, di ricorrere alla contrattazione collettiva territoriale o aziendale per mitigare gli effetti, almeno nel primo periodo, di un cambiamento cosi drastico sulla disciplina dei contratti a termine.
Evidentemente il legislatore non prevedendo l’ipotesi di deroghe “convenzionali” vorrà, in un secondo momento, perfezionare con altri interventi normativi la disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, favorendo le assunzioni a tempo indeterminato.
Va ricordato che la disciplina suddetta, non si applicherà ai contratti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni[5], ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
Tale scelta, se da un lato non mette a rischio migliaia di posti di lavoro a termine all’interno della Pubblica Amministrazione, dall’altro pone dei dubbi sulla legittimità costituzionale di tale norma, in quanto la disparità di trattamento ex art. 3 Cost., in questo caso, sembra essere evidente.
In conclusione, dunque, va osservato che rispetto al d.lgs. 81/2015, è stata tolta ogni possibilità di intervento ai contratti collettivi in tema di rapporto di lavoro a termine e non si prevedono possibilità di deroghe alla legge n. 96 del 2018 attraverso accordi con le sigle sindacali.
I contratti di prossimità come unica soluzione
L’unica soluzione di elasticità per le aziende sembrerebbe essere quella del ricorso ai cosiddetti contratti di prossimità.
I contratti di prossimità, disciplinati dall’art. 8 del D.L. n. 138/2011 (convertito in legge dalla l. n. 148/2011 e in vigore dal 17 settembre 2011), si rivolgono direttamente ai contratti collettivi di “secondo livello”, ossia i contratti territoriali o aziendali, che le singole aziende possono utilizzare per specificare e adeguare alla propria realtà strutturale ed economica ciò che è previsto sia dai Contratti collettivi nazionali, sia dalla stessa normativa giuslavoristica.
Importante sottolineare, però, che la contrattazione di “secondo livello” non può derogare in pejus le previsioni contenute nella contrattazione nazionale o nelle leggi, ma può solo specificare e migliorare ciò che è previsto su base nazionale.
Il divieto di deroga in pejus, non sussiste, invece nei contatti di prossimità.
Questa è la caratteristica principale dei suddetti contratti, in quanto all’interno di limiti e presupposti delimitati, è possibile per le aziende riuscire a derogare e specificare, a seconda delle proprie esigenze, previsioni in determinate aree del mercato del lavoro.
Infatti, i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali.
Tali accordi però, dovranno necessariamente essere finalizzate alla:
- maggiore occupazione;
- qualità dei contratti di lavoro;
- all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori;
- emersione del lavoro irregolare;
- agli incrementi di competitività e di salario;
- gestione delle crisi aziendali e occupazionali;
- agli investimenti e all’avvio di nuove attività.
In sostanza, le aziende insieme alle organizzazioni sindacali possono, attraverso intese finalizzate agli scopi che precedono, derogare alla normativa giuslavoristica o ai CCNL.
Ciò vale anche per la nuova disciplina dei contratti a tempo determinato?
Le modifiche o deroghe alla nuova disciplina dei contratti a tempo determinati, potranno essere utilizzate e considerate legittime solo attraverso i contratti di prossimità.
Saranno legittime anche le intese finalizzate a consentirne un utilizzo oltre la durata legalmente praticabile dei 12 mesi, sia pure in presenza di temporanee esigenze dell’impresa.[6]
Tant’è che è lo stesso decreto legge n, 138/2011 a individuare l’area dei contratti a termine, tra le materie derogabili, infatti la lett. c) dell’art. 2 dello stesso decreto afferma che “Le specifiche intese possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:
- c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;”.
Si sottolinea che i contratti di prossimità oltre a rispettare i presupposti di cui sopra, dovranno necessariamente rispettare le norme della Costituzione, nonché’ i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro e che l’intesa valga per la totalità dei lavoratori presenti in azienda.
[1] L. n. 96 del 2018.
[2] Obiettivo primario tornare al regime del d.lgs. 368/2001. Infatti l’art. 1 comma 1 dello stesso Decreto afferma che “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro.”
[3] Art. 1 del d.lgs. 368/2001: “È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”
[4] Sul punto V. A. Maresca, Lavoro, per i contratti a termine spazi ridotti agli accordi collettivi, 2018, Il Sole 24 ore.
[5] Art. 1 comma 3 D.L. n. 87/2018: “Le disposizioni di cui al presente articolo, nonche’ quelle di cui agli articoli 2 e 3, non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto.”
[6] Comma 2 bis D.L. n. 138/2011: “le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro subordinatamente al loro deposito presso la Direzione territoriale del lavoro competente per territorio”.