Il possesso e la detenzione. La guida completa di giurisprudenza

Sommario: 1. Il possesso. Considerazioni generali – 2. L’oggetto del possesso – 3. Detenzione e possesso – 4. Prova del possesso – 5. Possesso di buona e di mala fede

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1. Il possesso. Considerazioni generali

A differenza della proprietà, che è una situazione di diritto sulla cosa (definita dall’art. 832 c.c.[1]) il possesso è una situazione di fatto.

È definito dall’art. 1140, comma 1, c.c., il quale dispone che “il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”.

Pertanto, il possessore può non essere proprietario (o titolare di un diritto reale), ma si comporta come se lo fosse.

Essendo una situazione di fatto, al fine di conseguire il possesso di una cosa non è necessaria la capacità di agire, ma è sufficiente la capacità naturale di intendere e di volere[2].

Come detto in precedenza, se pur di regola il possessore è anche proprietario, possono presentarsi dei casi in cui le due situazioni non coincidono.

Ad esempio, nel furto il derubato resta sì proprietario della cosa, ma il nuovo possessore è il ladro. Ancora, nel caso di vendita nulla, il venditore rimane proprietario della cosa oggetto del contratto, ma il compratore ne ha conseguito il possesso.

Quindi, nel caso in cui le due situazioni (possesso e proprietà) siano in capo alla stessa persona, si ha un possesso pieno; quando, invece, il possesso corrisponde all’esercizio di un altro diritto reale (nel senso che ci si comporta di fatto da usufruttuari, da superficiari ecc.), si ha il possesso minore[3].

Relativamente ai diritti reali di godimento, l’usufrutto e l’uso possono essere oggetto di possesso. Infatti, l’art. 1153, comma 3, c.c., disponendo che i diritti di usufrutto e di uso, oltre quello di pegno, si acquistano per mediante il possesso, ammette siffatta possibilità.

Per quanto riguarda i diritti reali di garanzia, pur essendo il pegno suscettibile di possesso (come visto ex art. 1153, comma 3 e art. 2789 c.c.[4]), non può dirsi la stessa cosa in relazione all’ipoteca, considerata la natura costitutiva dell’iscrizione nei registri immobiliari.

E’ anche ammesso il compossesso, cioè il possesso corrispondente all’esercizio di fatto della comproprietà[5], in comunione (Cass. n. 17152/2012) ed anche il possesso della quota di coeredità.

Altra forma di possesso è il possesso mediato, che si ha quando il possessore ha solo l’animus possidenti, ma la disponibilità materiale del bene è in capo al detentore.

Nonostante il possesso sia solo una situazione di fatto, l’ordinamento gli attribuisce diversi effetti giuridici e delle azioni a tutela di tale situazione.

Tra gli effetti che derivano dal possesso, il principale è l’acquisto della proprietà e degli altri diritti reali (artt. da 1153 a 1167 c.c.).

Le azioni a difesa del possesso, invece, sono regolate dagli artt. 1168, 1169 e 1170 c.c., e consistono nell’azione di reintegrazione e di manutenzione.

Si ritiene[6] che non sussiste un nesso necessario tra la tutela e gli effetti del possesso.

Infatti, le azioni a tutela del possesso (c.d. azioni possessorie) sono attivabili anche nei casi in cui il possesso stesso non abbia l’effetto di acquisto della proprietà o di altro diritto reale.

A fondamento di tale orientamento viene posto l’art. 1145.

Infatti, tale articolo, pur disponendo (comma 1) che il relazione alle cose fuori commercio non è possibile acquistarne la proprietà, nemmeno quale effetto del possesso[7], al comma 2, con riferimento ai beni demaniali, concede al privato l’azione di spoglio (prevista dall’art. 1168 c.c.), nei rapporti tra i privati.

Al comma 3 della medesima disposizione, invece, concede al privato l’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.), sempre nei rapporti tra privati, quando lo stesso è molestato nell’esercizio di facoltà che possono formare oggetto di concessione da parte della pubblica amministrazione (si veda, Cass., Sez. Un., n. 15289/2001; Cass. n. 9873/2012).

Per quanto riguarda la tutela del possesso (esposta diffusamente nel paragrafo dedicato) è bene segnalare una distinzione.

Si può parlare di tutela in senso proprio solo nel caso di conflitto tra possessore (non proprietario) e proprietario (non possessore).

Se ne parla, invece, impropriamente, in relazione ai conflitti tra non proprietari.

Inoltre, altra premessa, è improprio anche discorrere di norme a difesa del possesso, trattandosi piuttosto di criteri predisposti dal legislatore per comporre in conflitti tra le ragioni di diversi possessori[8].

Un ultima differenza relativa alla differenza tra possesso e proprietà riguarda il fatto che alcune volte si ritrova, anche in giurisprudenza[9], la proposizione secondo la quale il possesso fa presumere la proprietà, ovvero che il possesso crea un’apparenza di proprietà.

Siffatte proposizioni sono adottate al fine di giustificare la presenza, nell’ordinamento, degli effetti e della tutela del possesso. In altri termini, gli effetti e la protezione del possesso sono assicurati dal codice civile proprio perché nel possesso vi è una presunzione o una apparenza di proprietà.

Il Galgano ritiene siffatto ragionamento privo di fondamento.

Invero, che il possesso faccia presumere la proprietà è vero solo in relazione al possesso di buona fede dei titoli di credito.

Infatti, l’art. 1157 c.c., nel disciplinare gli effetti del possesso di tali titoli, rinvia alle norme del titolo V del libro IV del codice civile e, in particolare, all’art. 1994 c.c., il quale dispone che il possessore di buona fede di un titolo di credito non è soggetto a rivendicazione[10].

Pertanto, solo in questo caso il possesso fa presumere la proprietà. Fuori dal campo del possesso in buona fede dei titoli di credito, il possesso è tutelato in quanto tale e non in quanto proprietà presunta[11].

Per quanto riguarda l’apparenza, è sufficiente ricordare che quando questa è rilevante, è trattata allo stesso modo della realtà; ma la disciplina del possesso è differente da quella della proprietà e, quindi, non può costituire l’apparenza di quest’ultima.

2. L’oggetto del possesso

Oggetto del possesso, ai sensi dell’art. 1140 c.c., sono le cose, il cui concetto è equivalente a quello di bene (di cui all’art. 810 c.c.) e che comprende anche le energie suscettibili di valutazione economica (ai sensi dell’art. 814).

Quindi, se da un lato è vero che tutto ciò che forma oggetto di proprietà può formare oggetto di possesso, non è altrettanto vero che tutto ciò che forma oggetto di possesso può formare oggetto di proprietà.

Infatti, come già abbiamo visto, ai sensi dell’art. 1145 c.c. i beni demaniali non possono formare oggetto di proprietà, né di possesso finalizzato all’acquisto della proprietà.

Tuttavia, nei rapporti tra privati il possesso può essere tutelato con le azioni possessorie[12].

Il problema sorge con riferimento ai beni immateriali, rientrando in tale categoria i segni distintivi (ditta, insegna e marchio), le opere d’ingegno, le invenzioni e i modelli industriali.

Problema che non è sorto per esigenze di tutela possessoria di siffatti beni, in quanto già essi godo di specifici strumenti di tutela, ma per esigenze relative alla loro circolazione, considerato che tali beni (soprattutto i segni distintivi) si presentano come valori di scambio (allo stesso modo dei beni materiali).

Alla luce di ciò, non è mancata giurisprudenza (se pur risalente) che li ha ritenuti suscettibili di possesso e che ha ritenuto i diritti su di essi acquistabili mediante il possesso[13].

3. Detenzione e possesso

La detenzione e il possesso hanno in comune solo l’elemento obiettivo, costituito dalla materiale disponibilità del bene.

Al di fuori di siffatto punto in comune, si tratta di istituti giuridici differenti. Infatti, chi detiene ha sì la materiale disponibilità della cosa (corpus possessionis), ma, a differenza di colui che possiede, è privo dell’animus possidenti, cioè dell’intenzione di comportarsi come proprietario della cosa.

A riguardo, un orientamento ritiene che sia improprio di parlare di animus possidenti, con riferimento al possesso, in quanto l’intenzione di possedere non può sussistere in ogni momento della durata del possesso.

Pertanto, sarebbe più corretto parlare di comportamento uti dominus (cioè di possesso come se si fosse proprietario).

Tuttavia, si può obiettare che è sufficiente che l’animus possidenti sussista solo al momento dell’acquisto del possesso, non in ogni suo momento, e che il possesso dura finché l’animus possidenti non sia definitivamente venuto meno.

Infatti, al fine di possedere, non è sufficiente dichiararsi titolare di un diritto reale sulla cosa, ma è necessario che si pongano in essere atti compatibili con l’intenzione di possedere quella determinata cosa[14].

Se è vero che il possesso si consegue con la sussistenza di entrambi i requisiti del corpus possessionis e dell’animus possidenti, è altrettanto vero che al fine di conservare il possesso è sufficiente solo il secondo dei requisiti.

Infatti, è ben possibile possedere una cosa della quale non si ha la materiala detenzione, fino a quando sussista la possibilità di recuperarla ovvero finché la cosa non sia entrata nella materiale disponibilità di un altro soggetto.

Per questo motivo non si perde il possesso di una cosa semplicemente smarrita, a differenza della cosa rubata, rispetto alla quale diventa possessore il ladro.

Quindi, ciò che differenzia la detenzione dal possesso è che la prima può avere ad oggetto anche il godimento della cosa per un titolo[15] (ad esempio, il conduttore è detentore della cosa data in locazione) ma chi detiene riconosce l’altruità della cosa (infatti, il conduttore detiene la cosa data in locazione, riconoscendo come proprietario il locatario).

Si può detenere la cosa nel proprio interesse, come ad esempio il caso dell’affittuario o del conduttore; ovvero nell’interesse altrui, quindi per ragioni di servizio, come la detenzione degli strumenti di lavoro appartenenti al datore di lavoro, da parte del lavoratore[16]; è possibile detenere anche per ragioni di ospitalità[17].

In questi casi il proprietario resta comunque possessore della cosa detenuta da altri. Infatti, comportandosi come tale, avrà il diritto di riscuotere i canoni di locazione della cosa. Anche il nudo proprietario che costituisce diritti reali minori sulla cosa, conserva il possesso pieno della stessa.

Il possesso, quindi, può essere esercitato in due modi: direttamente, quando si detiene la cosa con l’intenzione di considerarla propria (corpus possessionis e animus possidenti); indirettamente, cioè per mezzo di altri che ne hanno la detenzione (art. 1140, comma 2, c.c.).

4. Prova del possesso

L’art. 1441, comma 1, c.c., pone la presunzione secondo la quale chi esercita il potere di fatto su una cosa, è possessore della stessa, salvo che non si provi che ha cominciato ad esercitare tale potere in qualità di detentore, cioè riconoscendo il possesso altrui[18].

La prova del corpus possessionis (cioè della disponibilità della cosa, del potere di fatto su di essa) può essere data con qualsiasi mezzo, comprese le presunzioni.

Tuttavia, si considera che il solo titolo di acquisto del bene sia inidoneo a far presumere il possesso, così come le sole risultanze catastali. Ma nel caso in cui concorrino entrambe (titolo di acquisto e risultanze catastali) la prova presuntiva del possesso può dirsi raggiunta.

Infatti, l’art. 567 c.p.c., commi 1 e 2, dispone che nel chiedere la vendita, il creditore pignoratizio deve allegare sia l’estratto del catasto, che i certificati delle trascrizioni e iscrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento (si ricordi che il possesso ventennale, così presuntivamente provato, equivale ad acquisto della proprietà del bene per usucapione).

Relativamente alla prova della durata del possesso, l’art. 1142 c.c. dispone la presunzione secondo la quale se il possessore attuale ha posseduto in un tempo più remoto, ha posseduto anche nel tempo intermedio.

Quindi, la prova che il possesso sia mancato nel periodo intermedio, incombe sulla parte che contesta il possesso.

Inoltre, l’art. 1143 c.c. stabilisce che se un soggetto prova di possedere attualmente e prova anche il titolo in forza del quale sussiste il possesso, si presume che egli abbia posseduto dalla data del titolo.

Si discute se la norma in esame alluda ad un titolo a domino ovvero a non domino, diretto al trasferimento del titolo corrispondente al possesso.

5. Possesso di buona e di mala fede

Il possesso è tutelato dall’ordinamento a prescindere dalla buona o mala fede del possessore. Infatti, è definito possessore, se pur in mala fede, anche il ladro.

La mala fede, invero, non impedisce l’esercizio delle azioni di manutenzione e reintegrazione, non priva il possessore del diritto al rimborso delle spese e delle indennità per i miglioramenti apportati alla cosa, non impedisce l’acquisto della stessa per usucapione.

Tuttavia, solo il possessore di buona fede fa propri i frutti della cosa altrui che egli possiede (art. 1148 c.c.), acquista la proprietà delle cose mobili (art. 1153 c.c.) e fruisce dell’usucapione abbreviata (art. 1159 c.c.).

La buona fede si ha quando un soggetto possiede la cosa “ignorando di ledere l’altrui diritto(art. 1147, comma 1). Diversamente, è in mala fede chi possiede una cosa sapendo che è altrui.

A differenza del codice previgente, non è più necessario che il possessore, per essere in buona fede, si sia impossessato della cosa in virtù di un titolo idoneo a trasferire il diritto. Invero, ad oggi è possessore di buona fede anche chi si impossessa di una cosa altrui, ritenendola res nullius.

Tuttavia, il titolo idoneo rileva ai fini dell’usucapione abbreviata e per l’accessione nel possesso, con riferimento all’acquisto a non domino di cose mobili.

Di contro, la presenza di un titolo idoneo non comporta automaticamente la buona fede del possessore, potendo egli aver ricevuto la cosa dal ricettatore o dal ladro, disponendo quindi di un titolo, anche se è comunque nella consapevolezza di ledere il diritto del soggetto derubato.

La buona fede sussiste anche nel caso di errore di fatto o di diritto. Non però in caso di colpa grave (art. 1147, comma 2).

Il comma 3 dell’art. 1147 c.c., dispone che la buona fede, in materia di possesso, si presume. Tuttavia si tratta di una presunzione iuris tantum e quindi è ammessa la prova contraria.

Quindi, il possessore anche di mala fede gode di protezione giuridica, finché non si provi il suo stato psicologico. Si ritiene che siffatta prova possa essere raggiunta anche con presunzioni contrarie e semplici indizi[19].

Sempre il terzo comma sancisce che è sufficiente, ai fini della presunzione della buona fede in capo al possessore, che questa vi sia stata al momento dell’acquisto. In altri termini, basta che il possessore fosse originariamente in buona fede, per essere considerato tale anche successivamente (pur avendo maturato la consapevolezza dell’altruità della cosa).

Giova precisare che la buona fede di cui alla disposizione in esame non ha nulla a che vedere con la buona fede oggettiva, intesa come dovere del contraente di comportarsi secondo correttezza (utilizzata in ambito contrattuale).

Invero, l’art. 1147 c.c. fa riferimento alla buona fede in senso soggettivo, intesa come stato psicologico di conoscenza o di ignoranza, solo nell’ambito del possesso[20].

Infatti, la buona fede non si presume nell’acquisto della proprietà per accessione invertita (art. 938 c.c.) e nel pagamento al creditore apparente (art. 1189 c.c.).

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[1] A mente del quale, la proprietà consiste nel “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

[2] Cass. n. 22776/2004.

[3] Così come sul medesimo bene possono gravare più diritti reali, possono altresì coesistere più possessi di diverso tipo (ad esempio, il possesso a titolo di proprietà di Tizio può coesistere col possesso a titolo di abitazione di Caia e con un possesso a titolo di servitù di Sempronio); cfr. Cass. 21231/2010.

[4] Il quale dispone che il creditore pignoratizio può esercitare le azioni a difesa del possesso nel caso in cui abbia perduto il possesso della cosa ricevuta in pegno.

[5] Tuttavia, nel caso in cui il comproprietario escluda il concorrente compossesso degli altri comproprietari, egli diventa possessore esclusivo e può, di conseguenza, acquistare il bene per usucapione.

[6] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. I, Padova, 2015, p. 449.

[7] Cass. n. 6378/2013.

[8] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. I, Padova, 2015, p. 450.

[9] Cass. n. 3608/1987.

[10] Si ricorda che la rivendicazione, ai sensi dell’art. 948 c.c., è un’azione a difesa della proprietà.

[11] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. I, Padova, 2015, p. 451. Infatti, l’Autore ricorda che la legittimazione cartolare, che è data dal possesso del titolo, non è altro che la presunzione (relativa) di proprietà del titolo stesso.

[12] Cass. n. 7264/2006; Cass. n. 16997/2005.

[13] Ex multis, Cass. n. 6150/1978.

[14] Infatti, anche il ladro possiede l’oggetto del furto.

[15] Anzi, vi è chi ritiene che la differenza tra possesso e detenzione è data proprio dalla manifestazione dello stato psicologico che il soggetto manifesta verso l’esterno e che siffatta manifestazione dipende, appunto, dal titolo in forza del quale avviene siffatta acquisizione ovvero dalle modalità con cui l’acquisizione si realizza. Cfr. A. TORRENTE, P. SHLESINGER, Manuale di Diritto privato, Giuffrè Editore, Milano, 2013, pp. 335-336.

[16] Possono anche essere detentori il vettore, il depositario, il mandatario, l’appaltatore e il prestatore d’opera. Infatti, questi soggetti hanno anche un interesse proprio alla detenzione, protetto dalla legge con il privilegio speciale sulle cose trasportate, custodite o detenute per l’esecuzione di un mandato (art. 2761 c.c.) o sulle cose mobili detenute per l’esecuzione di prestazioni inerenti alla loro conservazione o miglioramento (art. 2756, comma 2, c.c.) e hanno anche il diritto di ritenzione sulle stesse (art. 2756, comma 3, c.c.).

[17] Che si possa detenere per ragioni si servizio e di ospitalità è previsto dallo stesso codice civile, il quale all’art. 1168, comma 2, concede l’azione di reintegrazione anche al detentore, tranne nel caso di detenzione per le suddette ragioni.

[18] Cass. n. 13002/2010; Cass. n. 14092/2010.

[19] Cass. n. 21387/2013.

[20] In senso contrario A. TORRENTE, P. SHLESINGER, Manuale di Diritto privato, Giuffrè Editore, Milano, 2013, p. 337, che discorre di correttezza e di buona fede in senso oggettivo.

1 COMMENTO

  1. Salve!Sono proprietaria di in terreno su cui è stato costruito un palazzo di famiglia. Un appartamento e un magazzino sono stati venduti ad un tizio. Dal suo contratto non viene menzionato ne il tipo di servitu ne il diritto ad un parcheggio (perché non c è lo spazio sufficiente per tutti ). Non c é condominio. ora sostiene che essendo passato più di un anno quella striscia di terrà è sua anche se nn ha mai avuto consenso da noi a parcheggiare … è così?come posso tutelarmi?

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