Con la sentenza n. 1526 del 28 gennaio 2016, la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ribadito che il difensore antistatario è tenuto alla restituzione delle somme pagate dalla parte soccombente in caso di riforma, in appello, della sentenza in cui aveva chiesto la distrazione delle spese a suo favore.
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distrazione delle spese
Ai sensi dell’art. 93 c.p.c., è considerato antistatario il difensore che, munito di procura, richieda al giudice di distrarre, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, “in favore suo e degli altri difensori gli onorari non riscossi e le spese che dichiara di avere anticipate“.
Il problema sorge in caso di riforma, in appello, della sentenza di condanna in cui è stata richiesta tale distrazione: a ben vedere, il legale non è infatti parte sostanziale del giudizio ma solo il difensore di una delle parti e, in quanto tale, non potrebbe essere condannato. Tuttavia, secondo la Suprema Corte, in tale ipotesi la condanna alla restituzione deve essere emessa nei confronti del difensore e non della parte.
L’azione mira infatti alla mera riduzione in pristino della situazione patrimoniale anteriore al pagamento, che vede come legittimati soltanto il solvens e l’accipiens, prescindendo dall’esistenza del rapporto sostanziale. Di conseguenza il soggetto che ha ricevuto il pagamento non dovuto – il difensore antistatario – per effetto della sentenza provvisoriamente esecutiva successivamente riformata, dovrà indennizzare il soggetto – la parte soccombente – che ha provveduto al pagamento dell’intera diminuzione patrimoniale subita.
Non solo. Come ha già avuto modo di statuire la Corte di legittimità, l’entità della restituzione dovrà includere anche gli accessori, come gli interessi e le spese, atteso che “la riforma o la cassazione della sentenza provvisoriamente eseguita ha un effetto di “restitutio in integrum” e di ripristino della situazione precedente” (Cass. 8215 del 28/01/2013).
In conclusione, la Corte di Cassazione ha dunque rigettato il ricorso dell’avvocato.
Leggi la sentenza integrale: Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 1526 del 28 gennaio 2016