Violazione del consenso informato: ai fini del risarcimento è richiesta la prova che il paziente non si sarebbe sottoposto al trattamento sanitario qualora fosse stato correttamente informato.
Breve ricostruzione normativa
Il diritto del paziente ad acconsentire in modo informato al trattamento sanitario medico-chirurgico – disciplinato dalla L. n. 219 del 2017[1], il cui art. 1 tutela il diritto all’autodeterminazione del singolo individuo e regola le modalità di ricezione delle informazioni e di espressione e documentazione del consenso – rappresenta l’intero fulcro del rapporto tra medico e paziente sul quale si fonda la legittimazione del professionista a prestare la sua attività terapeutica.
Invero, affinché il consenso possa essere considerato come esplicativo di una consapevole manifestazione della libertà individuale si rende necessaria la sussistenza di una serie di requisiti. In particolare, il consenso deve essere:
- personale e cioè manifestato direttamente dal paziente, purché questo sia capace di intendere e di volere;
- esplicito, specifico, informato ovverosia dotato di una particolareggiata specificazione da parte del sanitario[2];
- reale ed effettivo e, dunque, non già presunto;
- attuale e persistente al momento dell’inizio dell’intervento;
- infine, sempre revocabile.
Un atto di volontà, dunque, quello del consenso esplicativo del riconoscimento del più ampio diritto della libertà personale di cui all’art. 13 Cost. e il cui fondamento si rinviene negli artt. 32 e 13 della Cost. nonché nell’art. 2 Cost. che – come noto – tutela e promuove il diritto fondamentale della persona umana, della sua dignità ed identità. Tali considerazioni mettono in evidenza la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona quali quello all’autodeterminazione e quello alla salute, sicché se è vero che ciascuno ha il diritto di essere curato, è pur vero che ogni individuo ha il diritto di ricevere tutte le informazioni necessarie circa la natura e i possibili sviluppi del trattamento, informazioni, queste, che devono presentarsi quanto più possibile esaurienti così da garantire la libera e consapevole scelta del paziente e, quindi, la sua libertà personale.
Appare evidente come il consenso prestato dal paziente al trattamento rappresenti, dunque, l’espressione più ampia del diritto all’autodeterminazione del singolo al quale viene riconosciuto, sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 32 Cost., il diritto e la facoltà di rifiutare le cure purché queste non siano tassativamente previste dalla legge come trattamenti obbligatori (TSO). Un diritto quello all’autodeterminazione non già espressamente previsto dal testo costituzionale, ma frutto di una evoluzione giurisprudenziale culminata nella nota sentenza della Corte costituzionale che lo configura come un “diritto fondamentale della persona”[3] e che non si risolve però in un assorbimento del medesimo in quello alla salute ma che si presenta quale diritto autonomo[4], giacché ad essere offesa, nel caso manchi il consenso al trattamento sanitario, è la dignità della persona[5], il patrimonio di valori che la sostanziano e che non si esauriscono nel bene salute[6].
Conclusivamente, dunque, il consenso informato si configura, ad oggi, quale diritto del paziente a ricevere tutte le informazioni necessarie circa la natura e i possibili sviluppi del trattamento affinché lo stesso possa autodeterminarsi nella scelta libera e volontaria di sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario ponendosi, altresì, quale obbligo informativo pendente in capo al medico che, se violato, dà luogo ad una responsabilità di natura civile giacché foriero anche di un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione che gli stessi giudici di legittimità, in una recente pronuncia, hanno ritenuto sussistente “indipendentemente dalla sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o del contatto sociale, ovvero dell’illecito extracontrattuale: ai fini della verifica della violazione del diritto alla autodeterminazione, non assume, dunque, alcun rilievo la modifica legislativa della natura della responsabilità professionale medica, trasformata da contrattuale o para-contrattuale ad extracontrattuale, operata dalle leggi intervenute nel 2012 (D.L. n. 158 del 2012 conv. L. n. 189 del 2012, cd. Balduzzi) e nel 2017 (L. n. 24 del 2017, cd. Gelli-Bianco)”[7].
Alla luce delle considerazioni testé esposte in tema di consenso informato, di notevole rilevanza si presenta una recentissima pronuncia della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione del 19 agosto 2020, n. 17322 (qui è consultabile il testo integrale).
La vicenda processuale
Al fine di comprendere compiutamente le questioni giuridiche sottese alla pronuncia in esame, giova operare un breve excursus dei fatti occorsi.
In particolare, la vicenda concerne un’ipotesi di omesso consenso informato che trae origine dall’azione di risarcimento proposta, innanzi al Tribunale di Venezia, dal coniuge e i figli di un paziente successivamente deceduto, per il danno cagionato dall’intervento di cardiochirurgia con cui erano state sostituite le valvole cardiache naturali con protesi meccaniche, di produzione brasiliana, le quali avevano rivelato gravi difetti di funzionamento.
Il giudice di prime cure, esperita la CTU, rigettava la domanda proposta dagli attori i quali, dunque, proponevano appello adducendo – per ciò che in tal sede rileva – la mancata pronuncia da parte del Tribunale sulla questione del mancato consenso informato. La Corte territoriale rigettava l’appello precisando, sul punto, come nell’atto di citazione la questione fosse stata trattata in maniera pressoché generica e, soprattutto, dando atto dell’infondatezza della doglianza nel merito stante la difficile desistenza nel prestare il consenso all’intervento da parte del paziente qualora questo fosse stato reso edotto dal sanitario del superamento dei test e dell’inesistenza di qualsivoglia inconveniente delle valvole in questione, peraltro, munite di certificazione CEE.
I motivi del ricorso
Avverso la citata sentenza gli attori, per mezzo del proprio procuratore, ricorrevano in cassazione sulla base di cinque differenti motivi. Con il terzo dei cinque motivi – che qui rileva – i ricorrenti osservavano che il sanitario avrebbe dovuto rendere le informazioni necessarie per assicurare il diritto all’autodeterminazione del paziente, ed in particolare renderlo edotto circa le “dovute riserve” su una valvola meccanica di nuova generazione, mai utilizzata dalla struttura ospedaliera, consentendo al paziente (ormai, defunto) di valutare i rischi ed i benefici dell’intervento e dunque di valutare diverse proposte terapeutiche presso altre e differenti strutture sanitarie.
Il sanitario e la struttura sanitaria, dal canto loro – con il primo dei due motivi di ricorso incidentale – evidenziavano relativamente al consenso informato, come gli attori in primo grado non avessero ben spiegato la loro domanda risarcitoria per violazione del consenso informato, specificando che l’unica allegazione nell’atto di citazione in ordine al consenso riguardasse il consenso sulla tipologia di protesi che stava per essere impiantata e comunque non avevano impugnato con l’appello l’omessa pronuncia del tribunale.
Le argomentazioni addotte dalla Corte dii legittimità
La Corte, investita della questione, ha concluso per l’infondatezza di entrambi i ricorsi qui in esame.
In particolare, per ciò che concerne il motivo esposto dai convenuti nel ricorso incidentale, la Suprema corte ha dato, anzitutto, atto di come – sulla scorta del principio dell’unitarietà del diritto al risarcimento e dunque, sotto il profilo processuale, della conseguente unitarietà della liquidazione – l’allegazione dedotta dagli attori in primo grado fosse da ritenersi sufficiente per riconoscere come proposta la questione e la conseguente domanda risarcitoria.
Segnatamente, secondo il ragionamento svolto dagli Ermellini, prescindendo dalle molteplici voci di danno, in virtù del principio dell’unitarietà del diritto al risarcimento, siffatto diritto si configura come diritto unico sicché anche la domanda non può essere suscettibile di frazionamento. Di talché – si legge nel corpo della sentenza – laddove un determinato soggetto agisca in giudizio domandando il risarcimento dei danni derivanti dalla condotta posta in essere da un alto soggetto, tale domanda investirà tutte le possibili conseguenze dannose che derivano dalla condotta censurata.
In ordine alla questione relativa all’omessa pronuncia su di un punto della domanda da parte del Tribunale di Venezia, la Suprema corte ha evidenziato che ai fini della specificità del motivo di gravame, l’appellante è chiamato a reiterare la richiesta sulla quale il giudice di primo grado ha omesso di pronunciarsi senza che vi sia bisogno dell’impiego di formule sacramentali. Nel caso de quo, hanno ritenuto i giudici di legittimità, che la reiterazione della questione del consenso informato era stata assolta dal momento che gli attori avevano dedotto in appello che le valvole erano state impiantate “senza avere preventivamente informato i pazienti, che ne avrebbero avuto diritto, sulla possibilità di preferire ad esse – che costituivano comunque una novità nel trattamento chirurgico – le valvole già in uso e adeguatamente sperimentate”.
Alla dichiarazione di infondatezza del motivo di ricorso incidentale, i giudici di legittimità hanno affiancato l’infondatezza del motivo addotto dai ricorrenti principali.
Come anticipato, il giudice di prime cure aveva infatti ritenuto che il consenso informato non poteva essere esteso fino a dove informare il paziente circa la tipologia di valvola da impiantare, giacché si trattava di un aspetto di natura pressoché tecnica e, dunque, anche nel caso in cui il sanitario avesse reso le dovute informazioni al paziente queste si sarebbero sostanziate nel dar atto al medesimo della certificazione CEE delle valvole in questione oltre che del loro superamento ai test operati da una ditta specializzata tedesca, informazioni che – come detto – avrebbero presumibilmente indotto il paziente ad assentire comunque all’intervento. Sulla scorta di tali premesse, gli Ermellini, hanno sottolineato che, secondo gli indirizzi giurisprudenziali recenti[8], il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica rileva sotto il profilo della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto all’autodeterminazione – che si perfeziona a seguito della condotta omissiva lesiva dell’obbligo informativo preventivo – e le conseguenze pregiudizievoli che dalla medesima condotta derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Detto in termini differenti, dunque, l’intervento terapeutico in difetto di consenso del paziente, configura, senz’altro, un illecito per cui il medico è chiamato a rispondere delle conseguenze negative che ne siano derivate anche nel caso in cui questo abbia adeguatamente eseguito la prestazione medica. Tuttavia, affinché lo stesso possa rispondere del danno alla salute, è d’uopo domandarsi se la condotta omessa avrebbe, di fatto, scongiurato l’evento nel caso in cui questa fosse stata tenuta e cioè se, l’adempimento da parte del sanitario circa il dovere informativo, avrebbe di fatto prodotto l’effetto della sottrazione all’intervento chirurgico dal quale è derivata poi la patologia.
Ciò che rileva è, dunque, la sussistenza del cosiddetto nesso causale tra la mancata acquisizione di consenso consapevole e il pregiudizio lamentato dai ricorrenti. Di talché, il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà comunque onerato dalla prova del nesso causale tra l’inadempimento e il danno, posto che il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico.
Nella fattispecie de qua, come rilevato dalla Corte, i ricorrenti principali non aveva offerto prova del fatto che il paziente, laddove informato, non si sarebbe sottoposto all’intervento di sostituzione delle valvole rivolgendosi, piuttosto, ad altra e diversa struttura sanitaria e, perciò, la mera eventualità allegata non poteva ritenersi quale requisito sufficiente ad integrare il rifiuto.
La decisione finale.
Conclusivamente sul punto, gli Ermellini, hanno sottolineato che solamente attraverso la prova del rifiuto da parte del paziente di sottoporsi all’intervento si verifica la sussistenza del nesso e la prova che la condotta omessa avrebbe scongiurato l’evento laddove fosse stata tenuta, e perciò, definitivamente pronunciandosi, la Corte, ha rigettato il ricorso ritenendo il motivo – qui esaminato – infondato.
[1] Legge 22 dicembre 2017, n. 219 rubricata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” in Gazz. Uff. del 16/01/2018, n. 12; entrata in vigore il 31/01/2018.
[2] Sul punto cfr. Cass. Civ., Sez. III, 20/08/2013, n. 19220, Giur. It., 2014, 2, 275 nota di SALERNO; e ancora, Cass. Civ. Sez. I Sent., 16/10/2007, n. 21748 (rv. 598966), Mass. Giur. It., 2007.
[3] Cfr. Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Foro it., 2009, I, 1328.
[4] Cfr., da ultimo, Cass. Civ. Sez. III Sent., 14/07/2015, n. 14642 (rv. 636428), CED Cassazione 2015; Cass. Civ. Sez. III, 15-11-2013, n. 25764 (rv. 629724), CED Cassazione 2015; Cass. Civ. Sez. III, 27/11/2012, n. 20984, Giur. It., 2014, 2, 276 nota di SALERNO.
[5] Sulla dignità quale fulcro del principio personalista si veda RUGGERI A., Il principio personalista e le sue proiezioni, in www.federalismi.it , 2013, 10.
[6] Sotto il profilo processuale, si noti che al fine del risarcimento per la lesione dell’autodeterminazione del paziente connessa alla lesione del consenso informato è richiesta una specifica domanda autonoma rispetto a quella volta a far valere la lesione del bene salute. Sul punto cfr. Cass. Civ., Sez. III, Ord., (ud. 12/02/2020) 06/07/2020, n. 13871.
[7] Cfr. Cass. Civ. Sez. III, 11/11/2019, n. 28985, Danno e Resp., 2020, 1, 11 nota di CACACE.
[8] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 11/11/2019, n. 28985, cit.