Il nuovo concetto di ‘economia’
Il concetto di economia ha cambiato sostanzialmente il suo contenuto da quando la conoscenza ha assunto un ruolo centrale nel tessuto produttivo, dando origine ad un irreversibile processo di innovazione attraverso idee e soluzioni che solo un personale altamente specializzato può produrre. L’industria e le fabbriche, le macchine e la forza lavoro, il capitale materiale in generale non sono più il volano di crescita economica o l’indicatore positivo di un’economia; sono le attività immateriali della conoscenza che, oggi, non solo racchiudono la forza propulsiva della produttività, ma consentono anche di individuare e spiegare le differenze tra imprese, tra diverse aree geografiche e tra Stati.
Il capitalismo cognitivo: di che cosa si tratta?
Ciò è tanto vero che oggi non si parla più di economia in senso tradizionale quanto piuttosto di knowledge-based economy, espressione che mette in luce la trasformazione del capitalismo industriale costruito sul concetto di capitale macchine/lavoro manuale in capitalismo cognitivo fondato sul concetto di capitale conoscenza/lavoro mentale nel quale, dunque, la risorsa produttiva primaria è rappresentata dalle capacità cognitive. La capacità produttiva della conoscenza risiede nella sua intrinseca idoneità a moltiplicare l’utilizzo del valore utile ottenuto dalla conoscenza di partenza (Grazzini 2011).
L’attuale settore cruciale dell’economia, il cd terziario avanzato, è costituito dalla finanza, dalla ricerca, dai servizi informatici, dai servizi di consulenza alle imprese, dai media e in generale dall’intrattenimento che hanno preso il posto di agricoltura, industria, commercio e trasporti e tale trasformazione dei processi produttivi caratterizzati da una competività basata sul tempo ha portato con sé un radicale mutamento delle competenze rendendo necessario un personale qualificato e competente in tutti i segmenti produttivi (Grazzini 2011).
I più recenti studi di settore sono unanimi nel considerare il capitale umano specializzato come fattore cruciale della competitività. In quanto titolare di un patrimonio di conoscenze/competenze è capace di fare ricerca, produrre conoscenza, elaborarla e declinarla in diverse applicazioni attuali e future determinando innovazione e aumento di produttività in ogni sistema macro o micro economico.
Le nuove ‘necessità’: creare processi di formazione e di ‘tesaurizzazione’ della conoscenza.
Come ha evidenziato Manuel Castells, la trasformazione del contesto economico-produttivo ha fatto emergere nuove necessità, ossia quella di creare efficaci processi di formazione e di ‘tesaurizzazione’ della conoscenza che diano sempre maggiore qualità al capitale umano e quella di dar vita ad un circolo virtuoso tra ricerca e industria, anche a livello internazionale, affinché la conoscenza abbia in sé il fattore output di prodotto dell’attività di ricerca e input di fattore decisivo di produzione e possa, così, permettere al paradigma economico-cognitivo di funzionare. Le attività economiche più rilevanti, competitive e innovative, infatti, sono figlie di tecnologia, innovazione e capacità di diffusione delle informazioni che consente di offrire una risposta puntuale e tempestiva alla domanda economica, proveniente dai consumatori, o alla domanda sociale, proveniente dai cittadini (Castells 2006).
Assodato, dunque, che il passaggio alla knowledge economy ed al capitalismo cognitivo è definitivo e che la conoscenza è ormai un fattore di produzione ed un input dell’attività produttiva, non ci resta che riconoscere la nascita di una nuova categoria di forza lavoro, rappresentata dai knowledge workers. Si tratta di lavoratori che non forniscono alla produzione un apporto materiale ma immateriale di conoscenze scientifiche e tecnologiche, di capacità di individuare, affrontare e risolvere situazioni nuove e complesse.
Essi svolgono una funzione intellettuale nella produzione materiale e non rappresentano solo un asset del contesto economico in cui lavorano ma, attraverso la condivisione delle loro conoscenze, diventano un vero e proprio asset sociale.
Ne consegue che sono proprio i knowledge workers, depositari dell’apertura al cambiamento economico-sociale e di capacità innovativa, a costituire un “asset immateriale che accresce e sostiene il livello della produttività, dell’innovazione e dell’occupazione” sul quale è necessario investire al pari o addirittura maggiore rispetto al capitale fisico. (Rullani 2004)
Il c.d. knoledge worker
Il termine knoledge worker è stato coniato nel 1969 dall’economista austriaco Peter Drucker, ma è Jeremy Rifkins che ci offre una definizione precisa: “Quello dei knowledge workers è un gruppo non omogeneo unito dall’uso delle più aggiornate tecnologie informatiche per individuare, analizzare, elaborare e risolvere i problemi. Al gruppo appartengono ricercatori scientifici, progettisti, ingegneri civili, analisti di software, ricercatori biotecnologici, specialisti in pubbliche relazioni, banchieri d’affari, consulenti direzionali, fiscalisti, architetti, esperti di pianificazione strategica, specialisti di marketing, produttori cinematografici, redattori, art director, editori, scrittori e giornalisti. L’importanza della classe della conoscenza nel processo produttivo diventa sempre più grande, mentre il ruolo dei gruppi tradizionali dell’era industriale – fornitori del capitale umano e del capitale finanziario – diventa sempre meno rilevante” (Rifkins 1995).
Pur essendo figure molto diverse tra loro è possibile accomunarle in relazione a due tipologie di competenze che deve necessariamente possedere chi produce o rielabora conoscenza:
- Competenze specialistiche verticali, ossia l’insieme di conoscenze che un soggetto possiede in una specifica materia che gli consentono di individuare il problema ed elaborare possibili percorsi per addivenire alla sua soluzione.
- Competenze manageriali trasversali, ossia le capacità di utilizzare le conoscenze specialistiche per raggiungere un risultato, come ad esempio l’intuito, la capacità di riformulare il percorso al verificarsi di ulteriori problemi non calcolati nell’individuazione del risultato atteso etc. Ai knowledge workers, infatti, non vengono attribuiti dei compiti specifici da svolgere sulla base di indicazioni predefinite, ma gli vengono segnalati dei “risultati attesi” progettati di volta in volta in funzione di un obiettivo che si intende ottenere. Il lavoro per compiti è tipico del modello industriale mentre quello per risultati attesi caratterizza le aziende inserite in un contesto post-industriale di knowledge-based economy (Rullani 2004).
Conclusioni
L’università è la fonte di forza economica delle economie basate sulla conoscenza del ventunesimo secolo svolgendo un ruolo fondamentale nella realizzazione di un economia basata sulla conoscenza in qualsiasi paese. Il loro ruolo non si limita all’insegnamento e alla conduzione della ricerca scientifica ma include la commercializzazione ed il trasferimento della conoscenza in linea con la programmazione governativa per promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione per l’aumento della competitività del paese.
L’università italiana dovrebbe investire maggiormente sui knowledge workers per stare al passo di altri paesi maggiormente performanti appartenenti al “nuovo” dinamico ambiente economico e prestare maggiore attenzione alla tutela della proprietà intellettuale.
I knowlwdge workers necessitano di un ambiente favorevole per poter proficuamente operare con le giuste risorse pubbliche/private mantenendo fluide relazioni con il mercato con attenzione massima alle esigenze sociali. Probabilmente per la commercializzazione della ricerca bisognerebbe orientarci verso nuove modalità e nuovi strumenti rendendo più fluido il processo di trasferimento di conoscenza tra l’Università e il tessuto produttivo; si può sostenere che figure con competenze trasversali possano avere un ruolo centrale posizionandosi come l’anello mancante tra il mondo accademico “puro” ed i mercati.
Riferimenti bibliografici
- Castells M., End of Millennium, The Information Age: Economy, Society and Culture, Vol. III. Cambridge, MA; Oxford, UK. Blackwell, 1998.
- Castells M., Network Society: From Knowledge to Policy, 2006.CIES.
- Grazzini E., L’economia della conoscenza oltre il capitalismo, 2011. Codice Edizioni.
- Rifkin J., The end of work, 1995. Baldini&Castoldi editori.
- Rullani E., Economia della Conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, 2004 Carocci editore.
Trovo i due articoli del professor Raimondi estremaste importanti e interessanti . Ho avuto modo di ascoltare un sua conferenza presso il collegio della sapienza dell’ONAOSI e anche in quella occasione è stato illuminante e in grado di rendere fruibili concetti di economica politica a tutti i partecipanti anche a quelli di diversa formazione. Concordo che l’Occidente oggi abbia come unico “bene”disponibile per l’uscita dalla grande crisi la conoscenza e che l’università Italiana debba andare oltre l’istruzione e la ricerca diventando luogo di promozione e commercializzazione di questo particolare bene immateriale. Oramai è noto a tutti
che l’Occidente non sia in grado di competere con altri
Paesi sul piano della produzione vista l’abissale divario del costo del lavoro.
Grazie Prof spero presto di rileggerla. Avv. Roberto Pusceddu