Risoluzione di diritto del contratto e essenzialità del termine

Il legislatore, ai sensi degli artt. 1453 e ss. cc., disciplina le ipotesi di risoluzione del contratto. La ratio che sottende a tale normativa si estrinseca nella necessità, in capo ad uno dei contraenti, di liberarsi dal vincolo sinallagmatico a seguito di uno squilibrio verificatosi nella fase esecutiva del negozio giuridico. A differenza delle ipotesi di invalidità, che riguardano il momento genetico del contratto, il rimedio della risoluzione è ammesso durante la fase dinamica del rapporto giuridico.

Con particolare riferimento alla risoluzione del contratto per inadempimento, si deve distinguere il rimedio giudiziale da quello stragiudiziale.

Nel primo caso, infatti, il contraente potrà adire il giudice per ottenere, oltre all’adempimento della prestazione della controparte, lo scioglimento del rapporto sinallagmatico, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. Il contraente adempiente, in tal caso, è tenuto ad allegare il titolo da cui è sorta l’obbligazione e l’inadempimento della controparte. La sentenza, pertanto, avrà natura costitutiva[1].

Il legislatore, inoltre, eleva a necessario requisito del rimedio della risoluzione, la non scarsa importanza dell’inadempimento della controparte, al fine di circoscrivere lo scioglimento ad ipotesi gravi. Tale requisito -che per parte delle dottrina è di tipo oggettivo, mentre per altra di tipo soggettivo- deve essere valutato in concreto dal giudice del merito, tenuto in considerazione degli interessi sottesi. La giurisprudenza prevalente applica un criterio misto che combina sia i profili oggettivi che soggettivi.

Sulla gravità dell’inadempimento è sorta un’ulteriore questione che attiene alla collocazione sistematica della disposizione di cui all’art. 1455 cc.. Dottrina autorevole sostiene, infatti, che tale norma, collocata in successione agli artt. 1453 e 1454 cc., riguardi solamente le ipotesi di risoluzione giudiziale e di risoluzione stragiudiziale a seguito di diffida ad adempiere, non essendo rilevante la caratteristica della non scarsa importanza negli ulteriori casi a seguito di clausola risolutiva espressa e termine essenziale. Altra parte della dottrina, tuttavia, afferma che, nonostante la particolare sistematica del codice civile sul punto, la necessaria gravità dell’inadempimento attenga a tutte le ipotesi di risoluzione, in considerazione del fatto che, per le ipotesi di cui agli artt. 1456 e 1457 cc., la gravità dell’inadempimento sarebbe implicita, in quanto preventivamente considerata dai contraenti.

Le ipotesi di risoluzione di diritto.

È d’uopo, a questo punto, soffermarsi brevemente sulla risoluzione stragiudiziale che, come già accennato, riguarda le tre ipotesi di diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa e termine essenziale. In tali ipotesi lo scioglimento del rapporto negoziale si verificherà automaticamente, ossia a prescindere da una pronuncia del giudice, il quale, se adito, potrà al più emettere una sentenza dichiarativa.

La diffida ex art. 1454 cc. è una dichiarazione effettuata dalla parte adempiente nei confronti dell’altro contraente, con la quale la prima concede un congruo termine per adempiere, decorso il quale il contratto si intende risoluto di diritto[2].

La clausola risolutiva espressa, inoltre, è il rimedio che maggiormente esprime l’autonomia negoziale delle parti, poiché si estrinseca in una pattuizione inserita nel contratto, che conduce, in virtù delle modalità previste, alla risoluzione di diritto[3]. Per tale motivo, l’opinione dottrinale prevalente considera la non scarsa importanza dell’inadempimento come implicitamente determinata dai paciscenti e non -come sostenuto da altra corrente dottrinale- come inesistente.

Ai sensi dell’art. 1457 cc., infine, è prevista la disciplina della risoluzione stragiudiziale a seguito del decorso del termine essenziale per una delle parti.

La risoluzione di diritto ex art. 1457 cc.

Sul concetto di essenzialità del termine si sono fronteggiate, nel tempo, due tesi. La prima, oggettiva, per la quale il contratto sarebbe automaticamente sciolto in virtù in un dato fattuale obbiettivo attinente alla concreta utilità della prestazione da parte del contraente interessato. La seconda, soggettiva, rispecchia maggiormente il generale principio dell’autonomia contrattuale, per cui l’essenzialità risulterebbe ogniqualvolta vi sia un interesse personale all’adempimento della prestazione.

Secondo parte della dottrina, la norma di cui all’art. 1455 cc. non sarebbe nemmeno riferibile alla disciplina del termine essenziale, poiché la non scarsa importanza dell’inadempimento sarebbe insita nel concetto stesso di essenzialità, in senso oggettivo o soggettivo.

Un’ulteriore questione su cui si sono concentrate dottrina e giurisprudenza è quella inerente al momento esatto in cui debba intendersi risolto il contratto. La lettera della norma, infatti, è dubbia, poiché la parte nel cui interesse il termine è ritenuto essenziale, qualora esigesse la prestazione nonostante la scadenza del termine, ne dovrebbe dare notizia all’altra parte entro tre giorni. È opportuno individuare il momento esatto di risoluzione del contratto, poiché da quell’istante decorre la prescrizione.

Secondo una prima tesi il contratto si intende risoluto nel momento in cui spira il termine essenziale e l’eventuale richiesta di adempimento del creditore fa rivivere il negozio già estinto. La dottrina più attenta, tuttavia, critica tale impostazione, poiché si creerebbe, in capo al debitore, una situazione eccessivamente gravosa. Quest’ultimo, infatti, nonostante l’avvenuta risoluzione del contratto, rimarrebbe, anche se per un periodo di tempo limitato, vincolato ad esso senza che tale soggezione sia normativamente espressa.

Per un diverso orientamento dottrinale, invece, la risoluzione stragiudiziale sarebbe l’effetto della tacita manifestazione di volontà del creditore decorsi i tre giorni successivi alla scadenza del termine essenziale. In tal caso, pertanto, il silenzio serbato dalla parte interessata sarebbe elemento costitutivo della fattispecie risolutiva.

Si rammenti, infine, che, secondo l’orientamento prevalente, il creditore ha la facoltà di rinunciare al termine essenziale anche dopo la sua scadenza e successivamente ai tre giorni di cui all’art. 1457 cc.[4]. Inoltre, si sostiene, tale rinuncia è ammessa, anche in forma implicita, in virtù del generale principio di conservazione del contratto, poiché si ritiene che, talune volte, per il creditore sia preferibile un adempimento tardivo della prestazione che non lo scioglimento definitivo del vincolo negoziale.

Il sindacato sull’essenzialità del termine.

Per giurisprudenza pressoché unanime l’indagine sulla essenzialità del termine deve necessariamente essere effettuata dal giudice del merito, rimanendo insindacabile in sede di legittimità[5]. L’analisi, pertanto, deve concentrarsi sulla volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine. Tale operazione ermeneutica deve essere condotta attraverso le espressioni adoperate dai contraenti, nonché attraverso la natura e l’oggetto del contratto, al fine di comprendere l’inequivocabile volontà dei paciscenti di ritenere perduta l’utilità economica dell’affare con l’inutile decorso del termine stesso. Anche di recente la Suprema Corte ha affermato che:

Il termine per l’adempimento può essere ritenuto essenziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1456 c.c. solo quando, all’esito dell’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo; tale volontà non può desumersi solo dall’uso dell’espressione <<entro e non oltre>> quando non risulti dall’oggetto del negozio o da specifica indicazione delle parti che queste hanno inteso considerare perduta l’utilità prefissasi nel caso di conclusione del negozio stesso oltre la data considerata[6].


[1]             Caringella-Buffoni, Manuale di diritto civile, 2016, p. 1017

[2]             Caringella-Buffoni, Manuale di diritto civile, op. cit., p. 1022

[3]             Caringella-Buffoni, Manuale di diritto civile, op. cit., p. 1025

[4]             ex multis Cassazione Civile, 5 luglio 2013, n. 16880

[5]             ex multis Cassazione Civile, 18 marzo 1999, n. 2491

[6]             Cassazione Civile, Sez. II, 16 luglio 2018, n. 18835

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