Rinunzia alla proprietà: natura ed effetti

in Giuricivile, 2018, 10 (ISSN 2532-201X)

Nel silenzio del codice civile, la disciplina della rinunzia è stata oggetto di una lunga elaborazione dottrinale, secondo cui si tratta di un negozio giuridico unilaterale mediante il quale l’autore dismette una situazione giuridica di cui è titolare.

Qualora infatti la rinunzia fosse inserita nel contesto di un contratto sinallagmatico troverebbe una giustificazione causale nella controprestazione e di conseguenza non potrebbe considerarsi autentica rinunzia, ma piuttosto un negozio dispositivo-traslativo.

Come autorevolmente sostenuto[1] si tratta di un negozio essenzialmente abdicativo “che non ha in nessun caso altra conseguenza che l’estinzione del rapporto, per uscita dal medesimo del soggetto attivo”.

Occorre però precisare che l’estinzione del rapporto non comporta necessariamente anche l’estinzione del diritto.

La ragion pratica della rinunzia è la mera dismissione del diritto dalla propria sfera giuridica, essendo poi l’estinzione dello stesso solo eventuale; in taluni casi, anzi, il diritto oggetto della rinunzia viene acquistato da altri soggetti.

Si tratta di ulteriori effetti non direttamente connessi all’intento negoziale ovvero al contenuto causale dell’atto, conseguenze riflesse e indirette dello stesso.

Ad ogni modo, pur volendo dare una forma contrattuale alla rinunzia, è stato sostenuto che la dichiarazione del beneficiario indiretto nulla aggiungerebbe alla fattispecie, in quanto l’effetto a lui favorevole si produrrebbe comunque ipso iure, a prescindere dalla sua volontà, ponendosi piuttosto in contrasto col principio di economia dei mezzi giuridici.

In virtù del solo effetto meramente abdicativo del negozio, lo stesso rientra nella categoria dei c.d. negozi neutri, poiché né onerosi né gratuiti.

La rinunzia alla proprietà

Per quanto concerne nello specifico la rinunzia al diritto di proprietà, la stessa è pacificamente ammessa in dottrina e in giurisprudenza.

Si ritiene infatti che proprio i diritti assoluti, caratterizzati dal generico dovere di astensione in capo alla generalità dei consociati e dall’assenza di un soggetto passivo del rapporto, consentono la piena esplicazione dell’effetto abdicativo.

Un ulteriore elemento a favore della rinunciabilità della proprietà è dato proprio dalla sua natura di diritto disponibile; per l’ordinamento è infatti indifferente se esso permanga o meno nella sfera del titolare.

Nondimeno, ove al diritto fosse sotteso un interesse di rilevanza generale, come accade per i diritti indisponibili, lo stesso sarebbe irrinunciabile, in quanto per la concreta realizzazione del suddetto interesse è necessaria la permanenza nella sfera del titolare[2].

Si può dunque affermare che la rinunciabilità costituisce una delle facolotà dello ius utendi et abutendi che contraddistingue la proprietà.

Altresì lo stesso codice civile individua delle fattispecie di rinunzia alla proprietà, tra cui l’art. 882 (riparazioni del muro comune) ovvero l’art. 1104 (spese della comunione), sia pure nell’ambito di più ampi effetti.

Tuttavia, ciò non nega la rinunciabilità del diritto di proprietà, anzi, si pensi ancora ai beni mobili, dei quali il titolare può senz’altro disfarsi lasciandoli in luogo aperto al pubblico di modo che, divenendo res nullius, sia configurabile l’acquisto a titolo originario tramite occupazione.

In assenza di uno specifico divieto lo stesso discorso non può che valere in tema di beni immobili, di cui si trova conferma testuale ai sensi del combinato disposto degli artt. 1350 e 2643 c.c., secondo cui debbano farsi per iscritto ed essere trascritti “gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti”, tra cui vi è proprio il diritto di proprietà.

Ciò posto, si deduce come in realtà la rinunzia al diritto di proprietà sia dato positivo ricavabile da una lettura sistematica del codice civile.

Natura ed effetti della rinunzia alla proprietà su beni immobili

Ai sensi dell’art. 827 c.c. i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato.

La ratio della disposizione è legata alla rilevanza che l’ordinamento riconosce alla proprietà immobiliare, per la quale non ammette che possa rimanere priva di un soggetto titolare, e a ragioni di ordine pubblico; ciò spiega anche il fenomeno della successione mortis causa e segnatamente della devoluzione dell’eredità in capo allo Stato in assenza di successibili.

Pertanto, con la rinunzia abdicativa da parte dell’unico proprietario di un bene, la proprietà dello stesso viene acquistata a titolo originario dallo Stato.

Relativamente alla natura dell’atto, esso è certamente unilaterale, in quanto finalizzato alla mera dismissione del diritto, mentre il contestuale acquisto in capo allo Stato ne è solo la conseguenza riflessa prevista dalla legge.

La natura abdicativa e non traslativa della rinunzia esclude la necessità di un’accettazione, né la previsione ex lege di un beneficiario del diritto può renderla essenziale, in quanto l’acquisto è imposto dalla legge per evitare che i beni immobili siano res nullius ed è a titolo originario, non derivativo.

Per le stesse ragioni la dottrina prevalente e la giurisprudenza ritengono che l’atto in questione non sia recettizio, poiché gli effetti tipici del negozio si esauriscono nella sfera del dichiarante e pertanto non è necessaria per la loro realizzazione alcuna comunicazione a terzi.

Tuttavia non sono mancate sul punto voci discordi; in particolare secondo alcuni autori il carattere recettizio della rinunzia andrebbe accertato volta per volta in base al caso concreto.

Si osserva che nel caso di rinunzia alla quota di comproprietà ai sensi dell’art. 1104 c.c., c.d. rinunzia liberatoria, l’atto debba essere portato a conoscenza degli altri comproprietari.

Occorre però sottolineare che in tale fattispecie la recettizietà è dovuta non alla rinunzia piuttosto all’effetto ulteriore della liberazione dall’obbligazione di pagamento delle spese anche anteriori.

A favore della tesi della recettizietà dell’atto sarebbe secondo alcuni autori la disciplina della trascrizione della rinunzia della proprietà, espressamente prevista ai sensi dell’art. 2643, n. 5, c.c.

Il richiamo agli effetti di cui all’art. 2644 c.c. lascerebbe intendere una fattispecie affine ad un acquisto a titolo derivativo, non potendosi oltretutto ignorare che l’oblato è in realtà individuato dalla legge nello Stato.

Il risultato pratico dell’operazione sarebbe il medesimo, perché il soggetto che rinunzia è come se rinunziasse a favore dello Stato stesso.

In virtù della tesi cui si aderisce, la trascrizione deve avvenire o contro il rinunciante e a favore dello Stato o solo a favore dello Stato.

Nota prot. n. 137950 del 14 marzo 2018 dell’Avvocatura Generale dello Stato

Il punto di svolta sul tormentato dibattito in tema di rinuncia alla proprietà e precipuamente sulla natura recettizia o meno della rinunzia abdicativa della proprietà è arrivata con la nota (prot. n. 137950 del 14 marzo 2018) dell’Avvocatura Generale dello Stato, la quale ha creato non poco scalpore tra i tecnici del diritto.

Con detta nota, poi richiamata da una nota del Ministero della Giustizia (Ufficio centrale archivi notarili), l’Avvocatura generale dello Stato osserva che seppure ai sensi dell’art. 827 c.c. il bene della cui proprietà sia stata dismessa dal titolare con rinuncia abdicativa viene acquisito ope legis nella proprietà del Demanio, tale trasferimento non è da considerarsi tout court valido.

Si osserva che talvolta per il privato la proprietà immobiliare rappresenta piuttosto un intralcio e un problema che un investimento, al punto da ritenere preferibile disfarsene, stante anche la difficoltà di collocarlo sul mercato.

Basti pensare ad un immobile fatiscente e pericolante, che richiede ingenti somme per essere restaurato.

La rinuncia caratterizzata da simili intenti non può che ritenersi immeritevole di tutela (ex art. 1322 c.c.), finanche con causa illecita (ex art. 1343 c.c.), poiché i suoi effetti possono rivelarsi pregiudizievoli ed eccessivamente onerosi per l’economia pubblica.

Ancora, l’Avvocatura arriva ad ipotizzare un atto in frode alla legge (art. 1344 c.c.), perché finalizzato al conseguimento di un risultato in contrasto con i principi dell’ordinamento e stipulato in violazione del divieto dell’abuso del diritto quando la rinuncia sia attuata “al solo fine (utilitaristico ed egoistico) di trasferire in capo alla collettività gli oneri connessi alla titolarità del bene e la relativa responsabilità per gli eventuali futuri danni“.

Pertanto, anche ove si volesse aderire alla diffusa tesi della natura non recettizia della rinuncia abdicativa, la comunicazione della rinuncia sarebbe comunque necessaria in quanto fondata sul canone della buona fede in senso oggettivo, che si estende ai sensi dell’art. 1324 c.c. anche ai negozi unilaterali e che ricomprende il dovere di avviso e di informazione e il dovere di salvaguardare l’interesse dell’altra parte.

Occorre rilevare che seppure, come taluno giustamente osserva, nel caso di specie manca un rapporto obbligatorio contrattuale che giustifichi il richiamo in questa sede della buona fede in senso oggettivo, è innegabile che il principio di buona fede informa completamente il negozio giuridico dalla conclusione fino alla esecuzione stessa.

La buona fede infatti esprime il principio di solidarietà contrattuale che implica sia la lealtà, sia la salvaguardia dell’interesse della controparte; dunque la buona fede impone alla parte di comportarsi lealmente e di attivarsi per salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti di un apprezzabile sacrificio.

Per concludere proprio in virtù di tale principio l’Avvocatura generale dello Stato deduce la necessità che il rinunciante renda edotto lo Stato dell’atto di rinunzia e degli effetti nei suoi confronti.


[1] SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2012, p. 218.

[2] Così osservato da Bozzi, Rinunzia (diritto pubblico e privato), in Noviss.Dig. it., XV, Torino, 1968, pp. 1149 ss.

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