Responsabilità medica: questioni di diritto intertemporale e fatti ante Legge Gelli Bianco

in Giuricivile, 2018, 5 (ISSN 2532-201X), nota a Trib. Avellino, sez. II civ., 12/10/2017 n. 1806, Est. Dott.ssa Rizzi

La materia della responsabilità medico-sanitaria è stata completamente rinnovata dalla Legge n. 24 del 08.03.2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco), ma, nonostante sia decorso circa un anno dalla sua entrata in vigore, gli aspetti principali della riforma non sono stati ancora studiati a fondo dalla scienza giuridica, né, per ovvie ragioni legate alla durata dei processi, dalla giurisprudenza.

La giurisprudenza civile, sotto questo aspetto, sta mostrando un certo ritardo rispetto a quella penale, soprattutto di legittimità, nella quale già ad ottobre del 2017 si riscontrava un contrasto giurisprudenziale, in merito alla portata del nuovo art. 590-sexies c.p., risolto dalle Sezioni Unite del dicembre 2017[1].

La pronuncia in commento è una delle prime ad aver ad oggetto i profili sostanziali riguardanti la natura e il regime della responsabilità medico-sanitaria dopo la riforma del 2017. Essa affronta il tema della natura giuridica della responsabilità della struttura sanitaria e del medico da un punto di vista particolare, ovvero quello del diritto inter-temporale, fornendo una soluzione in linea con i principi generali dell’ordinamento giuridico e, per ciò, apprezzabile.

In estrema sintesi, è opportuno premettere che la legge Gelli-Bianco presenta profili di innovatività in ordine alla natura della responsabilità del personale sanitario, ma, per quanto concerne quella della struttura sanitaria si allinea alla precedente giurisprudenza di legittimità. Quest’ultima, infatti, continua ad essere un responsabilità contrattuale o, più correttamente, da inadempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto atipico di spedalità ex artt. 1218 e 1228 c.c., in ossequio al dictum della giurisprudenza di legittimità fino a Cass, SS.UU. n.577/2008.

Dunque la fonte delle obbligazioni gravanti sulla struttura è il contatto sociale qualificato con il paziente.

La teoria del contatto sociale qualificato è stata, invece, abbandonata dal legislatore del 2017 per quanto concerne la posizione del medico o degli altri “esercenti la professione sanitaria”, in favore di una responsabilità aquiliana tesa ad alleggerire l’onere probatorio del medico e a rendere più breve il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno (da dieci a cinque anni).

Leggi anche: Risarcimento per responsabilità medica: determinazione del quantum alla luce della Legge Gelli Bianco

I profili sostanziali della responsabilità medica: evoluzione e apparente fenomeno successorio.

In tale contesto s’inserisce la pronuncia in commento.

È evidente, infatti, che, almeno per quanto concerne la posizione del medico persona fisica, la legge Gelli-Bianco ha determinato un peculiare quanto anomalo fenomeno successorio: non una successione di leggi nel tempo, bensì una successione tra una disciplina sostanziale formatasi per via giurisprudenziale e una legge posteriore sopravvenuta.

Non può negarsi che, nel corso degli anni, la giurisprudenza abbia creato un vero e proprio statuto speciale della responsabilità medica, attraverso il ricorso alla teoria germanistica del contatto sociale qualificato, nel tentativo di armonizzare le regole di responsabilità valevoli per la struttura sanitaria e per l’esercente la professione sanitaria. La contrarietà della giurisprudenza rispetto alla creazione di un doppio binario era giustificato, condivisibilmente, dalla necessità di evitare pronunciamenti contraddittori e di tutelare il paziente-danneggiato attraverso un’equa distribuzione dei carichi probatori. La stessa Legge Balduzzi del 2012, con il noto inciso “fermo restando la responsabilità ex art.2043 c.c.”, è stata interpretata dalla giurisprudenza unanime come non in grado, per il contesto in cui l’inciso era collocato, di determinare una riqualificazione della responsabilità medica in chiave aquiliana.

Per questa ed altre ragioni, la giurisprudenza di legittimità, a partire da Cass. n. 13533 del 2001 fino alle SS.UU. n. 577/2008 e successive pronunce, ha ribadito il principio secondo cui il paziente danneggiato ha l’onere di provare il contatto sociale, cioè la fonte delle obbligazioni, l’inadempimento qualificato, ossia la condotta omissiva o commissiva specifica che si contesta al sanitario, e il nesso di causalità tra inadempimento e c.d. danno evento[2].

In effetti, vale la pena di precisare che al danneggiato compete un ulteriore onere probatorio, quasi scontato, che è quello del nesso eziologico, accertabile secondo il noto criterio della c.d. causalità adeguata, tra danno evento e danno conseguenza, quali sono tipicamente i danni non patrimoniali (es. danno da perdita parentale, danno socio-relazionale ecc.). Tuttavia, l’onere probatorio del nesso di causa tra danno evento e danno conseguenza può dirsi un onere attenuato dalla possibilità di avvalersi delle presunzioni. Stante l’impossibilità di fornire la prova oggettiva di alcune voci di danno conseguenza, esse possono essere provate mediante un procedimento logico che dal fatto noto consente di risalire al fatto ignoto, ovvero la presunzione, secondo canoni di credibilità razionale e verosimiglianza.

In quest’ottica, la struttura sanitaria e il medico convenuti in giudizio possono liberarsi da responsabilità attraverso tre differenti percorsi processuali:

  • (i) provando che non vi è stato alcun inadempimento;
  • (ii) se vi è stato un inadempimento, provando l’impossibilità oggettiva dell’adempimento, ovvero l’assenza del nesso di causalità tra condotta e danno evento;
  • (iii) se vi è stato inadempimento, provando l’impossibilità soggettiva dell’adempimento, ovvero l’assenza di colpa per imprevedibilità o inevitabilità del danno evento.

Il regime giuridico sopra descritto è stato completamente stravolto dalla legge Gelli-Bianco, la quale, in controtendenza rispetto alla giurisprudenza, ha inteso creare un doppio binario qualificando espressamente la responsabilità del medico come aquiliana ex art. 2043 c.c.

A questo punto può notarsi già la prima anomalia: contrariamente alla tradizione del nostro ordinamento giuridico, è il legislatore stesso che qualifica la natura giuridica della responsabilità del medico. Si tratta di una tecnica legislativa singolare, che si pone in rapporto di discontinuità con quella propria del codice civile del 1942. Solitamente, infatti, la legge fissa le regole dell’uno e dell’altro tipo di responsabilità civile, ma il compito di qualificare una certa fattispecie concreta come aquiliana o “da inadempimento di obbligazioni” spetta al giudice e/o alla scienza giuridica.

Nel caso della responsabilità medica, tale qualificazione viene operata dallo stesso legislatore. Per far comprendere la portata della scelta del legislatore del 2017 è sufficiente sfogliare la Relazione di accompagnamento al codice civile del 1942, nella quale si decideva, all’art. 1321 c.c., di disciplinare e definire soltanto il contratto e non il negozio giuridico, proprio perché la qualificazione del contratto all’interno della categoria dogmatica del negozio giuridico era compito più confacente alla giurisprudenza o alla dottrina e non certo al legislatore.

Ciò detto, tralasciando le considerazioni in merito all’opportunità della riqualificazione in chiave aquiliana della responsabilità del medico, il dato di fatto che si realizza un fenomeno successorio singolare alla cui stregua ad una disciplina sostanzialmente giurisprudenziale sopravviene una disciplina normativa innovativa.

La sentenza del Tribunale di Avellino in commento affronta ed approfondisce il tema del regime giuridico applicabile alla responsabilità del medico per fatti posti in essere antecedentemente all’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 (c.d. Gelli-Bianco) ma pendenti in giudizio successivamente ad essa.

La questione, tipicamente di diritto intertemporale, non è scontata come potrebbe apparire. La legge Gelli – Bianco non contiene una disciplina transitoria e, d’altronde, non poteva contenerla, atteso che, prima di essa, vi era soltanto la Legge Balduzzi la cui portata, tuttavia, è stata dequotata dalla giurisprudenza di legittimità.

Il fatto stesso che il Tribunale abbia dovuto pronunciarsi sulla questione indica che essa fosse controversa in sede processuale.

Le prospettive possibili sono essenzialmente due.

Se si ritiene che non possa configurarsi alcun fenomeno successorio tra un orientamento giurisprudenziale e una legge sopravvenuta, l’unica via per affermarne l’applicabilità retroattiva, anche ai fatti posti in essere prima dell’entrata in vigore della legge Gelli Bianco, è intendere l’art. 7 della medesima legge come una norma di interpretazione autentica dell’art. 2043 c.c.

L’art. 7, l. n. 24 del 2017, qualificando la responsabilità del medico come aquiliana, può essere, un po’ forzatamente, inteso come norma di interpretazione autentica che ridefinisce il perimetro di applicazione dell’art. 2043 c.c., chiarendo che esso comprende anche la responsabilità del medico persona fisica.

La tesi non convince.

Anzitutto, pur individuando nell’art. 2043 c.c. la norma oggetto dell’interpretazione autentica del legislatore della riforma, si finisce per azzerare l’innovatività dell’art. 7, l. n. 24/2017 in contrasto con quanto emerge dai lavori preparatori e dalla stessa ratio legis.

Ciò in quanto, inevitabilmente, la norma d’interpretazione autentica, pur essendo connotata dai tre requisiti tipici dell’atto normativo, ossia astrattezza, generalità ed innovatività, si caratterizza per una innovatività particolare data dalla sua retroattività. La norma di interpretazione autentica, in altri termini, non innova l’ordinamento, ma fornisce le indicazioni dello stesso legislatore su come va interpretata una norma precedentemente emanata e, per ciò, ha effetto retroattivo, salvo eccezioni.

Le principali argomentazioni a sostegno della impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina sostanziale sopravvenuta sono espresse chiaramente dal Giudice di primo grado di Avellino e possono essere sintetizzate nei seguenti termini.

Il Tribunale, pur riconoscendo che la riforma riconduce la responsabilità del sanitario nel perimetro di quella aquiliana, osserva che deve darsi prevalenza al principio generale dettato dall’art. 11 delle c.d. preleggi. Il principio di irretroattività della legge, per quanto non previsto in costituzione e certamente derogabile dal legislatore, trova un limite invalicabile nel rispetto “dei principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche, nonché al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, anche se finalizzato alla necessità di ridurre il contenzioso o di contenimento della spesa pubblica o a far fronte ad evenienze eccezionali[3].

La legge sopravvenuta che preveda un differente regime giuridico della responsabilità non può trovare applicazione retroattiva anche tenendo conto delle conseguenze illogiche che ne deriverebbero sulle situazioni pregresse e ancora non esaurite. Si pensi al tempo necessario per la prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Si arriverebbe all’assurda conseguenza per cui il termine di prescrizione più breve quinquennale, tipico della responsabilità aquiliana, sarebbe applicato retroattivamente a rapporti per i quali, prima della legge 24/2017, la giurisprudenza applicava un termine di prescrizione decennale, tipico della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. Di tal ché, il danneggiato che confidava incolpevolmente e legittimamente sulla prescrizione decennale potrebbe vedere prescritto il proprio diritto al risarcimento del danno per effetto dell’applicazione retroattiva della lex posterior.

Secondo il Tribunale, dunque, “l’applicazione della Legge Gelli a fatti già verificatisi al momento della sua entrata in vigore inciderebbe negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione, ledendo, così, ingiustificatamente il legittimo affidamento dei consociati in ordine al regime contrattuale della responsabilità del medico”.

Pertanto, i fatti verificatisi ante Legge Gelli rimangono assoggettati al regime giuridico proprio della responsabilità da inadempimento ex artt. 1218 e 1228 c.c.

La tesi del Giudice di Avellino è condivisibile e ben argomentata. Tuttavia, è evidente che il Tribunale non considera rilevante il fatto che il fenomeno successorio abbia ad oggetto un orientamento giurisprudenziale, da un lato, e una legge sopravvenuta, dall’altro.

Si tratta di un dettaglio che può suscitare delle perplessità se si pensa a fattispecie successorie analoghe (orientamento giurisprudenziale/legge sopravvenuta con disciplina differente) nelle quali la giurisprudenza ha fatto ricorso all’art. 252 delle disposizioni attuative del codice civile[4].

Tale norma fissa, secondo la diffusa giurisprudenza, un principio generale per cui al succedersi di due discipline con termini di prescrizione differenti, per i diritti sorti anteriormente alla nuova disciplina il termine più breve previsto dalla legge sopravvenuta decorre dall’entrata in vigore della lex posterior. Caso emblematico in cui la giurisprudenza ha fatto applicazione di tale disposizione è quello della decorrenza dei termini per richiedere l’indennizzo e il risarcimento dei danni da emotrasfusioni infette avvenute prima dell’entrata in vigore della legge 210/92[5].

Seguendo l’impostazione che fa leva sul principio dettato dall’art. 252 disp. att. C.c. potrebbe, in linea teorica, sostenersi, per i fatti di malasanità avvenuti prima dell’entrata in vigore della Legge Gelli, quanto meno la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione tipico della responsabilità aquiliana dal momento dell’entrata in vigore della riforma.

La tesi appena esposta, tuttavia, merita di essere disattesa. La ragione principale per cui essa non può trovare valido riconoscimento risiede nel fatto che il regime giuridico della responsabilità aquiliana non si esaurisce nel più breve termine di prescrizione.

E’ evidente che, in tal caso, debba valere la regola del c.d. all or nothing. Il regime giuridico della responsabilità aquiliana andrebbe applicato retroattivamente tout court, comprese le regole di distribuzione dei carichi probatori, molto più gravose per il danneggiato. Ed allora ciò costituirebbe comunque una lesione del legittimo affidamento di coloro che siano stati danneggiati per un fatto di malpratice medica anteriormente alla Legge Gelli.

Pertanto, è apprezzabile l’importante chiarimento fornito dal Giudice di Avellino non soltanto nel dictum quanto soprattutto nelle valide e puntuali motivazioni portate a supporto del primo.

I profili processuali: il nuovo rito e il principio “tempus regit actum

Sul piano del processo, la Legge Gelli Bianco, in estrema sintesi, ha previsto una fase preliminare di a.t.p. ex art. 696-bis c.p.c., seguita da un successivo procedimento sommario di cognizione introdotto ex art. 702-bis c.p.c.

Sebbene la legge si sia limitata a validare una prassi già solcata nei Tribunale della Repubblica, i primi procedimenti di accertamento tecnico preventivo che stanno per concludersi con il deposito degli elaborati peritali d’ufficio hanno già fatto emergere una molteplicità di problematiche, tra cui anche quella di diritto intertemporale.

Premessa fondamentale è che l’ a.t.p. si pone come alternativo al procedimento di mediazione e rappresenta condizione di procedibilità per avviare la successiva fase propriamente giudiziale.

Il problema di diritto intertemporale si è posto per quanto concerne i fatti di malpractice sanitaria per i quali la mediazione era stata già esperita prima dell’entrata in vigore della Legge Gelli. Di conseguenza, dopo la riforma, ci si è chiesti se fosse più corretto avviare direttamente la fase giudiziale con le forme dell’art. 702-bis c.p.c. e ss. o con citazione ordinaria, ovvero se si dovesse dare applicazione al rito previsto dalla novella.

Sul punto, premettendo che non vi sono ancora precedenti in tema, si ritiene debba valere il principio generale secondo cui in caso di successioni di norme processuali trova applicazione il principio “tempus regit actum”. Secondo tale principio, il processo deve essere introdotto e condotto seguendo le regole processuali vigenti al momento del compimento dell’atto. Di tal ché, nel caso sopra descritto, sarebbe più corretto depositare comunque ricorso per a.t.p. ex art. 696-bis c.p.c. e successivamente introdurre il giudizio sommario di cognizione.

A favore della suddetta tesi milita, inoltre, un argomento decisivo. Il rito sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c., che ricordiamo essere un rito a cognizione piena ma ad istruzione semplificata, è congegnato in modo che nello stesso il giudice acquisisca la C.T.U. espletata in fase di istruzione preventiva (A.T.P.) e non ne disponga, auspicabilmente, la rinnovazione ex novo. E’ evidente che, a fronte di una C.T.U. favorevole al danneggiato, ciò costituisca un importante velocizzazione dei tempi della giustizia, oltre che una forte spinta per le assicurazioni e per i soggetti resistenti a concludere la lite in via transattiva.

Di conseguenza, anche laddove la mediazione fosse già stata espletata, parrebbe illogico introdurre un giudizio ex artt.702-bis c.p.c. senza aver prima svolto l’a.t.p., già soltanto perché, nel migliore dei casi, il giudice disporrà la conversione del rito in rito ordinario.

Questioni processuali aperte o apparentemente chiuse: il termine perentorio di sei mesi per la conclusione dell’a.t.p.

Infine, merita un cenno l’annoso problema del termine di sei mesi per la conclusione dell’a.t.p. ex art. 696-bis c.p.c. previsto dall’art. 8 della Legge Gelli-Bianco[6].

La norma prevede espressamente che il deposito della C.T.U. deve avvenire nel termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso per a.t.p. ex art. 696-bis c.p.c., altrimenti la condizione di procedibilità deve considerarsi avverata.

La previsione pone una molteplicità di problemi processuali sui quali la giurisprudenza sarà costretta a prendere posizione.

Il problema principale, per adesso, è che, come ampiamente sperimentato in molti Tribunali della Repubblica, il carico di contenzioso esistente rende impossibile concludere l’a.t.p. con deposito della C.T.U. nel termine di sei mesi.

Tale problema, tuttavia, pare essere già stato risolto, per così dire, in via pretoria.

La Sez. XIII del Tribunale di Roma, per esempio, ha già fatto intendere, nei primi processi incardinati subito dopo l’entrata in vigore della Legge Gelli, che la natura perentoria del termine di sei mesi per la conclusione dell’a.t.p. è stata ampiamente degradata ad ordinatoria attesa l’assenza, nella disposizione citata, di una sanzione per il giudice che non lo rispetti e/o di una conseguenza sul piano processuale.

Tutto vero. Il legislatore ha previsto un termine perentorio per il giudice dimenticando però di prevedere cosa accade se il giudice non lo rispetta.

Tutto logico. Se non fosse, purtroppo, che le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine perentorio semestrale da parte del giudice ricadano tutte sul danneggiato ricorrente e sul suo difensore, il quale si trova a dovere necessariamente depositare il successivo ricorso ex art. 702-bis c.p.c. entro tre mesi dalla scadenza dei suddetti sei mesi dal deposito del ricorso per a.t.p., “al fine di far salvi gli effetti della domanda”, senza che sia stata ancora depositata la C.T.U.

Si tratta di uno dei molteplici problemi processuali posti dalla Legge Gelli Bianco, di cui, tuttavia, si avrà modo di fornire ulteriori approfondimenti e riflessioni in altra sede.


[1] Si veda, per eventuali approfondimenti: C. Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ dell’imperizia medica (ancora) punibile, nota a Cass., SSUU, sent. 21 dicembre 2017 (dep. 22 febbraio 20189, n. 8770, Pres. Canzio, Rel. Vessichelli, in Dir. pen. cont., 01/03/2018

[2] Si vedano, ex multis: Trib. Milano Sez. I Sent., 02/03/2018; Trib. Catania, Sez. V, 24/01/2018; Cass., Sez. III, 13/10/2017, n. 24073; Cass., Sez. III, 07/12/2017, n. 29315.

[3] In senso conforme: Cass, sez. VI, 19.12.2014, n. 27121.

[4] Così dispone l’art. 252, disp. att. C.c.:

Quando per l’esercizio di un diritto ovvero per la prescrizione o per l’usucapione il codice stabilisce un termine più breve di quello stabilito dalle leggi anteriori, il nuovo termine si applica anche all’esercizio dei diritti sorti anteriormente e alle prescrizioni e usucapioni in corso, ma il nuovo termine decorre dall’1 luglio 1939 se esso è stabilito dal I libro del codice, dal 21 aprile 1940 se è stabilito dal II libro, dal 28 ottobre 1941 se è stabilito dal III libro e dall’entrata in vigore del codice stesso se è stabilito dagli altri libri, purché, a norma della legge precedente, non rimanga a decorrere un termine minore.

La stessa disposizione si applica in ogni altro caso in cui l’acquisto di un diritto è subordinato al decorso di un termine più breve di quello stabilito dalle leggi anteriori.”

[5] Si veda, ex multis: Cass., SS.UU., 22 luglio 2015, n.15352.

[6] Art. 8 – Tentativo obbligatorio di conciliazione

  1. Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente.
  1. La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. E’ fatta salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 . In tali casi non trova invece applicazione l’articolo 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge10 novembre 2014, n. 162. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento.
  1. Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile.
  2. La partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui al presente articolo, effettuato secondo il disposto dell’articolo 15 della presente legge, è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all’articolo 10, che hanno l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla. In caso di sentenza a favore del danneggiato, quando l’impresa di assicurazione non ha formulato l’offerta di risarcimento nell’ambito del procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui ai commi precedenti, il giudice trasmette copia della sentenza all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza. In caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione.

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