La reputazione digitale dei minori nell’era di internet: risvolti giurisprudenziali

in Giuricivile, 2020, 9 (ISSN 2532-201X)

di Marialuciana Di Santi e Giulia Pavan – «Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione», così recita il primo comma dell’Art. 16 della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo (1989)[1].  Si tratta di concetti basilari, ribaditi anche dalla nostra Costituzione all’Articolo 31[2], ma che di fatto trovano sempre più difficile protezione, soprattutto nella cornice odierna: la c.d. generazione digitale si è sviluppata in un contesto in cui la tecnologia pare essere diventata non solo un supporto ma addirittura un mezzo, una necessità, attraverso cui si manifesta il bisogno di esprimerci, comunicare, intrattenerci ed, in definitiva, di evitare la solitudine. Si fa riferimento a strumenti diventati indispensabili, come i social, che hanno consentito lo sviluppo di «uno spazio sociale ibrido […] che permette di far entrare il digitale nel nostro mondo fisico e viceversa»[3] con le relative conseguenze che possono avere un impatto significativo su di noi e la realtà sociale che ci troviamo a vivere, in maniera oramai irreversibile.

Nel 2018 UNICEF dichiarava i numeri relativi a quanti bambini si connettono ogni giorno, definendoli un terzo del totale degli utenti: «nel mondo, il 71% di loro è online, comparato al 48% della popolazione totale». Kaspersky Lab ha individuato tramite una ricerca relativa ad informazioni personali rese pubbliche, come questo dato sia confermato dal 93% delle persone intervistate, di cui il 70% carica anche rappresentazioni video e fotografiche dei propri figli. Inoltre, sempre nel 2018 Save the Children ha rielaborato dati ISTAT comprovando che in Italia i bambini tra i 6 e i 10 anni usano la connessione da casa per un totale del 54% dei casi, arrivando poi ad un 94% per la fascia 15-17. Preoccupante è il dato relativo ai rischi avvertiti nello spedire foto e video intimi e riservati che «viene percepito come “sempre sicuro. Perché lo fanno tutti”».

Questo modus vivendi viene appreso dal bambino sin dai suoi primi anni d’età, quando gli sono difficili da comprendere i rischi ed il corretto utilizzo della rete, ragion per cui si presenta sempre quanto più doverosa una opportuna educazione in materia, nonché la presenza di leggi volte alla protezione delle fasce più deboli. Questa stessa esigenza viene ritenuta necessaria anche dalla Convenzione di New York nell’auspicare che la tutela non venga affrontata solamente a livello normativo quanto più invece in termini di prevenzione e partecipazione attiva dei minori.

Le straordinarie funzionalità di internet vanno dal supportare soggetti affetti per esempio da paralisi celebrale per interagire online con i propri coetanei; a dare la possibilità a minori che si trovano in condizioni di difficoltà a causa di conflitti in corso di continuare il loro percorso d’istruzione; o, ancora, a dare la parola a giovani attivisti come Greta Thunberg in tema di cambiamento climatico[4]. Analizzando quali possono essere i rischi, UNICEF nel suo reportLa condizione digitale dell’infanzia nel mondo[5] ne elenca alcuni: l’uso improprio dei dati personali da parte di agenzie di marketing; ragazzini spinti al suicidio dal cyberbullismo (primo fra tutti il fenomeno della Blue Whale Challenge[6]); casi di revenge porn causati spesso e probabilmente anche dalla mancanza di riflessione sulle possibili conseguenze; casi di pedopornografia; inoltre, per quanto possa sembrare paradossale, anche la stessa privazione di internet da parte dei genitori diventa un rischio, perché può portare a sentimenti di differenziazione e isolamento rispetto al gruppo.

L’obiettivo non è quindi quello di analizzare pro e contro di internet, la tecnologia digitale si è  già intrecciata così tanto con le nostre vite che si tratterebbe di un dibattito futile e fine a se stesso. La questione che si vuole affrontare è, invece, relativa al bilanciamento non ancora completamente realizzato a livello giuridico tra i diversi interessi in gioco: la libertà di espressione e manifestazione del pensiero (Art. 21 Cost.); la tutela dell’immagine prevista dal diritto d’autore (L. n. 633/1941); «Il divieto […] di pubblicazione e divulgazione con qualsiasi mezzo di notizie e immagini idonee a consentire l’identificazione di un minore» (Art. 50 Decreto del Presidente della Repubblica n. 448/88, in materia di ‘Norme sul processo penale a carico di imputati minorenni’); il diritto dei giornalisti alla libertà  di informazione e di critica (Art. 2 della Legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti L. n. 69/63).

Excursus dei principali provvedimenti in materia di web baby reputation

La rete internet, per le caratteristiche sue proprie, consente la diffusione di dati personali ed immagini in modo rapido, se non addirittura immediato, rendendo complesse le forme di controllo dei flussi informativi.  Da ciò, la conseguente difficoltà per l’ordinamento giuridico di individuare una soluzione sistematica rispetto alla pubblicazione di immagini di minori in rete. Ad oggi, infatti, la disciplina è frammentata ed ancora non armonizzata in un’unica fonte normativa.  Come spesso accade in contesti simili, è affidato alla giurisprudenza il compito di individuare soluzioni atte a garantire un’efficace tutela dei diritti. Di seguito, si analizzeranno i provvedimenti di maggiore rilevanza adottati in materia negli ultimi anni.

La giurisprudenza recente del Tribunale di Mantova

La pronuncia del Tribunale di Mantova del 20 settembre 2017[7] affronta il tema del mancato consenso di entrambi i genitori alla pubblicazione di foto di figli minorenni sui social network.

La fattispecie aveva in oggetto la richiesta al Giudice della modifica delle condizioni relative al regime di affido condiviso da parte di un padre, genitore di due figli minori, nei confronti della madre, in quanto, quest’ultima, nonostante la sua ferma opposizione alla pubblicazione di immagini sui social network, già manifestata in sede di precedenti accordi regolanti il regime di visita e frequentazione dei minori, continuava a diffondere le immagini dei bambini.

Il Giudice ha ritenuto che il comportamento della madre integrasse un’illecita « […] interferenza nella loro vita privata », oltre che la violazione dell’Art. 10, c.c. che tutela l’interesse del soggetto a che il suo ritratto non venga diffuso ed esposto al pubblico[8] e del combinato disposto degli Artt. 4, 7, 8 e 145 del D.lgs. 196/2003, oggi abrogati, nonché degli Artt. 1 e 16, co.1 della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo e dell’Art. 8 del Regolamento 679/2016/UE (c.d. GDPR) entrato in vigore nel maggio 2018.

Viene, altresì, evidenziato come la presenza di foto dei minori sui social media costituisca un comportamento potenzialmente pregiudizievole per gli stessi dal momento che « […] determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che ‘taggano’ le foto online dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia »[9].

Alla luce di ciò, il Giudice, in parziale accoglimento delle richieste del padre, ha disposto l’inibitoria della pubblicazione delle foto e ha ordinato contestualmente di provvedere alla rimozione di tutte quelle già inserite.

La giurisprudenza recente del Tribunale di Roma

Il dato inibitorio e sanzionatorio del provvedimento mantovano è stato poi approfondito in una successiva pronuncia del Tribunale di Roma – Sez. I Civ. del 23 dicembre 2017. Anche in questo caso la vicenda vede protagonista una madre che – a seguito della sospensione della patria potestà sul figlio minore di anni 16 – ha diffuso sui social network immagini e dettagli sulla vicenda del figlio, affidato ad un tutore, ledendo non soltanto l’immagine e la reputazione del minore ma pregiudicandone anche i rapporti attuali e futuri con i coetanei.

Il Giudice romano oltre ad asserire che «[…] gli ampi poteri riconosciuti al giudice competente per determinare le modalità di mantenimento e affidamento del minore, impongono di adottare anche d’ufficio ogni altra misura a tutela dell’interesse del figlio delle parti[10]. Deve essere disposta, a tutela del minore e al fine di evitare il diffondersi di informazioni anche nel nuovo contesto social frequentato dal ragazzo, l’immediata cessazione della diffusione da parte della madre in social network di immagini, notizie e dettagli relativi ai dati personali e alla vicenda giudiziaria inerente il figlio» , – per la prima volta in materia – giunge a prevedere anche la condanna ad un’astreinte o c.d. penalità di mora.

La giurisprudenza recente del Tribunale di Rieti

La pronuncia del Tribunale di Rieti del 7 marzo 2019 aveva ad oggetto la richiesta, avanzata da una madre, di rimozione delle foto dei figli minori pubblicate sui social network dalla nuova compagna del marito. Essendo risultati vani i tentativi di risolvere in via bonaria la situazione, in sede di divorzio, al fine di risolvere definitivamente la questione, veniva inserito espressamente che la pubblicazione sulle piattaforme online sarebbe stata consentita esclusivamente ai genitori, e non a terze persone, salvo il consenso congiunto di entrambi i genitori. Nonostante ciò, la pubblicazione delle foto continuava con la successiva decisione della madre di adire le vie legali. Il Giudice reatino accoglieva le istanze promosse dalla madre condannando la compagna dell’ex marito non solo alla rimozione di immagini, informazioni e dati relativi ai minori, ma inibendo anche la pubblicazione di ulteriori contenuti in assenza dell’espresso consenso di entrambi i genitori. Inoltre, come nel caso del Giudice romano, è stata prevista l’applicazione di una sanzione pecuniaria per ogni giorno di inadempimento.

In coerenza con tale orientamento, nel gennaio 2019, lo stesso Tribunale di Mantova ha disposto che in tutte le vertenze aventi ad oggetto l’esercizio della responsabilità sui figli minori i genitori – in tutte le ipotesi nelle quali si rivolgano al Tribunale per discutere sull’affidamento dei figli minori – siano tenuti a sottoscrivere un modello di conclusioni congiunte che gli avvocati redigono negli affari di diritto di famiglia. In tale modello, al punto n. 4, è stato inserito, su impulso del legale Camilla Signorini, il «divieto di pubblicare le foto dei figli sul profilo Facebook, nonché su ogni altro social network, provvedendosi alla immediata rimozione di quelle esistenti».

È importante, inoltre, notare come la pronuncia di Rieti sia stata resa a seguito dell’entrata in vigore del GDPR, che ha arricchito il panorama normativo in materia stabilendo nel Considerando n. 38 che «[…] i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali. Tale specifica protezione dovrebbe, in particolare, riguardare l’utilizzo dei dati personali dei minori a fini di marketing o di creazione di profili di personalità o di utente e la raccolta di dati personali relativi ai minori all’atto dell’utilizzo di servizi forniti direttamente a un minore […]».

In particolare, assume rilevanza l’articolo 8 di detto Regolamento che prevede che: «qualora si applichi l’articolo 6, paragrafo 1, lettera a) [il consenso], per quanto riguarda l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni»[11]. Pertanto, alla luce della nuova disposizione comunitaria, il consenso richiesto per il trattamento dei dati personali del minore, e dunque anche per le immagini che possano identificarlo, potrà – a seconda dell’età del minore interessato – essere validamente prestato o dallo stesso minore oppure dal soggetto che ne esercita la responsabilità genitoriale[12]. In tale prospettiva,  il legislatore italiano ha fissato il limite di età da applicare in Italia a 14 anni[13] col decreto di adeguamento del Codice Privacy (D. Lgs 101/18) all’ articolo 2-quinquies[14].

Opposizione al digital kidnapping: la posizione della Suprema Corte

Rispetto a quanto esposto precedentemente, va specificato quanto sia giustificabile da parte dei genitori nutrire remore in merito alla pubblicazione di foto dei loro figli minori. Va detto, per esempio, come continui ad essere un argomento attuale quello del c.d. online (sexual) child grooming ovvero l’adescamento di minori in rete con fini legati ad intraprendere condotte sessuali. Come definito da Kim-Kwang Choo[15], il metodo dei predatori sessuali si sostanzia nel far sentire speciale il minore, al fine di garantirsi la sua fiducia oltre che la sua cooperazione. L’obiettivo, poi, con il passare del tempo, è quello di desensibilizzare le vittime introducendo nella conversazione elementi sessuali. Risulta chiaro come l’ambiente del web si appresti ad essere il più facile da utilizzare a tale fine, soprattutto con il gran numero – sempre maggiore- di minori che lo utilizzano quotidianamente. Ciò che ne deriva è la semplicità, per gli autori di reati sessuali, di “mascherarsi” da bambini per la creazione di materiale pornografico e contatti per possibili aggressioni sessuali.

A tal riguardo, vi è infatti una importante sentenza della Suprema Corte, la n. 33862/2018, che definisce la creazione e successiva fruibilità di un profilo social utilizzando l’immagine di un soggetto inconsapevole per un vantaggio personale, nella vicenda a danno dell’integrità psico-fisica delle vittime, come integrante il delitto di sostituzione di persona. Infatti, il caso di specie riconosce l’imputato colpevole di aver creato un profilo Facebook, «apponendovi la fotografia di una persona minorenne identificata», al fine di convincere giovani ragazze a inviargli foto erotiche, minacciando che un possibile rifiuto, avrebbe causato la diffusione di loro immagini succinte, previamente ricevute.

Il primo motivo addotto per la presentazione del caso in terza istanza riguardava la fattispecie di cui all’Art. 494 c.p. sul furto d’identità, ritenendo che le prove emerse non rappresentassero sostituzione di persona. La norma rileva in due ipotesi: ove vi sia sostituzione di persona o l’attribuzione di un falso nome o stato, o, ancora, una qualità con effetti giuridici riconosciuti. Va aggiunto che il danno o vantaggio richiamati non devono per forza essere di carattere economico[16]; –  invece che riferirsi al concetto di lucro-, il dolo specifico richiesto sussiste in forza di una condotta fraudolenta volta in questo caso all’adescamento. La Corte ha ritenuto di considerare il motivo infondato, ribadendo nuovamente quanto già affermato in una sua precedente sentenza, la n. 25774/2014, che porta a ritenere il caso sopraesposto come « condotta idonea alla rappresentazione di una identità digitale non corrispondente al soggetto che lo utilizza » di cui «non rileva […] né che l’imputato abbia, successivamente alla creazione del profilo, modificato l’immagine, né che si sia disvelato nella propria identità» in quanto lo scopo era da ritenersi già raggiunto: relazioni virtuali credute paritetiche dalla vittima, con evidente danno a quest’ultime. Lo scopo perseguito con l’integrazione nella fattispecie di identità fittizie o multiple sui social network è proprio quello di proteggere chi frequenta abitualmente la rete, a tutela della fiducia che questi ripongono sulle dichiarazioni relative a stato o qualità personali[17].

Si tratta quindi di proteggere la fede pubblica quale bene giuridico – di fatto per quanto si tratti di realtà virtuale, è pur sempre ‘abitata’ da persone reali – per cui è stato ritenuto non solo giusto il riferimento alla fede pubblica, ma anche l’apposizione del corrispondente divieto di non presentarsi per altrui persona ma per chi si è realmente. La giurisprudenza si è quindi trovata a dover interpretare estensivamente la norma, mancando di fatto interventi legislativi che rispecchino il cambiamento  della realtà sociale.

Va messo in luce poi come il secondo motivo proposto dalla difesa avverso la precedente sentenza in merito alla fattispecie di violenza privata, adducesse che non fossero stati considerati elementi comprovanti la spontanea iniziativa di una delle minori nella trasmissione di proprie fotografie e intercettazioni telefoniche dimostranti come la minaccia di pubblicazione di foto in suo possesso, fosse volta solamente all’interruzione di continue chiamate di una delle vittime. Come espresso dalla Suprema Corte «supporta essa stessa in toto la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di cui all’Art. 610 c.p., in quanto ai fini del delitto di violenza privata, è sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa», giudicando quindi anche questo secondo motivo come infondato.

Relativamente a quanto espresso dalla difesa, si reputa necessario fare una precisazione concernente la c.d. teoria del victim blaming ovvero la colpevolizzazione della vittima per il crimine subito, che solitamente non viene applicata nei confronti dei bambini, che rappresentano il modello di vittima ‘ideale’, in quanto soggetti deboli e innocenti. La teoria pare piuttosto applicabile qui nei confronti di minori che si trovano già nella fase della pubertà e dell’adolescenza, in quanto apparentemente consenzienti e coscienti nel momento in cui si trovano per esempio a creare account social o inviare foto di nudo ai loro partner. Da ciò, il rischio di accrescere la difficoltà per le vittime di affrontare quanto loro accaduto. Chiaramente qui l’intento era di difendere l’imputato ma è opportuno sottolineare, come se si è ritenuto di presentare questo fatto come attenuante, è perché vi è un solido credo da parte della società che porta in alcuni casi a considerare probabilmente più ‘facile’ colpevolizzare la vittima al posto di concepire ed elaborare quanto realmente le sia accaduto. Questo accade per lo più in crimini e ingiustizie quali abusi sessuali, violenze domestiche, abusi emotivi, stupri, violenze a sfondo razziale, bullismo e casi di misoginia. Le vittime infatti vengono stigmatizzate come soggetti passivi che non solo si sottomettono alla violenza che si trovano a subire, ma addirittura la ricercano , mentre l’aggressore viene giustificato dal fatto che in date circostanze, possa capitare di agire con violenza ed impulsività. Tra le varie ipotesi, pare opportuno applicare quelle relative ad errore di attribuzione e ad invulnerabilità: la prima si verifica quando viene posto l’accento solamente su caratteristiche personali della vittima, reputando come non rilevanti quelle ambientali, legate qui ad una realtà virtuale che dà a soggetti più deboli la parvenza di realtà fisica; la seconda consiste nel meccanismo per cui per proteggere i propri sentimenti di invulnerabilità, si accusa la vittima di aver intrapreso comportamenti che non avrebbe dovuto tenere, una sorta di ‘chi è causa del suo mal pianga se stesso’, tutto ciò perché credere che ognuno ha quel che si merita, è un concetto più assimilabile rispetto all’accettazione di ingiustizie che vengono quotidianamente perpetrate[18].

Infine, con riferimento al terzo motivo presentato dalla difesa che recriminava la definizione delle foto come materiale pedopornografico, in quanto le giovani donne erano in realtà ritratte in intimo, rendendo gli scatti non rientranti nella fattispecie. Va detto che per quanto concerne la detenzione di materiale pedopornografico (Art. 600 quater c.p.) da parte dell’imputato, la Corte di Cassazione ha preso in considerazione l’Art. 20 comma 2 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento di abusi sessuali[19] che fornisce una definizione giuridica di materiale pornografico minorile[20], precisando come sia considerata sufficiente la rappresentazione di organi genitali di minori per scopi sessuali[21], di cui non pare necessaria una «esibizione lasciva». Le precedenti considerazioni hanno portato a qualificarlo come «la rappresentazione, con qualsiasi mezzo atto alla conservazione, di atti sessuali espliciti coinvolgenti soggetti minori di età, ovvero qualsiasi rappresentazione degli organi sessuali di minori che renda manifesta la riproduzione delle nudità a fini di concupiscenza e di ogni altra pulsione di natura sessuale» la cui mera detenzione, prescindendo dall’origine, anche per consultazione personale integra la fattispecie delineata dall’Art. 600 quater c.p.. La Corte ha quindi annullato con rinvio la sentenza impugnata con riguardo solamente a questo ultimo motivo poiché non ha ritenuto di poter evincere in maniera sufficientemente definita se nei video e nelle fotografie le vittime fossero nude o rappresentate nel corso di atti sessuali.

Una (non) esaustiva svolta al futuro: Codacons e Tribunale di Ravenna

Rispetto a quanto emerso precedentemente, due sono gli ulteriori e recenti sviluppi in tema, che vanno verso una più compiuta normazione al fine della tutela dell’interesse preminente del minore.

In primo luogo, è da segnalare l’esposto alla Procura di Roma e al Garante della Privacy e dell’Infanzia presentato da Codacons nel luglio 2019 allo scopo di sollecitare la valutazione di possibili profili di reato e/o responsabilità a fronte della pubblicazione di personaggi più o meno pubblici di foto ritraenti i propri figli, anche neonati.

Il Codacons, a seguito di analisi di foto reperite sui social, ha evidenziato come questa pratica sempre più diffusa potesse rendere i minori «vittime dell’illecito trattamento dei propri dati personali, nonché, ancora peggio di fattispecie di reato ben più gravi. [trattandosi di] immagini che immortalano i minori in tenera età, senza l’adozione di alcun tipo di accorgimento, ai soli fini esibizionistici o di lucro». Ancora, veniva aggiunto che « come rappresentato da moltissimi psicanalisti interrogati sul tema, i bambini, una volta cresciuti e alle prese con la propria rete sociale, su quelle piattaforme, si ritroveranno dotati di un fardello di contenuti digitali impropriamente pubblicati nel corso degli anni dai genitori. Senza, ovviamente, che il soggetto più importante della relazione – il bambino – abbia avuto alcuna possibilità di dire la sua».

Il caso qui in esame si concentra sull’eventualità in cui, seppur in presenza del consenso dei genitori al trattamento dei dati, vi è il rischio di oltrepassare il sottile confine tra lecito e legittimo andando ad intaccare irrimediabilmente la sfera privata del fanciullo. Ad oggi, però, non esiste alcuna normativa volta a tutelare un fenomeno così in espansione e così specifico relativo allo sfruttamento delle immagini del minore da parte dei genitori stessi. In assenza di una disciplina a cui fare riferimento, per dissuadere i genitori dal pubblicare l’immagine del proprio figlio, la Codacons ha agito attraverso una lettera indirizzata a Facebook con cui ha chiesto di intervenire sospendendo la pubblicazione su Facebook ed Instagram di tutte le immagini ritraenti minori e diffuse in violazione della normativa vigente.

Nonostante ciò, per le caratteristiche intrinseche del fenomeno, si tratta di una pratica complessa da monitorare data l’oggettiva impossibilità di valutare il limite della liceità del consenso prestato dal genitore.

Si può affermare, dunque, che anche se la normativa nazionale e quella del GDPR ritengano lecito il trattamento dei dati del minore soltanto se e nella misura in cui il relativo consenso sia prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale, nulla è stato disposto nel caso in cui la prestazione del consenso genitoriale non tenga completamente conto di quanto rimarcato dall’Art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il quale, dopo aver asserito che «ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano», precisa, al comma 2, che detti dati «devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o ad un altro fondamento legittimo previsto dalla legge».

Ulteriore puntualizzazione arriva dalla sentenza n. 1038/2019 del Tribunale di Ravenna, il quale fa chiarezza in merito al risarcimento del danno in capo al minore o ad uno dei genitori in caso di  pubblicazioni di immagini da parte dell’altro.

Il caso ha ad oggetto la pubblicazione su Facebook delle foto di una sfilata in costume da bagno di una minore di anni 3 a cui il padre non ha dato il consenso, sebbene abbia partecipato all’evento non manifestando alcun dissenso. Il Tribunale, infatti, ritiene che – qualora lo stesso non fosse stato d’accordo a far sfilare la bambina in costume – avrebbe dovuto intervenire la sera stessa dell’evento, potendo anche in extremis esercitare il proprio ruolo genitoriale. Oltre alla mancata espressione del dissenso, il Tribunale tiene conto non solo dell’autorizzazione rilasciata dalla madre per la sfilata della minore – da cui risultava la gratuità dell’evento – ma anche l’immediata rimozione delle immagini dalla piattaforma non appena ricevuta intimazione in tal senso.

Non si rileva, dunque, nessun danno risarcibile nei confronti del padre in quanto, ex Art. 1227, comma 2, c.c. «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza».

Da ultimo, si ritiene assente anche il danno non patrimoniale in quanto la bambina ha sfilato in compagnia della madre e l’immagine non era travisabile. Di fatti, dunque, la richiesta risarcitoria non appare giustificata nemmeno dalla astratta pericolosità derivante dalla possibile distorsione delle immagini della minore sicché la rimozione delle stesse è avvenuta in tempi rapidi in quanto la loro presenza era limitata all’interno di profili privati, con un pubblico molto limitato.

Conclusione: auspicato bilanciamento tra misure di enforcement pubbliche e private al servizio dei minori

L’argomento risulta quanto mai attuale, difatti il 4 luglio 2020 ANSA ha pubblicato un articolo relativo alla maxi operazione tenutasi contro la pedopornografia che veniva scambiata su una piattaforma di messaggistica – operazione resa possibile grazie alle segnalazioni di utenti privati – in Italia: si parla di 50 perquisizioni e arresti, in 15 diverse regioni «per detenzione, diffusione ed in alcuni casi, di produzione di materiale pedopornografico. Sequestrati file con immagini raccapriccianti di abusi su minori, ritraenti vere e proprie pratiche di sadismo dove le vittime erano anche neonati». Grazie anche alle nuove tecniche di indagine come il pedinamento virtuale, la Procura di Torino[22] è riuscita ad accertare le identità dei soggetti coinvolti che si celavano dietro a nicknames di fantasia.

Già sulla stessa scia, Wired ad aprile aveva pubblicato un’inchiesta relativa al più grande network di revenge porn su Telegram con circa 43mila iscritti e oltre 30mila messaggi al giorno. Nella chat era possibile trovare oltre a materiale pornografico di qualsiasi tipo, anche contatti telefonici e social di ex ragazze – rappresentate nei fotogrammi condivisi sul gruppo – al fine di infliggere loro un turbamento psicologico attraverso la minaccia di rendere pubblici gli stessi. È presente anche materiale pedopornografico – ritraente soggetti a partire dagli 8 anni d’età – che viene reso oggetto di negoziazione privata tra gli appartenenti al gruppo che effettuano veri e propri scambi di dati multimediali.

La necessità di un’efficace digital protection è avvertita anche dai privati. Una innovativa PMI, chiamata per l’appunto Tutela digitale, è stata creata con l’obiettivo di controllare la rete per la risoluzione di situazioni lesive della reputazione online attraverso l’eliminazione e la de-indicizzazione dei contenuti inappropriati[23]. Questo strumento – che dalla sua creazione nel 2017 ha già risolto molteplici casistiche con una percentuale di successo che si aggira intorno all’85% – è stato con il passare del tempo ampliato con ulteriori servizi, tra cui, LinkMonitor, una piattaforma di social listening che ha lo scopo di reperire informazioni in tempo reale sulla reputazione di persone, marchi e prodotti in 150 milioni di fonti distribuite in 187 diverse lingue, e LinkBetter, un servizio per la riabilitazione della web reputation di persone e aziende. La piattaforma ha già ricevuto richieste da parte di minori affinché i contenuti diffusi dai loro genitori venissero eliminati; è ipotizzabile, quindi, che ulteriori sviluppi di tale tecnologia possano risultare decisivi per il monitoraggio dei propri dati sensibili all’interno del web. Ci si potrebbe interrogare in merito ad una possibile (se non necessaria) regolamentazione di strumenti di tal genere che potrebbero essere configurati come un vero e proprio servizio (al) pubblico.

Questo strumento è indice della già avvertita insufficienza della self-regulation applicata dalla maggior parte degli Stati Membri non soltanto a social network, ma anche più in generale a piattaforme di e-commerce attraverso cui si realizzano furti di identità digitale, data tracking, pubblicità mirata e messaggi prompt per realizzare acquisti in-app. Uno studio[24] ha dimostrato che i genitori coinvolti da questo fenomeno sono mediamente meno preoccupati per questo genere di rischi rispetto a quelli provocati dalla socializzazione online, motivo per il quale pochi sono gli sforzi preventivi fatti in tal senso.

Appare lampante come molto c’è ancora da fare: oltre ad auspicare una normazione unitaria di queste emergenti fattispecie, occorre condurre una massiccia opera di sensibilizzazione e responsabilizzazione non solo dei detentori della potestà genitoriale, ma anche degli utenti abituali dei sistemi digitali, come peraltro già evidenziato dalla Convenzione di New York.


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[1] Convention on the Rights of the Child – CRC è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 Novembre 1989 con il preciso obiettivo di riconoscere a tutti pari dignità, specialmente per «preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella Società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite». Legge 27 Maggio 1991, n.176, in materia di «Ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 Novembre 1989»

[2] Art. 31 Cost: la Repubblica italiana «protegge […] l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo»; stessa salvaguardia è più ampiamente definita all’Art. 2 ove si riconoscono e proteggono «i diritti inviolabili dell’uomo».

[3] Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, La tutela dei minorenni nel mondo della comunicazione, 21 Dicembre 2017.

[4] È stato dimostrato come le opinioni di scienziati in ambito di cambiamento climatico, basate su dichiarazioni scientifiche, ottengono un irrilevante seguito rispetto a quello che sono riusciti a costruire i membri di Fridays For Future attraverso i loro contatti personali.

[5] Comitato Italiano per l’UNICEF Onlus, La condizione dell’infanzia nel mondo 2017: Figli dell’era digitale, Dicembre 2017.

[6] La Blue Whale Challenge è una sfida apparsa nel 2016 sui social network: bambini, adolescenti ed altri utenti, incoraggiati dal loro “amministratore di gruppo”, dovevano svolgere dei compiti precisi nel giro di 50 giorni, l’ultimo dei quali consisteva nel togliersi la vita.

[7] La pronuncia del tribunale mantovano non è la prima in materia. Anche il Tribunale di Foggia si era pronunciato in un’analoga vicenda: un padre separato si era opposto alla pubblicazione delle foto della figlia sui social da parte della moglie e aveva chiesto l’affido esclusivo della bambina perché riteneva la madre inadeguata al ruolo genitoriale proprio per una eccessiva dipendenza dai social network. Il Tribunale di Foggia ha accolto la richiesta di rimozione delle foto della figlia minorenne osservando che «il genitore che unilateralmente decide di pubblicare le foto del figlio (o della figlia) online, senza preventivamente acquisire il consenso dell’altro genitore viola le norme sull’esercizio della responsabilità genitoriale. La pubblicazione di foto di figli minori, sebbene in sé lecita, potrebbe per le modalità e l’intensità con cui viene praticata, essere considerata pregiudizievole per il minore ed in quanto tale avere rilevanza giuridica sia al fine di una eventuale decisione di rimozione, sia in termini di corretto esercizio della capacità genitoriale». Ancora, nel 2014, il Tribunale di Varese aveva ordinato ad un padre la cancellazione di alcune immagini del figlio di quattro anni in barca, pubblicate senza l’autorizzazione dell’ex moglie, autorizzazione necessaria per il combinato degli Artt. 10 e 316 del codice civile.

[8] Art. 10, c.c.: « Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni. »

[9] Malgrado queste giuste cautele, non tutti i giudici sono della stessa opinione. Infatti, nel luglio 2018, il Tribunale di Torino ha sancito la sostanziale «liceità» della pubblicazione di fotografie del figlio sui social network da parte di un genitore, anche senza il consenso dell’altro. I giudici torinesi hanno infatti ritenuto che – sulla base dell’evoluzione del costume – la pubblicazione di una foto sul web sia annoverabile fra gli atti di ordinaria amministrazione che non richiedono il consenso dell’altro genitore.

[10] cfr. Cass. 2210/2000 che ha stabilito «l’adottabilità d’ufficio, da parte del giudice […] dei provvedimenti necessari alla tutela morale e materiale dei figli minori provvedimenti caratterizzati da esigenze e finalità pubblicistiche e sottratti, per l’effetto, all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti».

[11] Il GDPR fa propria la distinzione fra i c.d. petite enfantes e grands enfantes esistente nel diritto francese. Per i primi, secondo il legislatore d’oltralpe, prevale l’esigenza di protezione e, per i secondi, l’esigenza di tutelare i diritti di libertà in quanto hanno raggiunto capacità di discernimento e autonomia gestionale tale da poter esprimere i diritti di libertà che debbono comunque essere contemperati con le facoltà-diritti e con i doveri dei soggetti esercenti la potestà genitoriale.

[12] Secondo quanto disposto dall’Art. 316 c.c., la responsabilità genitoriale spetta ad entrambi i genitori ed è esercitata «di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio ». Trattandosi di questioni riguardanti il «maggior interesse per il figlio», anche in caso di disgregazione dell’unità familiare, la decisione circa la prestazione del consenso alla pubblicazione dell’immagine dovrà essere adottata da entrambi i genitori.

[13] La scelta di portare l’età del consenso digitale a 14 anni è stata fatta per raggiungere un’uniformità a livello ordinamentale. Infatti, l’Art. 2 della Legge sul cyberbullismo  (L. 29 maggio 2017, n. 71 recante «Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo») prevede il limite di età dei 14 anni affinché il minore vittima di tali atti possa autonomamente richiedere al titolare del trattamento dei dati, ovvero al gestore del sito internet o del social media, l’adozione di provvedimenti a propria tutela, quali «l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale» che lo riguarda, ancorché non costituisca ipotesi di reato. Si individua, dunque, il compimento del 14° anno di età come il consolidamento di una serie di diritti ed obblighi scaturenti dalla socializzazione digitale del minore. Ancora, il vantaggio indiretto che si è soliti attribuire all’abbassamento dell’età del consenso digitale è quella di una accresciuta responsabilizzazione delle piattaforme, degli emittenti e dei produttori di contenuti destinati ai minori, che sarebbero per ciò portati a prestare maggiore attenzione a quanto messo in circolazione ovvero a porre in essere accorgimenti tecnici atti a limitarne l’accesso da parte dei minori. Si vuole che tale consenso, pur se reso da persona con più limitate capacità di autocontrollo, progredisca per diventare, al pari di quello dell’adulto, «significativo». Si parla perciò di empowerment cognitivo del minore.

[14] Va notato che cosa diversa è la regolamentazione dei vari servizi online che riguarda soltanto la legittimità del consenso al trattamento dei dati personali, non incidendo sulla validità del contratto sottostante, il cui regime giuridico rimane disciplinato dalla legislazione nazionale o da quella del foro competente a decidere eventuali controversie relative al servizio. Facebook prevede che i minori di 13 anni non possano iscriversi e che i minori di 16 anni possano solo col consenso del genitore; WhatsApp prevede che i minori di 13 anni non possano iscriversi e che i minori di 16 possano solo con consenso del genitore; Twitter che i minori di 16 anni non possono usare Periscope.

[15] La tecnica prediletta in particolare prevede la scelta di un luogo o un’area target che possa risultare attraente per i bambini, che a causa delle ‘trappole’ poste nei loro confronti nel cyberspazio, non sono in grado di formulare giudizi relativamente all’idoneità e la sincerità delle persone con cui si trovano a comunicare.

[16] «Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno».

[17] vd. supra.

[18] Si è ritenuto doveroso porre l’accento su questa teoria in quanto le conseguenze del victim blaming possono essere atroci e devastanti, specialmente nei confronti di minori che ancora non hanno avuto modo di sviluppare completamente la loro personalità e metro di giudizio, infatti si parla di inabilità nel qualificare se e/o altri come vittime. Nei casi più gravi  è stato appurato come questa pratica abbia portato anche al suicidio . Non perché il caso in sé sia più grave, dipende sempre dalla reazione soggettiva delle vittime e da quanto siano state stigmatizzate e attaccate.

[19] «ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali ». La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, è stata ratificata dall’Italia con L. 172/2012.

[20] Definizione introdotta nel nostro ordinamento a tramite dell’Art. 600 ter c.p.

[21] A seguito della Sez. 3, Sentenza n. 5874 del 09/01/2013 Cc. (dep. 06/02/2013) Rv. 254420 che aveva già recepito la L. 1 Ottobre 2012, n.172, Art. 4, comma 1, Lett. L).

[22] La Procura di Torino coordina più di 200 investigatori del Centro Nazionale di Contrasto alla Pedopornografia Online e del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni di Torino.

[23] La richiesta di rimozione viene direttamente inoltrata «a una terza parte, che sia il titolare del sito il webmaster, l’internet service provider, con cui in alcuni casi, sussistono anche degli accordi di collaborazione». Il team supervisore, qualora lo reputi opportuno, si rivolge anche direttamente al Garante della Privacy.

[24] Lo studio, richiesto dalla Commissione europea nel 2015, dal titolo «Study on the impact of marketing through social media, online games and mobile applications on children’s behavior», è stato pubblicato a marzo 2016, con lo scopo di approfondire il comportamento dei minori online.

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