“Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.
Tanto statuisce, con formula enfatica, l’art. 1372 del codice civile del 1942 che, in conformità alla forte propensione del legislatore corporativo a favore dell’autonomia privata (rectius negoziale), attribuisce, addirittura, al vincolo contrattuale liberamente assunto dai contraenti forza di legge.
Dall’altra parte, però, con l’articolo immediatamente successivo il legislatore disciplina le modalità con le quali può essere esercitata la facoltà di recedere dal contratto, andando così apparentemente a derogare a quanto statuito con il sopra richiamato articolo 1372 sulla scorta del quale, come detto, il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso ( rectius dissenso) o nei casi previsti dalla legge.
L’articolo 1373 del codice civile detta, dunque, la regola generale in materia di recesso che costituisce un diritto potestativo attribuito, con il contratto o per espressa previsione legislativa, a una delle parti.
Il diritto di recesso, se convenuto contrattualmente, non rappresenta, a ben vedere, una deroga al principio consensualistico che informa il diritto dei contratti nell’ambito dell’ordinamento codicistico. Ciò in quanto, se in fase di predisposizione e sottoscrizione del regolamento contrattuale, le parti hanno convenuto di riconoscere siffatto diritto a uno dei contraenti, non può affermarsi, strictu sensu, vi sia una deroga alla regola del consenso essendo stato quest’ ultimo manifestato, anche con riferimento al diritto di recesso, in sede di assunzione del vincolo.
Discorso diverso deve essere fatto con riferimento alle ipotesi in cui il diritto di recesso venga attribuito dal legislatore, al verificarsi di certi presupposti e condizioni, a una delle parti contrattuali. Le ipotesi in cui il diritto di recesso è attribuito dal legislatore sono principalmente contenute, a parte qualche previsione codicistica, nell’ambito del cd. diritto di impresa intendendosi per tale la legislazione di settore codificata a partire dagli anni novanta del secolo scorso nella quale vanno annoverati, per quanto qui interessa, il Testo Unico Bancario e il Codice del consumo.
Prima di esaminare la disciplina dettata in materia di recesso dai contratti bancari, è opportuno effettuare un’ ultima considerazione di carattere generale in materia di recesso che consentirà di comprendere meglio le fattispecie di recesso previste dal cd. diritto di impresa.
Se è vero che il recesso può essere esercitato solo se espressamente attribuito dalla legge o dal titolo a una delle parti, e nel rispetto delle modalità tratteggiate in generale dall’articolo 1373 c.c., è pur vero che ciò vale per i contratti a tempo determinato ma non anche per i vincoli a tempo indeterminato. Riguardo a questi ultimi, è principio consolidato in giurisprudenza che il recesso possa essere esercitato da entrambi i contraenti anche in assenza di un’espressa previsione di legge o di specifica previsione pattizia (ex multis, Cass. Civ. 14436/00, Cass Civ. 3296/02). L’ordinamento giuridico, difatti, non tollera i vincoli sine die perché limitativi dell’autonomia contrattuale che, invece, viene tutelata e presidiata.
In molti casi è il legislatore a prevedere e regolamentare espressamente il recesso dai contratti a tempo indeterminato. Un esempio lo si rinviene nell’ ambito della disciplina del contratti di lavoro a tempo indeterminato ove è espressamente statuito che ciascun contraente può recedere dal contratto dando un preavviso. Ma anche nell’ambito del contratto di società, ove l’articolo 2258 attribuisce al socio la facoltà di recedere dal contratto sociale se costituito a tempo indeterminato.
Analoga disciplina è contenuta nel contratto di apertura di credito bancario di cui agli articoli 1842 e ss. del codice civile ove è espressamente attribuito, dall’ art. 1845 comma 3, a ciascuna parte il diritto di recedere dal contratto ove questo sia stato stipulato a tempo indeterminato. Ex adverso, la disciplina codicistica dettata in materia di contratto di apertura di credito, nel caso di contratto a tempo determinato, riconosce solo alla banca il diritto di recesso per giusta causa, pur facendo salvo il patto contrario.
Sul concetto di giusta causa che legittima il recesso della banca dal contratto de quo, così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, ci si soffermerà in appresso mettendo a confronto, allo scopo di evidenziare le profonde differenze, la disciplina codicistica e la più recente legislazione di settore di cui al sopramenzionato TUB.
Il diritto di recesso di cui agli artt. 120 bis e 118 TUB
Il Testo Unico Bancario contiene, negli articoli sopramenzionati, un’espressa disciplina in materia di recesso dal contratto attribuendo, però, tale diritto solo al cliente, in una logica diametralmente opposta rispetto a quella codicistica che, come sopra detto, riconosce solo alla banca, limitatamente al contratto di apertura di credito a tempo determinato il diritto di recesso, purché ricorra una giusta causa.
Per meglio comprendere la ratio della particolare configurazione del diritto di recesso a favore del solo cliente, bisogna premettere che il cd nuovo diritto di impresa, nel quale senz’altro va annoverato il TUB, è sotteso da un unico filo conduttore che lo pone in antitesi rispetto alle disposizioni codicistiche. Mentre queste ultime sono state scritte nella logica dell’impresa, mettendo a disposizione di quest’ultima strumenti espansivi ( si pensi alla disciplina di cui all’articolo 1341 in base alla quale le condizioni generali di contratto si applicano non solo se non volute ma addirittura anche se non conosciute purché conoscibili), le nuove regole di diritto positivo contenute nella legislazione di settore sono volte a limitare l’attività di impresa al fine di controllarla in una logica di apertura del mercato concorrenziale.
Sicuramente in questa ottica deve essere letto l’ articolo 120 bis del testo unico bancario che disciplina in maniera specifica, ma con valenza generale, il recesso del cliente dai contratti bancari a tempo indeterminato. Questa regola generale è posta in un’ottica di apertura al mercato, e proprio per questo assegna ex lege al cliente la facoltà di recedere dal contratto sempre, senza corresponsione di penali e spese.
Al fine di favorire la massima apertura del mercato e un’effettiva concorrenza tra gli operatori finanziari, si agevola in maniera ampia il disimpegno da parte del cliente, che può recedere dal contratto, senza spese, ove ritenga più conveniente l’offerta proposta da altro operatore finanziario. La gratuità nell’esercizio del diritto di recesso non è affatto scontata in quanto, di norma, in sede civilistica, l’attribuzione di un potere unilaterale è sempre remunerata.
La multa penitenziale disciplinata dal codice civile rappresenta il corrispettivo per l’esercizio del diritto di recesso che, difatti, produce effetto solo quando viene versato il compenso pattuito (art. 1373 comma 3 c.c.). Nel TUB, invece, viene esclusa la possibilità di porre a carico del cliente recedente un corrispettivo in relazione ad un potere che ha fonte esclusivamente legale.
Sempre all’interno del TUB, un’altra figura di recesso avente fonte legale, anch’essa prevista solo a favore del cliente, è quella disciplinata dall’articolo 118 del TUB rubricato “Modifica unilaterale delle condizioni contrattuali”.
Con l’attuale formulazione della norma, modificata da ultimo nel 2011, il legislatore ha codificato l’istituto, da anni diffuso nella prassi bancaria e usualmente definito come ius variandi, che consente alla banca di apportare modifiche unilaterali al contratto concluso con il cliente. “Affinché ciò avvenga la legge, però, richiede siano soddisfatte certe condizioni, alcune di tipo formale (previsione dello ius variandi in un’ apposita clausola del contratto nonché necessità della comunicazione al cliente), altre di tipo sostanziale (necessità della sussistenza di un giustificato motivo)”. [1]
Come detto in premessa, il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso. E ciò vale non solo per il contratto nella sua interezza ma anche per le singole clausole ivi contenute. La modifica unilaterale del regolamento contrattuale non è ammessa, in via generale, nel nostro ordinamento perché violativa di una norma imperativa, qual è senza dubbio l’art. 1372 c.c. Lo ius variandi, in verità, è previsto in alcune norme del codice civile relative a contratti tipici (ad esempio nel contratto d’appalto), ma è posta, di norma, a beneficio del contraente debole.
E’ però vero che il legislatore può sempre modificare una norma imperativa con altra di pari rango: tale è l’art. 118 bis del TUB.
A fronte dell’esercizio da parte della banca del potere conferitole dalla legge di modificare unilateralmente il contratto, che rappresenta senza dubbio un enorme beneficio per l’istituto di credito, il legislatore ha assegnato al cliente la facoltà di recedere dal vincolo. Ove il cliente non intenda accettare, anche implicitamente, le modifiche proposte dalla banca può esercitare il diritto di recesso dal contratto bancario. Se è vero che il cliente, a fronte dell’esercizio unilaterale, da parte della banca, dello ius variandi convenuto convenzionalmente, non può opporsi alla proposte di modifica del regolamento contrattuale, è pur vero che può porre fine al vincolo esercitando il diritto di recesso.
Questa soluzione, per quanto radicale, incentiva almeno la concorrenza fra banche: un istituto di credito non può vincolare a sé un cliente che non intende accettare proposte modificative unilaterali.
La legge specifica altresì che, per il recesso del cliente, non possono essere addebitate delle spese. Questa specificazione legislativa va interpretata in senso lato cosichè sono vietate non solo le spese che vengono espressamente qualificate come “corrispettivo per il recesso” ma tutte le spese che trovano, anche solo indirettamente, il proprio fondamento nel recesso.
In sintesi, l’articolo 120 bis del TUB attribuisce al cliente un diritto di recesso avente fonte legale e applicazione generalizzata a tutti i contratti bancari a tempo indeterminato; l’articolo 118 TUB, invece, attribuisce un diritto di recesso, di fonte sempre legale, ma non generale perché esercitabile solo laddove l’istituto di credito faccia uso dell’ ius variandi. In entrambi i casi, tuttavia, si disciplina il fenomeno solo dal punto di vista del cliente.
Il diritto di recesso dal contratto di apertura di credito
Dal punto di vista della banca, il recesso è disciplinato dall’articolo 1845 del codice civile, con riferimento alla fattispecie contrattuale rappresentata dall’apertura di credito.
Questo articolo stabilisce regole sul recesso che possono avere attuazione con la sottoscrizione del contratto, salvo che le parti non abbiano convenuto diversamente. La configurazione legale consente, infatti, ai contraenti di inserire delle regole nel contratto volte a disciplinare il diritto di recesso. Se i contraenti nulla prevedono, si applica direttamente l’articolo 1845, che consente il recesso a entrambe le parti soltanto nel caso di rapporto a tempo indeterminato, mentre nel caso di contratto a tempo determinato, solo alla banca è consentito di recedere purché sussista una giusta causa.
Il contratto di apertura di credito è uno dei contratti bancari maggiormente attenzionato dalla giurisprudenza che più volte è stata chiamata a pronunciarsi sul concetto di giusta causa che legittima il recesso della banca.
Ove la giusta causa sia stata tipizzata dal contratto stipulato dalle parti spetterà al debitore, che agisce in giudizio per far dichiarare arbitrario il recesso della banca, l’onere di allegare e dimostrare che le giustificazioni date dalla banca non risultano ragionevoli dimostrando, pur in presenza di atti di disposizione del patrimonio, la sufficienza della propria garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c..
E’ pur vero che “la banca, per esercitare il suo diritto di recesso, ovviamente, non deve accertare (e dimostrare) che sussista un vero e proprio stato di insolvenza dei debitori (peraltro di difficile affermazione, essendo riservata all’Autorità Giudiziaria…) in quanto, in tal modo si richiederebbe ad essa, irragionevolmente, di recuperare il proprio credito quando questo sia divenuto addirittura irrecuperabile. “[2]
E’ stato altresì affermato che “ in caso di recesso di una banca dal rapporto di credito a tempo determinato in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti del rapporto contrattuale, il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell’ipotesi tipica di giusta causa ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia stato esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa dell’altro contraente”[3]
Il recesso dal contratto bancario concluso con il consumatore. La peculiare disciplina del codice del consumo
Ove il contratto bancario sia concluso con un consumatore ( e pertanto con una persona fisica che agisce, nel contratto, per scopi estranei all’attività imprenditoriale che pure può esercitare ), oltre alle regole di cui sopra, occorre tener conto anche delle regole previste dal codice del consumo di cui al D.lgs. n. 206/2005. In questo contesto la banca è il professionista, il consumatore è il cliente. Se la banca inserisce nel contratto una clausola di recesso a suo favore, siffatta clausola si presume abusiva rientrando nella previsione di cui all’articolo 33 del sopracitato codice (in particolare nella previsione di cui al comma 2 lett. f) ), salvo che sia consentita analoga facoltà anche al cliente/consumatore.
In merito occorre puntualizzare che la giurisprudenza maggioritaria sostiene che l’eventuale condizione di reciprocità nell’attribuzione del diritto di recesso vale ad escludere l’abusività della clausola solo nel caso in cui siano identiche le condizioni per potersi avvalere di siffatto diritto.
Con espresso riferimento al contratto di mutuo concluso con il cliente/consumatore, attesa la evidente asimmetricità delle posizioni dei contraenti, la giurisprudenza ha affermato che attribuire il diritto di recesso anche al cliente non significa eliminare tout court l’abusività della clausola. In buona sostanza, la giurisprudenza addiviene alla conclusione, senz’altro condivisibile, secondo la quale assegnare a entrambi i contraenti un potere unilaterale quando sono palesemente difformi le possibilità di esercitarlo, non vuol dire uscire dal raggio di azione dell’abusività della clausola. Il cliente che ha contratto un mutuo si trova in una posizione di inferiorità economica rispetto all’istituto di credito che gliel’ha concesso e pertanto, seppur formalmente potrebbe fare uso del potere di recesso, nei fatti non utilizzerà tale potere che lo vedrebbe esposto a restituire le somme ricevute a prestito senza così poter perseguire l’interesse che l’ha spinto ad accedere al finanziamento.
Diverso discorso può essere fatto con riferimento al contratto di apertura di credito perché in tal caso può esserci la concreta possibilità che anche il cliente abbia interesse a recedere dal contratto (è possibile siano venute meno le ragioni, spesso legate all’esercizio di un’attività imprenditoriale, che lo avevano spinto a ricorrere a siffatto contratto tipico dal quale, come noto, scaturisce l’obbligo della banca di tenere a disposizione del cliente una somma di danaro) ed il recesso possa effettivamente definirsi “paritetico”.
Con riferimento comunque al contratto da ultimo citato, pur nella vigenza dell’articolo 1845 c.c. che fa salvo il patto contrario, l’inserimento di una clausola di recesso da parte della banca può essere connotato da abusività, qualora il cliente sia un consumatore.
Merita poi un’annotazione la previsione di cui al comma 3 dell’articolo 33 del codice del consumo che introduce una deroga espressa, nel solo caso di contratti a tempo indeterminato, alla presunzione di abusività della clausola unilaterale di recesso. La norma citata statuisce difatti che “se il contratto ha ad oggetto la prestazione di servizi finanziari (quindi siamo nello specifico ambito bancario, finanziario o assicurativo) a tempo indeterminato, il professionista può recedere dal contratto qualora vi sia un giustificato motivo, anche senza preavviso, dandone immediata comunicazione al consumatore.
Si tratta evidentemente di una norma di favore per le banche alle quali viene assegnato il diritto di recesso sia pure in presenza di un giustificato motivo. Pertanto, mentre la lettera h) del sopramenzionato comma 2 dell’articolo 33 inserisce tra le clausole da considerarsi abusive, in tutti i contratti stipulati con il consumatore, la clausola che riconosce al solo professionista la facoltà di recedere dal contratto, il comma 3 dello stesso articolo, consente in deroga alla lettere h) al solo professionista/operatore del mercato finanziario, il recesso anche senza preavviso qualora vi sia un giustificato motivo. Molto si è discusso e si discute, in dottrina e in giurisprudenza, su cosa debba intendersi per giustificato motivo.
In merito alla nozione di “giustificato motivo” è intervenuto il Ministero della Sviluppo Economico, fornendo alcune indicazioni che possono certamente tornare utili agli interpreti. In particolare ha stabilito che, con siffatta espressione, si devono intendere gli eventi di comprovabile effetto sul rapporto bancario. Tali eventi possono essere sia quelli che afferiscono alla sfera del cliente (ad esempio, il mutamento del grado di affidabilità dello stesso in termini di rischio di credito) sia quelli che consistono in variazioni di condizioni economiche generali che possono riflettersi in un aumento dei costi operativi degli intermediari (ad esempio, tassi di interesse, inflazione, ecc.).[4]
L’operatore finanziario quindi può recedere per giustificato motivo anche senza preavviso.
Ove ricorra un giustificato motivo, il legislatore ha ritenuto legittimo il recesso della banca sul presupposto che la banca non stia abusando del potere di recesso, ma stia auto tutelando il proprio credito.
Sempre ai sensi del comma 3 dell’art. 33 del codice del consumo, la banca può inoltre modificare i termini di un contratto a tempo indeterminato, esercitando quindi lo ius variandi, dando un congruo preavviso al cliente/consumatore che può esercitare il diritto di recesso avente, anche in tal caso, fonte legale.
Se il contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi finanziari è stato stipulato a tempo determinato, il professionista può modificare, senza preavviso, sempre che vi sia giustificato motivo, il tasso di interesse o l’importo di qualunque altro onere relativo alla prestazione finanziaria originariamente convenuti, dandone comunicazione immediata al consumatore che ha diritto di recedere dal contratto.
Queste clausole che sono in generale di assoluto favore verso il consumatore, ma prevedono la possibilità di aggiustamenti a favore del professionista finanziario, come si pongono rispetto all’articolo 117 bis e 118 del testo unico bancario?
Quale tutela per il consumatore può essere utilizzata nel caso in cui venga inserita la clausola unilaterale di recesso? Quella contenuta nell’articolo 33 del codice del consumo che postula la vessatorietà della clausola con la conseguente applicazione del regime della nullità protettiva di cui all’articolo 36 del medesimo codice oppure quella dell’articolo 120 bis del testo unico bancario? Le norme sono in rapporto di specialità reciproca, perché il consumatore è tale anche al di fuori dei contratti bancari, ed i contratti bancari non riguardano solo i consumatori. La regola fondamentale è sempre quella di assicurare la tutela minima garantita a livello comunitario, con la precisazione che l’articolo 120 bis ha un ambito di applicazione limitato ai soli contatti a tempo indeterminato.
[1] Le modifiche unilaterali dei contratti bancari, di Valerio Sangiovanni, in Rivista di diritto bancario, marzo 2012
[2] Cass. Civ, Sez I n. 17291/2016
[3] Cass. Civ., Sez I, Sentenze nn. 9321 del 2000 e 4538 del 1997
[4] MiSE, Chiarimenti in merito all’applicazione dell’art. 10 della legge 248/2006.