La materia è regolata dall’art. 1845 c.c. a norma del quale:
“Salvo patto contrario, la banca non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per giusta causa.
Il recesso sospende immediatamente l’utilizzazione del credito, ma la banca deve concedere un termine di almeno quindici giorni per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori.
Se l’apertura di credito è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni”.
Il recesso della banca dall’apertura di credito rappresenta una nota e conosciuta causa del tutto tipica di estinzione del rapporto creditizio. Il presente articolo analizza l’istituto alla luce dei contributi dottrinali e giurisprudenziali recenti.
Le ipotesi di recesso dall’apertura di credito
Si distingue, in tema, fra recesso straordinario (o anche per giusta causa), previsto normativamente, dal codice civile, solo per l’apertura di credito a tempo determinato, ma applicabile anche all’apertura di credito a tempo indeterminato; e recesso ordinario o con preavviso, destinato ad operare nell’apertura di credito a tempo indeterminato.
In materia di recesso della banca dall’apertura di credito si devono dunque differenziare le ipotesi del rapporto a tempo determinato, da quello a tempo indeterminato.
Nella prima ipotesi, la banca non potrà recedere prima della scadenza del termine concordato con l’affidato, se non in caso di una giusta causa (art. 1845 c.c.).
L’art. 1845, comma 1, c.c. consente che le parti concordino un patto contrario, che consenta quindi alla banca di recedere prima del tempo o in mancanza di una giusta causa.
La norma dell’art. 1845 c.c. costituisce una disciplina volta a tutelare evidentemente la banca e le sue ragioni di credito e quindi a derogare il principio generale di non recedibilità da un contratto già concluso (art. 1373 codice civile).
Il recesso della banca è, come ognun sa, un atto recettizio (Cass. Civ. sez. I 22 novembre 2000 n. 15066) e dunque segue la sorte degli atti recettizi per quanto attiene alla sua efficacia.
Il termine minimo fissato dalla norma è dunque di 15 giorni ed è previsto dalla legge evidentemente a favore del debitore accreditato (Cass. Civ. sez. I, 16 novembre 2000 n. 14859).
Le NUB, avvalendosi della facoltà di «salvo patto contrario» presente nell’incipit dell’art. 1845 c.c., prevedono la clausola di «fido fino a revoca», con attribuzione alla banca della «facoltà di recedere in qualsiasi momento, anche con comunicazione verbale, dall’apertura di credito, ancorché concessa a tempo determinato, nonché di ridurla o di sospenderla».
In materia di finanziamento ai consumatori, si segnala il dictum di un Arbitro che, in una nota decisione (ABF Roma, 12 giugno 2013, n. 3177) , sostiene che tale clausola sia nulla, in quanto contrastante con l’art. 125-quater, comma 2, lettera a, T.U.B., secondo il quale i contratti a tempo indeterminato possono prevedere la facoltà del finanziatore di recesso «con preavviso di almeno due mesi»; termine da rispettare anche in presenza di una giusta causa5, la cui sussistenza può comportare, ove ne ricorrano i presupposti, la sospensione dell’utilizzo del credito (art. 125-quater, comma 2, lettera b,T.U.B.).
Cosa si intende per recesso per “giusta causa”?
Anzitutto, deve tenersi conto della volontà contrattuale: le parti, in forza dell’autonomia contrattuale, possono infatti stabilire già nel contratto che determinati fatti/eventi/situazioni attinenti il rapporto contrattuale possano essere considerati come giusta causa di recesso.
In difetto di una specifica previsione contrattuale, devono considerarsi “giusta causa di recesso” tutti quei fatti che importano una modificazione delle basi essenziali del contratto (in dottrina: FERRI). Possono rilevare, in particolare, sia circostanze relative alle condizioni economiche dell’accreditato (p. es.: sopravvenuta insolvenza o, più semplicemente, peggioramento delle sue condizioni economiche così da mettere in pericolo la possibilità di restituzione) sia circostanze oggettive (sempre in dottrina: v. COLOMBO).
Per altro verso, come si è detto, si ritiene che la facoltà di recesso per giusta causa sussista anche per l’apertura di credito a tempo indeterminato, pur non essendo espressamente prevista dal 3° comma della norma in epigrafe.
Il recesso sospende l’utilizzazione del credito e fa decorrere un termine per l’estinzione del debito nei confronti della banca.
La questione degli assegni tratti dal correntista prima del recesso ma presentati successivamente
Sul punto, sarebbe infatti troppo agevole per il cliente della banca la creazione di assegni con data anteriore alla cessazione del rapporto (così attenta dottrina ed in particolare PORZIO, che evidenzia il problema).
Impossibile quindi che la prassi bancaria non sia corsa ai ripari.
L’ipotesi, dunque, viene contemplata dalla disciplina convenzionale, ed avallata dalla giurisprudenza (v. Cass. 8711/2006), che fanno obbligo al cliente di costituire senza dilazione i fondi necessari per il pagamento degli assegni, tratti prima del ricevimento della comunicazione di recesso, dei quali non sia decorso il termine di presentazione.
Il ruolo a favore dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria
Il recesso dall’apertura di credito a tempo determinato, nelle ipotesi di giusta causa tipizzata dal contratto, comporta che le statuizioni da parte del giudice, chiamato ad accertare la presunta legittimità e correttezza dello scioglimento del vincolo, non sia limitato ad uno scrutinio sulla semplice sussistenza o meno di fondate ragioni.
La giurisprudenza censura, infatti, quelle che denomina “modalità impreviste ed arbitrarie”, contrastanti- cioè- con la ragionevole aspettativa del contraente che, tenendo conto degli usuali comportamenti della banca, abbia correttamente valutato di poter disporre della provvista redditizia per un tempo concordato.
In queste ipotesi, infatti, il cliente della banca legittimamente potrebbe non essere pronto, in qualunque momento, alla restituzione del capitale utilizzato. Questo é il principio stabilito dalla Cassazione anche recentemente (Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 24 agosto 2016, n. 17291).
Compito del giudice, pertanto, diviene quello di accertare che le modalità di scioglimento siano in conformità con il principio di buona fede, volendosi escludere ipotesi di recesso illegittimo in quanto contrastante con le primigenie attese.
Onere della prova, buona fede e responsabilità della Banca
Con la risoluzione, l’istituto creditizio può evidentemente rifiutare il pagamento di addebiti sorti successivamente alla revoca dell’affidamento, non potendo però negare il deposito di provviste, salvo che il recesso non possa considerarsi esteso anche al conto corrente.
Né, tuttavia, secondo quanto stabilito dalla Cassazione, può considerarsi una giustificata aspettativa di credito per il cliente il pregresso beneficio ricevuto in casi di superamento del limite di utilizzo di un fido, dovuto peraltro ad importi già accreditati ma non concretamente incassati.
Spetta peraltro, secondo il generale principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) al debitore l’onere di dimostrare che le motivazioni su cui poggia il ritiro dal rapporto non siano legittime e al contempo egli, in virtù dei principi generali, sarà tenuto a dimostrare come la garanzia patrimoniale fornita sia in grado di tutelare il rapporto contrattuale in essere.
Quindi, il comportamento della banca recedente, ancorché sorretto da una giusta causa, deve essere apprezzato in base principi di correttezza nel rapporto obbligatorio ex art. 1175 c.c. e di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui all’art. 1375 c.c. .
Occorre dunque uno scrutinio teso a verificare se l’esercizio del diritto di recesso sia avvenuto “secondo buona fede”, tenendo conto che l’apertura di credito è un contratto di durata da eseguirsi mediante più utilizzazioni della disponibilità.
Per il caso in cui manchi una specifica pattuizione delle parti, in dottrina si è precisato il concetto di giusta causa, con riferimento sia all’aggravamento delle condizioni del cliente, divenute tali da porre in pericolo il credito; sia a comportamenti dello stesso, quali l’inadempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto, il mancato impiego della somma per i fini convenuti, l’aver fornito alla banca informazioni inesatte sulla propria situazione finanziaria, il non aver reintegrato la garanzia divenuta insufficiente; sia, infine, a circostanze oggettive relative all’accreditante, come disposizioni dell’autorità di vigilanza che rendano necessaria la restrizione o la sospensione del fido (in dottrina: Porzio).
In tale ottica, anche un recesso “giustificato”, ove esercitato con modalità contrastanti i principi di correttezza e buona fede, potrebbe così configurare – anche sulla scia degli orientamenti consolidatisi in altri ordinamenti, specie francese e tedesco – una responsabilità della banca per “brusca” o “brutale” revoca del credito, con conseguente obbligo di risarcire i danni subiti anche dai creditori dell’impresa finanziata per il procurato dissesto della stessa (Inzitari).
Il patto che esclude il preavviso o comunque lo riduce ad un termine così limitato da implicare sostanzialmente l’immediata insorgenza per l’accreditato del debito di restituzione necessita di specifica approvazione per iscritto, ai sensi dell’art. 1341 (Cass. 11566/1993; Cass. 1381/1987; T. Milano 24.10.1988), ora codice consumo (v. art. 33 cod. cons.).