Diritto alla provvigione del mediatore: quando la clausola è vessatoria

in Giuricivile, 2020, 12 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. II civ., sent.  n. 19565 del 08/09/2020

Nella sentenza in commento, la Seconda Sezione Civile della Cassazione ha ribadito che il sindacato giurisdizionale sul contratto concluso dal consumatore deve accertarne l’equilibrio normativo tra i diritti e gli obblighi delle parti, con particolare riferimento alla clausola vessatoria che attribuisca in ogni caso la provvigione al mediatore in caso di recesso del consumatore, a prescindere dall’attività concretamente svolta in relazione al momento in cui il recesso viene esercitato.

Il principio di diritto enunciato nella decisione in esame approfondisce le implicazioni del precedente costituito da Cass. Civ. Sez. Terza n. 22357 del 03.11. 2010 alla luce delle più recenti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea Lintner C/511-2017 del 11.03.2020 e Poznan C/495/2019 del 11.06.2020, offrendo importanti spunti per una riflessione sugli strumenti di sindacato del giudice sull’equilibrio contrattuale anche al di fuori della disciplina consumieristica.

Equilibrio economico ed equilibrio normativo nei contratti del consumatore.

La pronuncia in commento trae origine da una sentenza del Giudice di Pace di Roma, con cui veniva accolta l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da due coniugi, i quali lamentavano che la somma ingiunta a titolo di penale per il recesso da loro esercitato da un contratto di mediazione immobiliare avesse carattere vessatorio ai sensi dell’art. 4 del dlgs 206/2005.

In particolare, gli opponenti allegavano che la somma prevista a titolo di penale, pari all’1% del corrispettivo in caso di vendita dell’immobile, risultava nettamente sproporzionata e dovuta a prescindere in caso di recesso, non contemplando alcun adeguamento all’attività concretamente svolta dal mediatore fino al momento di esercizio del diritto da parte del consumatore.

La sentenza resa in primo grado veniva riformata in appello.

Il giudice del gravame, infatti, escludeva la vessatorietà della clausola penale dedotta in contratto, in quanto la stessa prevedeva, su un piano di parità per entrambe le parti, la possibilità di recedere dal contratto versandola stessa somma, inferiore ad un terzo dell’importo previsto a titolo di compenso per il mediatore in caso di effettiva vendita dell’immobile.

Avverso la sentenza resa dal giudice di appello, gli originari opponenti proponevano quindi ricorso per cassazione, censurando, in particolare, la violazione e falsa applicazione degli articoli 64 e 33 del dlgs 206/2005.

La Corte ha quindi esaminato la fondatezza delle censure svolte sulla base di un’interpretazione teleologicamente orientata del Codice del Consumo.

Questo costituisce un sistema normativo di tutela privatistica di matrice europea a connotazione soggettiva.[1]

La Direttiva UE n. 93/13 si basa infatti sul presupposto di una strutturale asimmetria di potere negoziale e di informazioni disponibili sussistente tra il contraente professionista ed il consumatore, che rende quest’ultimo bisognoso di una forma di tutela specifica, in grado di sopperire al rischio di un mero equilibrio formale, garantendo l’uguaglianza sostanziale tra i contraenti.

Nel nostro sistema giuridico ciò avviene per effetto dell’espresso richiamo dell’art. 1469 bis c.c. alla normativa consumieristica.

In questo modo si verifica l’innesto di due sistemi normativi basati su presupposti nettamente differenti.

Da un lato, il Codice Civile del 1942, di origine napoleonica, basato sulla necessità di superare gli ordinamenti consuetudinari dell’Ancien Régime su base soggettiva, che disciplina il contratto supponendo l’uguaglianza formale e sostanziale dei due contraenti ed il medesimo potere negoziale connesso al pari livello di informazione disponibile; dall’altro il Codice del Consumo, che torna ad una disciplina diversificata su base soggettiva al fine di garantire l’uguaglianza sostanziale tra i contraenti.

La sinergia tra il sistema normativo generale e la corrispondente disciplina speciale costituisce, dunque, un’applicazione in ambito privatistico del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione ma anche, a ben vedere, dell’art. 41, con cui si apre la cosiddetta Costituzione economica, che statuisce la libertà dell’iniziativa economica privata, di cui l’autonomia negoziale costituisce evidentemente una species, precludendo, allo stesso tempo, che questa possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, libertà e la dignità umana.

Nell’esaminare la valutazione sulla vessatorietà della clausola penale effettuata dal giudice di appello, la Corte di Cassazione ha premesso che il giudizio di vessatorietà ha innanzitutto ad oggetto l’equilibrio normativo del contratto, ossia la ripartizione di diritti ed obblighi tra i contraenti.

Infatti, ai sensi dell’art. 33 del Codice del consumo, esso non può estendersi a sindacare l’oggetto del contratto o il corrispettivo previsto dalle parti, ossia l’equilibrio economico dell’assetto di interessi predisposto tra gli stipulanti.

La distinzione tra i due tipi di sindacato viene ribadita con grande chiarezza nella sentenza in commento, ed assume rilievo dirimente sotto il profilo rimediale in caso di squilibrio del contratto.[2]

Infatti, l’equilibrio economico determinato dall’oggetto e dal corrispettivo rientra, nella ratio del Codice del consumo, nella libera esplicazione della libertà negoziale dei contraenti, a condizione che risulti colmato il divario informativo strutturalmente a favore del professionista, attraverso una predisposizione chiara e trasparente del contenuto dell’accordo, che ha indotto parte della dottrina a parlare, in proposito, di neoformalismo negoziale.[3] In caso di violazione delle regole di trasparenza, ove non siano previsti rimedi appositi, la giurisprudenza oscilla tra l’accertamento di una responsabilità risarcitoria precontrattuale ai sensi degli articoli 1173 e 1337 c.c., ovvero nella dichiarazione di nullità strutturale del contratto per difetto di causa ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c. nei casi più gravi. [4]

L’equilibrio normativo insito nell’accertamento delle clausole vessatorie attinente, invece, alla ripartizione di diritti ed obblighi tra il professionista ed il consumatore, è tutelato nel sistema del Codice del consumo dalla nullità di protezione della clausola squilibrata, non approvata separatamente e per iscritto dal consumatore.

Infatti, come evidenziato, la tutela del contraente debole è assunta dall’ordinamento come bene indiretto per tutelare valori di rango costituzionale come l’uguaglianza sostanziale e la libertà di iniziativa economica.

Da ciò discende anche la particolare natura della nullità predisposta, rilevabile anche d’ufficio dal giudice, in quanto posta a presidio di interessi generali, e tuttavia dichiarabile solo ove ritenuta a sé favorevole dal consumatore. [5]

Tutela del sinallagma: il caso del recesso

La distinzione tra sindacato economico e normativo è quindi il parametro individuato dalla Suprema Corte per valutare il giudizio di vessatorietà compiuto nella sentenza di appello.

Partendo da esso, la Corte ha ritenuto che la natura vessatoria della clausola penale che prevede, in caso di recesso di una delle parti dal contratto di mediazione il versamento di una somma inferiore ad un terzo del compenso in caso di vendita dell’immobile, non possa dirsi esclusa sulla base delle motivazioni fornite dal giudice dell’appello.

Infatti, non assume valore dirimente la circostanza che la clausola preveda il versamento della penale per entrambe le parti, per una somma inferiore ad un terzo del compenso del mediatore in caso di vendita dell’immobile, in quanto ciò attiene all’equilibrio economico del contratto, liberamente determinabile dalle parti ove predisposto nel rispetto dell’obbligo di clare loqui.

Ciò che assume invece valore vessatorio, nel caso in esame, è la circostanza che la penale così determinata risulti dovuta dal consumatore in ogni caso, a prescindere dalle attività concretamente svolte dal mediatore fino all’esercizio del diritto di recesso, e dunque anche nel caso in cui questo sia stato esercitato a pochi giorni dalla conclusione del contratto.

In tale ipotesi, infatti, la corresponsione automatica della somma prevista a titolo di penale costituisce una prestazione che il consumatore è tenuto a compiere indipendentemente dalla prova del compimento di qualsiasi attività da parte del mediatore diventando uno spostamento patrimoniale unilaterale e del tutto privo di giustificazione, dando luogo ad una vera e propria rendita di posizione, tale da alterare irrimediabilmente il sinallagma contrattuale, la reciprocità di diritti ed obblighi in capo alle parti.

Pertanto, ha errato il giudice di appello nel ritenere la clausola immune sulla base del solo contenuto economico della stessa, senza valorizzare, in fase di accertamento, due elementi fondamentali: la reciprocità dell’obbligo del consumatore rispetto alla prestazione svolta dal professionista ed il dato temporale : il tempo intercorso tra la conclusione del contratto e la comunicazione del recesso, così breve da non consentire al professionista di svolgere alcuna attività di ricerca, dato infatti non provato in giudizio dal professionista che agiva per la condanna al pagamento della penale.

Prospettive di diritto europeo e comparato: Casi Lintner e Poznar e nullità di protezione

La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha ripercorso la ratio legis sottesa alla Direttiva  93/13 CEE DEL CONSIGLIO del 5 aprile 1993  posta alla base della disciplina a tutela del consumatore.

Essa ha inteso predisporre un sistema normativo speciale, a base soggettiva differenziata, che deroga alla normativa generale del codice civile per garantire l’eguaglianza sostanziale dei contraenti, ove questi versino strutturalmente in una condizione di disequilibrio dovuto al loro diverso potere negoziale ed al dislivello conoscitivo.

La necessità di riequilibrare il negozio a tutela del consumatore, tuttavia, non può limitarsi ai soli strumenti di diritto sostanziale, poiché scopo precipuo della direttiva dell’Unione Europea è quello di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale del consumatore e del rispetto dei diritti garantiti dalla Direttiva UE 93/2013.

Pertanto, alla tutela sostanziale deve corrispondere un’adeguata tutela processuale del contraente debole.

Nell’esaminare questo profilo, la Corte di Cassazione richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e in particolare i due recenti casi, che hanno precisato il perimetro ed i limiti della tutela processuale del consumatore, contemperando con attenzione l’aspetto del rilievo officioso della nullità speciale con il principio di necessaria corrispondenza tra il chiesto e pronunciato.

In Corte di Giustizia  Lintner, C-511/17 del 11.03.2020, il Giudice europeo ha chiarito la portata dei poteri processuali del giudice che si trovi a sindacare un contratto di credito al consumo gli consente di esaminare d’ufficio il profilo della nullità della clausola vessatoria anche se questa non sia stata espressamente impugnata dal consumatore, purché si tratti di una clausola che sia comunque connessa con l’oggetto della domanda giudiziale proposta.[6]

La clausola potenzialmente abusiva deve essere innanzitutto interpretata dal giudice alla luce delle altre clausole contrattuali.

Ciò perché l’esame della clausola impugnata deve prendere in considerazione tutti gli elementi che possono essere pertinenti per comprendere tale clausola nel suo contesto, in quanto può essere necessario valutare l’effetto cumulativo di tutte le clausole di detto contratto.[7]

Tale rilievo costituisce un potere-dovere per il giudice, in quanto la nullità di protezione mira in tale sistema alla tutela di norme di ordine pubblico, e vige anche nel caso in cui il consumatore non compaia in udienza e perfino nell’ipotesi di sua contumacia in giudizio, come la Corte ha precisato nella successiva decisione Poznan C‑495/19  del 04.06.2020.

L’accertamento della nullità consente al giudice di assumere mezzi istruttori anche d’ufficio, purché sulla base di fatti comunque allegati in giudizio, e dunque ove gli elementi di diritto e di fatto già contenuti nel fascicolo processuale suscitino seri dubbi quanto al carattere abusivo delle clausole rilevate.[8]

La declaratoria di nullità, previa sottoposizione della questione al contraddittorio con le parti, deve essere dichiarata salvo che il consumatore non si opponga espressamente, dovendosi presumere, salvo prova contraria di cui è onerato il consumatore stesso, che la pattuizione della stessa sia ascrivibile alla mancanza di informazione e di professionalità del contraente nel settore.

Nel caso Poznan C‑495/19  del 04.06.2020, in sede di rinvio pregiudiziale da un nuovo caso di credito al consumo esaminato dall’omonimo tribunale polacco, la Corte di Giustizia ha statuito che l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, dev’essere interpretato nel senso che esso osta all’interpretazione di una disposizione nazionale la quale impedisca a un giudice, che sia investito di un ricorso proposto da un professionista nei confronti di un consumatore e rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva stessa e che statuisca in contumacia del consumatore di adottare i mezzi istruttori necessari per valutare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole contrattuali sulle quali il professionista ha fondato la propria domanda, qualora detto giudice nutra dubbi in merito al carattere abusivo di tali clausole, ai sensi della citata direttiva.

La Corte di Giustizia ha ribadito che, in linea di principio, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure attuative della Direttiva 93/13 applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, e che queste ultime sono soggette, pertanto, all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno e prevedano una tutela giurisdizionale effettiva, quale prevista dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali.[9]

A tal proposito la Corte ha dichiarato che, in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito.

Ciò implica che, per garantire la tutela voluta da detta direttiva, in una causa riguardante anch’essa un procedimento contumaciale, che la situazione di disuguaglianza tra il consumatore e il professionista può essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale.

È vero che la Corte ha precisato che il principio dispositivo, invocato anche dal governo ungherese nelle sue osservazioni scritte, nonché il principio del divieto di pronunciarsi ultra petita, rischierebbero di essere violati se i giudici nazionali fossero tenuti, in forza della direttiva 93/13, a ignorare o eccedere i limiti dell’oggetto della controversia fissati dalle conclusioni e dai motivi delle parti, richiamando espressamente in tal senso la propria precedente sentenza dell’11 marzo 2020, Lintner, C‑511/17, EU.

Tuttavia, in Poznan i giudici europei chiariscono ulteriormente che i principi dispositivo e del divieto di pronunciarsi ultra petita non ostano a che un giudice nazionale chieda al ricorrente, nel caso di specie un istituto bancario, di produrre il contenuto del documento o dei documenti su cui si fonda la sua domanda, poiché una siffatta richiesta tende soltanto ad assicurare il quadro probatorio del processo.[10]

Ne consegue che non può essere garantita una tutela giurisdizionale effettiva ove il giudice nazionale, investito da un professionista di una controversia che lo oppone a un consumatore e che rientra nell’ambito d’applicazione della direttiva 93/13, non abbia la possibilità, nonostante la mancata comparizione del consumatore, di verificare le clausole contrattuali sulle quali il professionista ha fondato la sua domanda, qualora sussistano dubbi sul carattere abusivo di tali clausole. Nel caso in cui tale giudice sia obbligato, in forza di una disposizione nazionale, a considerare veritiere le affermazioni fattuali del professionista, l’intervento positivo di tale giudice, richiesto dalla direttiva 93/13 per i contratti che rientrano nel suo ambito di applicazione, risulterebbe vanificato.

Pertanto, nell’applicare il diritto interno i giudici nazionali sono tenuti a interpretarlo quanto più possibile alla luce del testo e della finalità della direttiva 93/13, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima.

Di conseguenza, qualora il giudice del rinvio constati che una disposizione nazionale, quale l’articolo 339, paragrafo 2, del codice di procedura civile polacco impedisce al giudice che si pronunci in contumacia sul ricorso di un professionista di adottare i mezzi istruttori che gli consentono di procedere d’ufficio al controllo di clausole rientranti nell’ambito di applicazione di tale direttiva e che sono oggetto della controversia, l’interprete deve innanzitutto  verificare se si possa ipotizzare un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione che gli consenta di pronunciarsi in contumacia di adottare i necessari mezzi istruttori.

A tale riguardo occorre ricordare che spetta ai giudici nazionali, tenendo conto di tutte le norme del diritto nazionale e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, decidere se e in quale misura una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente alla direttiva 93/13, senza procedere ad un’interpretazione contra legem di tale disposizione nazionale. [11]

L’esigenza di garantire un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva I giudici nazionali, ove non possano interpretare e applicare la normativa nazionale in modo conforme alle disposizioni della direttiva 93/13, hanno l’obbligo di esaminare d’ufficio se le clausole convenute tra le parti abbiano natura abusiva e, a tal fine, di adottare le misure istruttorie necessarie, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione o giurisprudenza nazionali che ostino a tale esame. [12]

Pertanto, alla luce della più recente giurisprudenza UE sulla tutela processuale del consumatore deve ritenersi :

  • che il giudice possa-debba esaminare la vessatorietà della clausola contenuta nel contratto del consumatore purché la stessa sia connessa alla domanda giudiziale proposta
  • che il giudice sia tenuto all’accertamento anche in caso di mancata comparizione e perfino di contumacia del consumatore
  • che nel farlo possa assumere d’ufficio i mezzi istruttori necessari sulla base di fatti comunque necessariamente allegati in giudizio
  • che osta alla applicazione della Direttiva UE 93/13 una disposizione nazionale che impedisca tale accertamento al giudice, obbligandolo a considerare veritieri i fatti posti dal professionista a fondamento della domanda in caso di contumacia del consumatore.

Una simile norma dovrebbe quindi essere disapplicata dal giudice nazionale sulla base del sindacato diffuso che gli è consentito sulle disposizioni nazionali che violino le norme del diritto UE.

Alcune osservazioni sui rimedi esperibili a tutela dell’equilibrio contrattuale al di fuori della disciplina consumieristica: il ruolo della buona fede e l’abuso del diritto.

I princìpi sanciti dalla Corte di Cassazione e dalla Corte di Giustizia UE nelle sentenze citate offrono all’interprete diversi spunti di riflessione, in particolare in ordine alla possibilità di applicazione di tali princìpi oltre l’ambito della disciplina consumieristica ed ai limiti implicati da tale traslazione.

Sotto il primo profilo, deve ritenersi che la tutela del contraente che receda dal contratto in un lasso di tempo brevissimo e sia destinatario della richiesta di una somma a titolo di penale o di acconto, a prescindere dall’esecuzione anche di una minima attività esecutiva della prestazione da parte del creditore, possa essere innanzitutto esaminata sotto il versante della buona fede contrattuale.

Il contratto, ai sensi degli articoli 1366 e 1375 c.c., deve essere interpretato ed eseguito secondo buona fede, intesa come condotta improntata a lealtà e correttezza delle parti, per cui deve ritenersi che la clausola in esame non possa essere intesa nel senso di determinare la debenza del compenso in modo rigidamente automatico, a prescindere dallo svolgimento di attività preparatorie all’esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto, ove il recesso sia stato comunicato quasi contestualmente alla stipula del contratto dall’altro contraente.

Tale principio risulta ribadito dalla esaminata giurisprudenza di legittimità, che ha infatti sostenuto la vessatorietà della clausola che preveda in modo automatico un compenso in favore del mediatore che abbia subìto l’esercizio del recesso della controparte, senza che risultino provate ed allegate almeno le attività preparatorie necessarie all’esecuzione del contratto.

Tale statuizione della Suprema Corte, ancorché dettata con concreto riferimento ad una clausola vessatoria, deve essere considerata come espressiva di un più generale richiamo alla interpretazione ed esecuzione di ogni contratto secondo buona fede in quanto, come precisato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, anche nei contratti non rientranti nella disciplina cosumieristica è possibile e doveroso far ricorso alla interpretazione del contratto secondo buona fede, ex art. 1366 c.c. [13]

In questo caso, tuttavia, la posizione virtualmente di pari forza negoziale tra le parti che è alla base della disciplina generale del contratto dettata dal Codice civile, induce a ritenere precluso al giudice il rilievo d’ufficio, potendo la questione essere sollevata solo dalla parte interessata attraverso il meccanismo dell’exceptio doli, eccezione in senso stretto rimessa alla valutazione discrezionale della parte destinataria della richesta e non rilevabile d’ufficio dal giudice.[14]

Altro rimedio ad hoc previsto in caso di recesso è rappresentato dal potere di riduzione della penale iniqua ai sensi dell’art. 1384 c.c. In questo caso, peraltro, trattandosi di un potere espressamente conferito al giudice dalla legge a tutela dell’equilibrio contrattuale, la giurisprudenza di legittimità considera la riduzione operabile anche d’ufficio.[15]

Infine, può in questa sede farsi cenno ad un altro rimedio ad hoc dettato dal legislatore in tema di contratto di mandato all’art.1720 c.c. Tale norma prevede espressamente che il mandante deve sempre rimborsare al mandatario le anticipazioni effettuate nell’esecuzione dell’incarico, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta. Secondo un’interpretazione funzionalmente orientata della norma in esame, tali anticipazioni devono essere intese come gli esborsi effettuati dal mandatario a causa del contratto di mandato e dunque riconducibili a questo sotto il profilo causale e non meramente cronologico, dovendosi avere riguardo per la cd. causa in concreto e dunque per la funzione economico sociale che le parti intendevano realizzare.[16]

Pertanto, rientrare nella nozione di anticipazioni anche le spese effettuate nell’ambito delle trattative precontrattuali che hanno condotto alla stipula del mandato, secondo il medesimo regime probatorio della responsabilità contrattuale, in base al combinato disposto degli articoli 1173 comma 3, 1337, 1218 e 2697 c.c.

Sotto questo profilo, occorre preliminarmente considerare che le norme dell’art. 1720 sono il corollario di quelle dell’articolo 1719.

Secondo un primo criterio di interpretazione storica, occorre considerare che l’art. 1752 del Codice del 1865 prevedeva anche il rimborso delle spese. Tale previsione manca nell’art. 1720: ma l’obbligo di rimborsare le spese deve considerarsi logicamente compreso in quello del rimborso delle anticipazioni.

Il mandante non può opporre che l’affare non è riuscito ovvero che le spese potevano essere minori se il mandatario ha speso quanto un buon padre di famiglia avrebbe erogato per eseguire l’affare.

Il mandante deve al mandatario anche gl’interessi legali, che decorrono dal giorno delle anticipazioni perché hanno carattere compensativo. Se è controversa la data, il mandatario deve provare che è vera quella da cui domanda gl’interessi.

Nel concetto di anticipazioni è compresa anche la destinazione di somme proprie del mandatario per l’esecuzione del mandato, purché sia effettiva e accompagnata dalla indisponibilità delle somme stesse per un fine diverso.

La decorrenza degl’interessi dalla data indicata riguarda le anticipazioni: non vale per le altre somme di cui il mandatario sia eventualmente creditore del mandante. Se questo per es. ritarda il pagamento del compenso la decorrenza degl’interessi sulla somma dovuta si stabilisce con i criteri generali.

La giurisprudenza di legittimità ha quindi precisato, con specifico riferimento alle somme dovute dal mandatario, che Il mandatario per ripetere dal mandante la somma di danaro dovuta ad un terzo a titolo di penale per l’inadempimento, per fatto e colpa del mandante, dell’obbligazione contratta, a proprio nome, al fine di dare esecuzione al mandato, deve provare l’effettivo esborso della somma al terzo, non trattandosi di mezzo occorrente per l’adempimento dell’obbligazione ex art. 1719 c.c., bensì rientrando tale situazione nella disciplina del secondo comma dell’art. 1720 c.c., a tenore del quale “il mandante deve risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell’incarico”.[17]

Inoltre, “nell’ipotesi di mandato oneroso il diritto del mandatario al compenso e al rimborso delle anticipazioni e spese sostenute è condizionato alla presentazione al mandante del rendiconto del proprio operato, che deve necessariamente comprendere la specificazione dei dati contabili delle entrate, delle uscite e del saldo finale.” [18]

Dall’interpretazione storica, sistematica e teleologica della norma in esame, anche alla luce dei principi sanciti dalla giurisprudenza di legittimità, si evince che le somme richieste dai terzi al mandatario sono qualificabili come anticipazioni e che queste devono corrispondere a degli esborsi effettivi, in quanto la norma prevede la decorrenza di interessi dalla data del pagamento, o quanto meno dalla effettiva indisponibilità di somme vincolate dal mandatario. Tali anticipazioni devono corrispondere a delle uscite per il mandatario e quindi devono essere riscontrabili attraverso i dati contabili di quest’ultimo.

L’art 1720 c.c. sulla restituzione delle anticipazioni effettuate dal mandatario, pur essendo norma dettata per disciplinare un contratto tipico, costituisce un’applicazione specifica del principio di buona fede in sede di interpretazione ed esecuzione del contratto,  e quindi riempie di significato la clausola generale, illustrandone l’applicazione concreta.

Dalla stessa sembra quindi lecito desumere che, anche per i contratti paritetici di cui al sistema generale del Codice civile, la lealtà e correttezza nell’applicazione del negozio non consenta ad una delle parti di chiedere la condanna ad una somma di denaro che non sia giustificata dall’esecuzione di una prestazione, ovvero dalla preparazione concreta della stessa mediante esborso o vincolo economico, determinandosi altrimenti un’alterazione evidente del sinallagma contrattuale.

Deve tuttavia ritenersi che, ove non sia previsto una precisa tipizzazione normativa di tale meccanismo di tutela, il generale meccanismo dell’interpretazione e dell’esecuzione del negozio secondo buona fede possa essere attivato solo mediante l’exceptio doli della parte, e non possa quindi essere rilevato d’ufficio dal giudice secondo lo schema del contratto claudicante inverato dalle discipline speciali a tutela del contraente debole, di cui il Codice del Consumo rappresenta, ad oggi, la più riuscita e paradigmatica tipizzazione.


[1] La differenziazione della disciplina su base soggettiva è esplicitata dall’art. 3 del dlgs 206/2005, che prevede le definizioni normative di “consumatore” e di “professionista”. Il primo viene individuato, nella lett. a) come la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Il secondo è invece la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale.

Secondo l’interpretazione prevalente, fondata sulla teoria dello scopo obiettivo del contratto, deve essere esclusa la qualità di consumatore del soggetto che abbia concluso il contratto per finalità promiscue, sia professionali che personali o familiari. Un’interpretazione restrittiva è infatti conforma alla natura derogatoria della regola del foro del consumatore sul versante processuale, e risponde ai principi di certezza del diritto e di prevedibilità del giudice competente previsti dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Infatti, la finalità di tutela del consumatore quale contraente debole previsti dagli articoli 13 e 15 della Convenzione risulterebbero vanificati da un’interpretazione eccessivamente estensiva del consumatore, tale da includere anche gli atti compiuti per fini promiscui.

[2] Cfr. in particolare i paragrafi 3.19 e ss della sentenza in commento, in cui la Cassazione approfondisce il principio di necessaria gradualità del meccanismo convenzionale che attribuisce la provvigione al mediatore in ragione dell’attività concretamente svolta e 3.24, dove viene rimarcata in maniera molto nitida la differenza tra sindacato economico sulla congruità del corrispettivo, non ammesso, e sindacato normativo avente ad oggetto l’equilibrio convenzionale.

[3] Sulla forma del contratto come strumento di tutela del contraente debole finalizzato a richiamare la sua attenzione in modo puntuale sul contenuto degli obblighi contrattuali, in relazione alla quale si suole parlare di neoformalismo o di formalismo negoziale, si considerino in particolare i contributi di Pagliantini, 2011, 772; id., 2017, 679; id., 2012, p. 325 ss. Berti De Marinis 2014, 612 ss.; id., 2016, 283; Girolami, 2017, 543 ss.; La Rocca, 2017, 13; Id., 2017, 2740 ss.; De Bona, 2014; Breccia, 2006, 535 ss

[4] Si pensi alla recentissima Cassazione SS.UU sentenza n. 8770/2020 pronunciata in riferimento a dei contratti di Interest Rate Swap (IRS), che ha inteso abbracciare quell’orientamento giurisprudenziale che trova il proprio capostipite nella nota sentenza della Corte di Appello di Milano n. 3459 del 2013, secondi cui la carenza informativa circa gli elementi sopradetti non costituisca una mera violazione di regole di comportamento da parte dell’Intermediario e quindi suscettibile di generare una sua responsabilità precontrattuale o contrattuale, con obbligo di risarcimento danni (ex SS.UU. sentenze nn. 26724 e 26725 del 2007), bensì integrante il difetto di causa e quindi la nullità del contratto ex artt. 1418, comma 2, c.c. e 1322, comma 2, c.c.

[5] 2. Si veda Cass. –Sez. Unite– 16 gennaio 2018, n. 898 sulla natura di nullità relativa di protezione per difetto di forma scritta contenuta nell’art. 23 del d. lgs. n. 58/1998,   che può leggersi in Foro it., 2018, I, 928 con nota di Medici; nonché in Banca borsa tit. cred., 2018 con note di Chiarella, 292 e di Mirone, 275.  Il medesimo principio dalla prima sezione della Suprema Corte è stato ritenuto espressamente applicabile anche ai contratti bancari, in relazione ai quali

l’art. 117, terzo comma, del d. lgs. n. 385/1993 prevede il requisito della forma scritta a pena di nullità: . Cfr. Cass. 21 giugno 2018, n. 16362, in Banche dati De Jure, archivio Cassazione civile.

[6] E’ interessante notare che, nel caso specifico sottoposto alla Corte di giustizia dalla giurisdizione ungherese, le clausole vessatorie non impugnate dalla sig.ra Lintner non sono concretamente risultate connesse all’oggetto della controversia principale, in quanto la tutela richiesta dall’attrice, riguardante specificamente le clausole che consentono all’UniCredit Bank di modificare unilateralmente il contratto, non dipende in alcun modo da una decisione relativa alle clausole potenzialmente vessatorie. La domanda verteva, in altri termini, solo sullo ius variandi attribuito unilateralmente alla Banca e non sullo squilibrio delle prestazioni. I giudici europei hanno quindi chiarito che, in tal caso, l’obbligo di esame d’ufficio risultante dalla direttiva 93/13 non si estende a dette clausole, fatte salve le verifiche che il giudice del rinvio dovrà, se del caso, effettuare per quanto riguarda l’oggetto preciso di detta controversia, alla luce delle conclusioni e dei motivi dedotti dalla sig.ra Lintner. Tale constatazione lascia tuttavia impregiudicata la possibilità di cui la sig.ra Lintner potrebbe, se del caso, decidere in forza del diritto nazionale applicabile, di proporre un nuovo e diverso e ricorso riguardante le clausole del contratto che non erano oggetto del suo ricorso iniziale o di estendere l’oggetto della controversia di cui il giudice del rinvio è investito, su invito di detto giudice o di propria iniziativa.

[7] La Corte di Giustizia richiama espressamente, in tal senso, la propria precedente sentenza del 21 aprile 2016, Radlinger e Radlingerová, C‑377/14.

[8] Si potrebbe ritenere, nel caso di impugnazione di un conto corrente, che alla luce di tale giurisprudenza il giudice  potrebbe chiedere la produzione del contratto o degli estratti conto mancanti.

[9] La Corte di Giustizia richiama in questa sede il principio di equivalenza già facente parte del diritto acquisito comunitario,  l’insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli stati membri dell’Unione europea e che devono essere accolti senza riserve dai paesi che vogliano entrare a farne parte, ribadito nelle recenti sentenze del 31 maggio 2018, Sziber, C‑483/16, EU:C:2018:367, punto 35, e del 3 aprile 2019, Aqua Med, C‑266/18, EU:C:2019:282, punto 47).

[10]   Principio già affermato dalla Corte nella sentenza del 7 novembre 2019, Profi Credit Polska, C‑419/18 e C‑483/18, EU:C:2019:930, punto 68.

[11] Cfr. sul punto la sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C‑414/16, EU.

[12] I passaggi interpretativi richiesti all’interprete dello Stato membro sono quindi graduali e postulano un primo tentativo di interpretazione conforme della disposizione nazionale, anche attraverso un superamento della giurisprudenza consolidata, e solo in via residuale la disapplicazione della norma interna contrastante con il Diritto dell’Unione.

[13]  Cfr.Cassazione civile, Sez. III, sentenza n. 11487 del 21 giugno 2004.

[14] Per un’applicazione della soluzione interpretativa in esame con riferimento al contratto di mandato: Tribunale Potenza Sez. Civ. Sentenza n. 842 del 18.11.2020.

[15] Cfr. Cassazione civile sez. II, 19/12/2019, n.34021; Cassazione civile sez. I, 19/07/2018, n.19320 secondo cui, di conseguenza, la relativa domanda di riduzione può essere proposta per la prima volta in appello, potendo anzi il giudice provvedervi anche d’ufficio, sempre che siano state dedotte e dimostrate dalle parti le circostanze rilevanti al fine di formulare un giudizio di manifesta eccessività della penale stessa.

[16]  Tribunale Potenza Sez. Civ. Sentenza n. 842 del 18.11.2020.

[17] cfr. Cassazione civile, Sez. III, sentenza n. 6306 del 4 giugno 1991.

[18] Cfr. Cassazione civile, Sezione terza, sentenza n. 3596 del 28 aprile 1990.

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