Prescrizione del credito professionale: ecco quando si interrompe

La Seconda Sezione Civile della Cassazione, con la sentenza n. 26286 del 27 settembre 2025 (clicca qui per consultare il testo integrale della decisione), si confronta con una delle questioni più insidiose del diritto delle obbligazioni professionali: la tenuta della prescrizione presuntiva e l’individuazione degli atti idonei a interromperne il decorso. In un contesto di rapporti fiduciari ormai logorati tra professionista e cliente, la Corte di cassazione è chiamata a chiarire se determinati comportamenti — l’invio di una fattura, un pagamento parziale, una registrazione stragiudiziale — possano costituire riconoscimento del debito o interruzione della prescrizione. La pronuncia offre anche l’occasione per ribadire principi di rilievo costituzionale sul ruolo dei giudici ausiliari d’appello, sul valore probatorio delle ammissioni extraprocessuali e sull’autonomia della domanda di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. , con riflessi sistematici sull’applicazione del principio di soccombenza.

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Formulario commentato del nuovo processo civile

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Lucilla Nigro
Autrice di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022.

 

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Il contesto fattuale e l’itinerario processuale

Un avvocato, dopo aver svolto un incarico in sede penale, richiede al proprio cliente il pagamento del compenso residuo. Il rapporto, un tempo fiduciario, si incrina quando il cliente sostiene di aver già estinto il debito, invocando la prescrizione presuntiva triennale prevista dall’art. 2956 c.c. per le prestazioni dei professionisti.

Nasce così un contenzioso incentrato su una domanda di pagamento e una contrapposta eccezione di estinzione del credito. Il professionista insiste sull’esistenza di atti interruttivi: una fattura, un versamento parziale e una successiva comunicazione. Il cliente oppone la presunzione legale di adempimento e nega ogni riconoscimento del debito.
Ne consegue un iter giudiziario complesso, che giunge sino alla Corte di legittimità per verificare se, nel corso del tempo, la condotta delle parti abbia realmente interrotto o meno il decorso del termine prescrizionale.

La questione preliminare: la partecipazione dei giudici ausiliari e la tenuta costituzionale del sistema

In apertura, la Corte affronta una questione di rilievo istituzionale: la legittimità costituzionale delle norme che attribuiscono ai giudici ausiliari d’appello funzioni collegiali.
Il ricorrente denunciava il contrasto con l’art. 106, comma 2, Cost., secondo cui i magistrati onorari possono essere nominati solo “per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli”.

La Cassazione, in linea con la giurisprudenza costituzionale, dichiara la censura infondata. Viene richiamata la sentenza n. 41/2021 della Corte costituzionale, la quale ha riconosciuto una “tollerabilità costituzionale temporanea” della partecipazione dei giudici onorari ai collegi d’appello, sino al completamento della riforma della magistratura onoraria previsto dal d.lgs. n. 116/2017.
La pronuncia assume un significato non meramente processuale, ma politico-istituzionale: tutela l’equilibrio tra la necessità di garantire l’efficienza del sistema giudiziario e quella di non pregiudicare i diritti delle parti attraverso un formalismo demolitorio.
In questa prospettiva, la Corte riafferma un principio di continuità funzionale: le decisioni emesse con la partecipazione dei giudici ausiliari conservano piena validità, a condizione che siano rispettate le garanzie di indipendenza e terzietà.

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La prova della registrazione e i limiti dell’ammissione stragiudiziale

Il secondo profilo di interesse concerne la produzione in giudizio di una registrazione audio nella quale il cliente, secondo la tesi del professionista, avrebbe riconosciuto di non aver integralmente pagato la parcella.
La Corte precisa che, ai sensi dell’art. 2712 c.c., la registrazione su supporto magnetico può valere come prova solo se la parte contro la quale è prodotta non la disconosce formalmente e tempestivamente. Nel caso in esame, il disconoscimento era stato rituale, sicché la prova non poteva essere utilizzata.

Ma la Corte va oltre la dimensione formale: anche in ipotesi di mancato disconoscimento, la conversazione avrebbe potuto rilevare solo come ammissione stragiudiziale, priva di efficacia nel meccanismo della prescrizione presuntiva.
Quest’ultima, ricorda la Corte, è un istituto di particolare rigore: si fonda sulla presunzione di avvenuto pagamento, che può essere vinta solo mediante ammissione in giudizio o giuramento decisorio.
La registrazione, anche se genuina, essendo intervenuta fuori dal processo e, peraltro, in epoca successiva alla maturazione del termine prescrizionale, non poteva né interrompere la prescrizione né fungere da prova del mancato pagamento.

Il messaggio che ne deriva è netto: nel regime della prescrizione presuntiva, la tutela del creditore è subordinata al rispetto di forme probatorie tipiche, non surrogabili da dichiarazioni o condotte atipiche, per quanto suggestive.

L’invio della fattura: tra documento fiscale e atto di costituzione in mora

L’attenzione della Corte si concentra poi sull’idoneità della fattura professionale a interrompere la prescrizione.
Il creditore sosteneva che l’emissione e l’invio della fattura, contenente la parola “pagate”, integrasse una richiesta inequivoca di adempimento.
La Corte ribadisce invece un principio di stretta legalità: la fattura, in sé, non costituisce atto interruttivo della prescrizione. È un documento contabile e fiscale, privo di contenuto precettivo, salvo che contenga una chiara intimazione di pagamento o un’espressa costituzione in mora ai sensi dell’art. 1219 c.c.

Il valore interruttivo presuppone due elementi:

  1. la recettizietà, ossia la conoscenza effettiva da parte del debitore;
  2. l’univocità della volontà del creditore di esercitare il proprio diritto.

Nel caso di specie, la fattura era stata inviata a un soggetto terzo, non obbligato in via diretta, e mancava un termine di adempimento.
La Corte precisa che la semplice presenza della formula “pagate” non è sufficiente: può essere letta anche come annotazione contabile o come dichiarazione di quietanza.

La decisione valorizza il dato sostanziale: un atto può produrre effetti interruttivi solo se il suo contenuto e il suo destinatario consentono al debitore di percepire con chiarezza che il creditore intende esercitare il diritto.
Si consolida così l’orientamento per cui la fattura ha natura neutra, divenendo atto interruttivo solo se accompagnata da una comunicazione che manifesti, in modo inequivoco, la volontà di ottenere il pagamento.

Il pagamento parziale e l’assenza di riconoscimento del debito

Altro tema di rilievo è il valore del pagamento parziale ai fini dell’interruzione della prescrizione.
Secondo la tesi del professionista, il versamento di una somma inferiore a quella dovuta avrebbe implicato un riconoscimento implicito del residuo debito.
La Corte rigetta questa interpretazione. Il riconoscimento del debito, idoneo a interrompere la prescrizione ex art. 2944 c.c., richiede una manifestazione di volontà consapevole e inequivoca. Il pagamento parziale, se non accompagnato da un’espressa indicazione che si tratti di “acconto”, non può essere letto come ammissione della persistenza di un debito ulteriore.

La motivazione sottolinea inoltre che il debitore, nel corso del giudizio, aveva addotto una diversa imputazione del pagamento, riferendolo a un’altra prestazione professionale.
Questa circostanza escludeva ogni possibilità di attribuire al versamento un significato confessorio.

La Corte si richiama a un orientamento consolidato: il pagamento parziale può assumere valore interruttivo solo se inserito in un quadro di comportamento incompatibile con la volontà di eccepire la prescrizione. In mancanza, resta un atto neutro, privo di effetti ricognitivi.

La decisione rafforza così l’idea che, nel bilanciamento tra certezza e giustizia del caso concreto, la Cassazione preferisca la prima: la prescrizione non si interrompe senza una manifestazione chiara e diretta del debitore o un atto espressivo della volontà del creditore di esigere il pagamento.

La domanda di responsabilità aggravata e il principio di soccombenza

Sul piano processuale, la sentenza affronta anche la domanda di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. e il tema della compensazione delle spese di lite.
La Corte chiarisce che la responsabilità per lite temeraria richiede la prova del dolo o della colpa grave, nonché l’esistenza di un danno effettivo e allegato in modo specifico.
Non è sufficiente il mero fatto della soccombenza, né il semplice disagio derivante dalla pendenza del giudizio.
Il giudice deve accertare che la parte abbia agito con abuso del processo o consapevolezza dell’infondatezza delle proprie pretese.

La pronuncia ribadisce, inoltre, un principio processuale di rilievo: la domanda ex art. 96 c.p.c. ha natura accessoria e non comporta pluralità di domande contrapposte.
Pertanto, il rigetto della stessa non giustifica la compensazione delle spese in presenza di una parte pienamente vittoriosa sul merito.

Questo punto è decisivo: la Corte, accogliendo il ricorso incidentale, cassa la decisione impugnata nella parte relativa alle spese, riaffermando che la regola della soccombenza integrale deve prevalere, salvo casi eccezionali.
La statuizione si inserisce nel più ampio processo di razionalizzazione del sistema delle spese processuali, volto a evitare automatismi e a garantire coerenza con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Considerazioni conclusive

La pronuncia in esame si distingue per coerenza argomentativa e rigore sistematico.
Sotto il profilo sostanziale, essa riafferma una visione formalmente garantista della prescrizione: l’interruzione è un evento eccezionale, che deve risultare da comportamenti inequivoci e tipizzati.
La Corte protegge la certezza dei rapporti giuridici, rifiutando di ampliare il campo di applicazione di atti “ibridi” o di condotte ambigue.

Sul piano processuale, la sentenza offre una lettura equilibrata della responsabilità aggravata: l’abuso del processo non può essere presunto, ma deve emergere da una condotta chiaramente dolosa o gravemente colposa.
Al contempo, la decisione rafforza la coerenza applicativa del principio di soccombenza, escludendo che il rigetto di una domanda accessoria possa legittimare la compensazione delle spese.

Nel complesso, la Cassazione delinea un modello di rigore e sobrietà: rigore nella delimitazione degli effetti giuridici della condotta delle parti, sobrietà nel bilanciamento tra esigenze di efficienza e garanzie individuali.
La vicenda, apparentemente minuta, diventa così una micro-rappresentazione della logica del processo civile: la forma non è un ostacolo alla giustizia, ma la sua condizione di esistenza.

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