Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari: presupposti e contenuto del provvedimento

in Giuricivile, 2018, 6 (ISSN 2532-201X)

La disciplina degli ordini di protezione familiare è relativamente recente, introdotta dalla legge n.154 del 2001, è intervenuta nel nostro ordinamento introducendo misure specifiche contro la violenza nelle relazioni familiari. La normativa ha operato su quanto stabilito da tre codici: il codice civile, il codice di procedura civile ed infine, il codice di procedura penale.

Il bene giuridico protetto, che gli ordini di protezione mirano a ripristinare, è costituito dalla serenità familiare e dal prevalere dell’interesse del singolo rispetto a quello dei membri della famiglia.

Il legislatore ha così inserito, all’interno del I libro del codice civile, il nuovo titolo IX-bis rubricato “Ordini di protezione contro gli abusi familiari”: gli articoli introdotti dalla normativa del 2001 sono connessi alla previsione di una specifica disposizione, l’art. 736 bis, c.p.c., il quale detta la disciplina procedurale in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari.

Vi è da rilevare come i temi in materia di maltrattamenti familiari siano di difficile disciplina, poiché si mira a dettare una normativa generale ed astratta, come è quella legislativa, per fattispecie concrete che difficilmente presentano tra di loro tratti comuni.

Si evidenziano così difficoltà interpretative ed applicative, su una legge che presenta innumerevoli sfaccettature nella realtà sociale.

La quotidianità della cronaca e della letteratura giuridica ci ha mostrato come sia molto difficile l’ambiente familiare, in alcune realtà sociali. Realtà in cui un coniuge o un genitore – con soprusi, vessazioni e violenze psicologiche e/o fisiche – impone la sua autorità e le sue regole.

La famiglia è nell’immaginario collettivo un luogo sicuro e protetto dagli abusi, il terreno degli affetti più spontanei ed immediati che infonde nei membri la convinzione di essere alleati a chi, poi, si rivelerà invece il nemico. [1]

Il nodo della questione è che la relazione familiare diviene così inesorabilmente terreno fertile per l’aggressore e limite per la vittima che non trova la forza di reagire e di denunciare i maltrattamenti cui è sottoposta.

I testi normativi di riferimento in materia sono due:

  • la l. 28 marzo 2001, n. 149, dedicata principalmente alla riforma della disciplina dell’adozione, ma recante altresì alcune modifiche delle norme contenute nel codice civile sulla potestà dei genitori e sul suo controllo da parte del tribunale dei minorenni
  • e la l. 4 aprile 2001, n. 154.

La riforma, a suo tempo, fu accolta con entusiasmo dagli operatori del diritto, poiché ebbe ed ha tutt’oggi il merito di offrire una maggiore tutela ai soggetti deboli all’interno della famiglia, soggetti che trovano, in questo modo, un’ancora di salvezza per chi è vittima di violenza, ma non ha coraggio di denunciare o di affrontare la causa di separazione.[2]

Per comprendere a pieno l’istituto giuridico in parola, occorre capire la dimensione in cui si collocano gli ordini di protezione nel nostro ordinamento.

Gli ordini di protezione: definizione e requisiti per l’emanazione

Gli ordini di protezione sono stati definiti come misure cautelari civili tipiche, che non rispettano le garanzie già richieste dal diritto processuale penale ai fini dell’emanazione dei provvedimenti cautelari che vengono disposti in tale sede.

Quando possono essere effettivamente emanati dal giudice gli ordini di protezione familiare?

“Questi ultimi si possono richiedere quando la condotta del coniuge o di altro convivente o componente del nucleo familiare adulto è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente o componente del nucleo familiare adulto, sempre che non sia stata proposta domanda di separazione o divorzio.

In tale ultimo caso, ai sensi dell’articolo 8 di tale legge, la pendenza di un procedimento di separazione o divorzio in cui sia stata svolta l’udienza presidenziale è condizione di inammissibilità per la pronuncia degli ordini di protezione”.

I predetti ordini potranno essere chiesti ed emessi anche durante il tempo intercorrente tra il deposito del ricorso per separazione e divorzio e l’udienza presidenziale, la c.d. zona grigia, e perderanno autonomamente efficacia una volta emessi i provvedimenti presidenziali.

La loro durata è in genere non superiore ad un anno può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrono gravi motivi e per il tempo strettamente necessario.

La legge ha disposto precisamente delle misure cautelari contro la violenza nelle relazioni familiari consistenti nell’ordine, da parte del giudice, della cessazione della condotta violenta ed eventualmente nell’allontanamento coercitivo dalla casa familiare.

Cosa si intende per “violenza giuridicamente rilevante”: casi concreti di abuso familiare

A questo punto, di fondamentale importanza è individuare cosa debba intendersi per violenza giuridicamente rilevante per poter applicare gli ordini di protezione.

In dottrina si è evidenziata la nozione di violenza intrafamiliare ed endofamiliare, quale nozione riconducibile alle cd. clausole generali, di portata davvero ampia nella quale rientrano molteplici significati.

La violenza in ambito familiare è stata riconosciuta come tale circa un decennio prima della legge n.154/2001, le violenze familiari risentivano di un retaggio culturale che tendeva a minimizzare e a giustificare, riducendo le condotte legate ai torti a meri conflitti coniugali (o tra conviventi), cui non si doveva dare troppa importanza e destinati ad essere contenuti all’interno delle mura domestiche.

Quando effettivamente si può parlare di maltrattamento in famiglia o di abuso familiare? 

La risposta non è semplice, giacché è un fenomeno che si manifesta con modalità ed intensità sempre diverse che vanno a ledere molteplici aspetti della persona umana, non solo il corpo ma anche e soprattutto la psiche.

Di fronte ad una molteplicità di eventi e di condotte il legislatore ha dovuto individuare un indicatore comune di tutte questi comportamenti lesivi dell’ integrità familiare, per giungere a qualificare il fenomeno in base alla finalità cui gli atti sono diretti: la sopraffazione del familiare debole attraverso strategie umilianti e dolorose, che comportano per chi le subisce penose condizioni di vita, che sono espressione di potere e controllo volte a sottomettere la vittima.

A titolo esemplificativo, queste possono estrinsecarsi in:

  • mancanza di prestazione dell’assistenza morale e materiale;
  • una violenza verbale;
  • un ricatto economico;
  • un pregiudizio all’integrità psichica;
  • un divieto di realizzare le proprie scelte individuali;
  • lesioni alla persona;
  • una forma di cd. violenza assistita.

Più nello specifico, si deve verificare quello che è chiamato il vulnus alla dignità dell’individuo di entità non comune, e dalla condotta deriva pericolo di nocumento all’integrità fisica o morale.

In giurisprudenza si è definita la condotta pregiudizievole, come quella condotta con la quale si sono perpetrate reiterate azioni ravvicinate nel tempo e consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati all’art. 342-bis, in modo che ne sia gravemente, e senza soluzioni di continuità temporale, alterato il regime di normale convivenza familiare.

I Tribunali di merito hanno così ritenuto che anche un unicu actu, possa essere sufficiente per l’applicazione delle misure di protezione.

È un compito molto delicato per il giudice individuare la condotta pregiudizievole degna di tutela anche per evitare di emettere ordini di allontanamento in casi costruiti ad arte per estromettere ad esempio un convivente scomodo. Per tale ragione, è bene individuare il minimum di condotta che possa determinare l’applicazione degli ordini di protezione, e individuare l’illegittimo evento dannoso, in altre parole il grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà dell’altro coniuge o convivente.[3]

È questo certamente uno dei tratti più innovativi della legge in esame, che prende in considerazione la n.154/2001, la famiglia di fatto quale formazione sociale rilevante giuridicamente, in un ordinamento, come il nostro, tradizionalmente non incline ad occuparsi delle problematiche ad essa sottese.

La legge n.154/2001: obiettivi e novità introdotte

Per quanto attiene il contenuto dell’ordine di protezione civile, ciò che si pone immediatamente in risalto è come sia in grado di fornire non solo un’adeguata alternativa a quello penale, ma rappresenta anche uno strumento di tutela, dal momento che permette e favorisce ove possibile anche la ricostruzione delle relazioni familiari.

Prima dell’entrata in vigore della legge in esame, gli strumenti di tutela del nostro ordinamento giuridico erano assolutamente inadeguati a fronteggiare il fenomeno della violenza domestica.

Nell’ipotesi di violenza in famiglia (psicologica, fisica, economica), infatti, una delle strade più percorse era quella della separazione personale al fine di ottenere l’allontanamento del coniuge con provvedimento emesso dal presidente del tribunale e con il conseguente addebito della separazione con la sentenza che definiva il giudizio.

La criticità di questo tipo di soluzione consiste nel fatto che verrebbero escluse ogni altro tipo di relazione familiare di convivenza, non rispondendo ad esigenza di tutela rapida in ragione dei tempi tecnici del giudizio. L’obiettivo della legge è stato quello di fornire un ventaglio di mezzi cautelari di carattere personale e patrimoniale che consentisse alle vittime degli abusi domestici di rompere il silenzio senza subire le pesanti conseguenze determinate dal forzato allontanamento dalla casa familiare.

Vale la pena precisare che la misura degli ordini di protezione costituisce una misura mutuata dall’esperienza normativa di altri Stati, europei che extraeuropei. In alcuni Paesi la violenza intrafamiliare, definita in ambito internazionale “domestic violence”, è così diffusa da essere oggetto di un settore specifico di studi, nonché di centri specializzati nel combatterla.

L’efficacia della normativa è rapportabile al calo degli episodi di violenza in famiglia, registratosi a seguito dell’allontanamento del familiare violento, a dimostrazione che, pur tramite una misura provvisoria, è possibile interrompere il ciclo della violenza.[4]

Tali misure sono presenti anche in altri Stati d’Europa, quali ad esempio l’Austria, la Germania, l’Inghilterra, la Francia , la Spagna , l’Irlanda, la Svezia, la Finlandia, Paesi di tradizione giuridica assai differente alla nostra, una per tutte l’Inghilterra facente parte del c.d. Common law.

Ciò testimonia la diffusione e la gravità del fenomeno e, di conseguenza, la necessità di una disciplina specifica a tutela degli interessi sottesi.

In particolare in Inghilterra e in Austria (che la applicano, rispettivamente, dal 1996 e dal 1997), la misura  di cui si tratta in questo elaborato ha avuto un’ampia applicazione. Gli stessi giudici hanno ritenuto necessario l’applicazione della misura  in virtù del fatto che hanno ravvisato l’esistenza dei presupposti per la concessione della misura stessa. L’efficacia è rapportabile al calo degli episodi di violenza in famiglia, registratosi a seguito dell’allontanamento del familiare violento, a dimostrazione che, pur tramite una misura provvisoria, è possibile interrompere il ciclo della violenza.

Vale la pena anche rilevare come la tutela del minore sia stata dagli anni 2000 a seguire ricca di interventi normativi, da una parte la legge del 4 aprile 2001, dall’altro alla legge 28 marzo 2001, n. 149, dedicata principalmente alla riforma della disciplina dell’adozione, che ha modificato le norme contenute nel codice civile sulla potestà dei genitori ex artt. 330 e 333 cod. civ. e sul suo controllo da parte del Tribunale per i minorenni.

Quest’ultima legge introducendo nell’ambito dei giudizi de potestate l’allontanamento del «genitore o convivente che maltratta o abusa del minore» quale misura accessoria al provvedimento di decadenza o sospensione della potestà, in un primo acchito sembrerebbe solo aver anticipato, a favore del minore, quanto successivamente regolato dalla legge n. 154 del 2001 a tutela di altri possibili familiari conviventi. In vero i presupposti sono assai diversi, contenuti e di procedimento rispetto agli ordini di protezione, che sembrerebbe non giustificare la scelta operata dal legislatore con la legge n. 149 del 2001, il quale ha finito per creare, soprattutto nei confronti del convivente, inaccettabili disparità di trattamento. A tal fine si rendono necessarie alcune considerazioni preliminari.

Le misure interdittali di cui agli artt. 330 e 333 c.c. presuppongono una condotta genitoriale che sia di «grave pregiudizio» per il figlio quando, ai sensi dell’art. 330 c.c., “la violazione dei doveri inerenti alla potestà e/o l’abuso dei relativi poteri siano tali da condurre una pronuncia di decadenza; ovvero si presentino comunque pregiudizievoli per il minore nell’ipotesi in cui non sia necessario ricorrere a tale estremo rimedio”, la norma ricorda anche come sia opportuno adottare, ex art. 333 cod. civ. altri «provvedimenti convenienti».[5]

Appare chiaro come il fine perseguito sia quello della protezione minorile, il che spiega, fra l’altro, il carattere speciale che questa disciplina presenta rispetto a quella generale introdotta dalla legge n. 154 del 2001 che, rivolta a qualsiasi familiare/convivente vittima di violenza indipendentemente dal fine specifico di tutela dell’interesse del minore, avrà un’applicazione solo residuale, quando cioè difetteranno i presupposti per il ricorso ai rimedi di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ.

La finalità del provvedimento trova riscontro, anche, in molti profili della disciplina in tema di procedimenti ablativi o modificativi della potestà. Anzitutto, mentre nel regolamento degli ordini di protezione il ricorso può essere proposto, ex artt. 342-bis cod. civ. e 5 della legge 154/2001, solo dal soggetto che ha subito l’abuso il quale, se minore d’età, potrà agire tramite la persona dei suoi rappresentanti o eventualmente di un curatore speciale , nei procedimenti ablativi o modificativi della potestà, invece, la legittimazione ad agire è più ampia e spetta, ex art. 336, 1° comma, cod. civ. all’altro genitore, ai parenti e al P.M.

Va anche chiarito che la disposizione, è volta a consentire una maggiore facilità d’accesso e di promozione dell’azione, non riconosce, letteralmente, la legittimazione solo al minore, con una soluzione, però, che non soddisfa pienamente, in quanto, è possibile, ricondurre la figura del minore alla più ampia categoria dei «parenti», consentendogli così di promuovere l’azione tramite l’altro genitore in qualità di rappresentante legale ovvero, in mancanza o in caso di conflitto di interessi, a mezzo di un curatore speciale.

Inoltre, le norme contenute nella Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, resa esecutiva in Italia con legge n. 176 del 27 maggio 1991, hanno quel sufficiente grado di specificità che vale a renderle operative nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale per effetto della sola legge di ratifica ed esecuzione.


[1] F. Zanasi, Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, ed. Giuffrè.

[2]F. Eramo, Legge n. 154/200: nuove misure contro la violenza familiare, in Dir. fam., 2004, 230; A.G. Cianci, Gli ordini, cit., 194 s.

[3]C. Mannella, L’allontanamento dalla casa familiare ex art. 282-bis cod. proc. pen.: problemi e prospettive, in Dir. famiglia, 2006, 385; A.G. Cianci, Gli ordini, cit., 170 ss

 

[4]Per alcune problematiche circa il rapporto tra la l. n. 154 del 2001 e le modifiche agli artt. 330 e 333 cod. civ., vd. M. Paladini, Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, in Seminari di diritto di famiglia, a cura di M. Di Tilla e U. Operamolla, Milano, 2005, 113.Parla di «nuova e inopportuna occasione di conflitti di competenza», F. Tommaseo, Abuso della potestà e allontanamento coattivo dalla casa familiare, in Fam. dir., 2002, 638. Circa il rapporto tra la tutela data dagli obblighi di protezione contro gli abusi familiari e la tutela ex artt. 330 e 333 cod. civ., non si registra uniformità di vedute in dottrina. Se, infatti, da alcuni si è sostenuto che la legge sugli ordini di protezione avrebbe un’applicazione residuale (vd. A.G. Cianci, Gli ordini, cit., 178), altra parte della dottrina ha ritenuto la tesi della applicazione concorrente delle due forme di tutela (vd. C.M. Bianca, La famiglia, cit., 522 ss.).

[5]F. Tommaseo, Processo civile e tutela globale del minore, in Fam. Dir., 1999, 584 ss.; A. Liuzzi, La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli: prime osservazioni, in Fam. Dir., 2003, 291 ss., motivando con l’inopportunità di «istituzionalizzare un conflitto all’interno di quello già esistente tra i genitori»

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