Obbligo di repechage: dall’art. 18 St. Lav. alla riforma del 2015

in Giuricivile, 2018, 6 (ISSN 2532-201X)

Nel diritto del lavoro il cosiddetto “obbligo di repêchage” si collega inevitabilmente con la figura del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

L’art. 3 della legge n. 604 del 1966 delimita l’ambito di applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ancorandolo a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.”[1]

Il repêchage, di origine giurisprudenziale, è elemento ormai necessario nella valutazione di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In altre parole, il datore di lavoro prima di adottare il licenziamento scaturito da ragioni inerenti l’attività produttiva, dovrà necessariamente verificare se possibile ricollocare il lavoratore in altre attività.

In sintesi, il licenziamento sarà considerato legittimo al sussistere dei seguenti requisiti:

  • L’effettività e l’obiettività delle ragioni aziendali addotte a giustificazione;
  • Il nesso causale tra le ragioni di carattere produttivo-organizzativo ed il singolo provvedimento di recesso;
  • L’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (obbligo di repêchage);
  • Il rispetto dei criteri oggettivi predeterminati ex lege nonché dei principi di correttezza e buona fede nella individuazione del lavoratore da licenziare.

Il licenziamento, quindi, rappresenta per il datore di lavoro l’unico provvedimento possibile, adottabile come extrema ratio e solo qualora non vi sia altra possibilità di adibire il lavoratore in altre attività.

L’obbligo di repêchage essendo, come detto, di natura giurisprudenziale è stato più volte interpretato e applicato seguendo diversi orientamenti sia della giurisprudenza, sia della dottrina.

Il Repechage prima delle riforme del 2012

La ricostruzione, prima delle riforme del 2012 e del 2015, poggiava sul principio elaborato da dottrina e giurisprudenza a seguito dell’introduzione dell’art. 18 St. Lav. nel nostro ordinamento.

L’art. 18 St. Lav. nella sua precedente formulazione non lasciava spazio a sfumature e, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento per carenza del motivo addotto ovvero anche per mancato rispetto dell’obbligo di ricollocare il lavoratore presso un altro settore o reparto (appunto, il repêchage), il giudice non aveva altre soluzioni che condannare il datore di lavoro alla reintegrazione.[2]

Prima della riforma del 2012, sia per la giurisprudenza prevalente e sia per la dottrina, non importava se l’obbligo di repêchage venisse considerato come fatto (insieme ad altri) posto a base del licenziamento o come profilo ulteriore di accertamento del nesso di causale tra la modifica organizzativa e la posizione del lavoratore.

Tale ricostruzione, nata dalla teoria del licenziamento come extrema ratio, prendeva le mosse dall’assunto che nessuna norma poneva distinzioni tra “fatto” e sua sussistenza o insussistenza, cosa avvenuta, invece, con le modifiche apportate all’art. 18 dalla legge n. 92/2012.

Dunque, prima del 2012, come detto, tra gli elementi che il giudice era chiamato a valutare vi era anche la questione del ripescaggio del dipendente, posto che nel caso di illegittimità la conseguenza era solo una, cioè la reintegrazione.

  1. La riforma Fornero: conseguenze sull’obbligo di repêchage.

La situazione è cambiata, come sopra riportato, dalla legge n. 92 del 2012.

Com’è noto, la riforma Fornero ha introdotto un diverso regime di tutele in caso di illegittimità del licenziamento.

Secondo la l. 92 del 2012 il lavoratore ingiustamente licenziato è garantito dalla tutela reale qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo:

  • Per insussistenza del fatto contestato;
  • Ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.

In tutte “le altre ipotesi”, secondo il testo dell’art. 18 St. Lav. modificato dalla legge 92/2012, non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro dovendosi riconoscere al lavoratore soltanto un’indennità determinata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

In tema di repêchage, quindi, deve valutarsi se tale obbligo per il datore di lavoro sia da ricondursi ai “fatti posti a base del licenziamento” ovvero se l’obbligo, pur rientrante nella fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sia da considerarsi solamente una conseguenza ulteriore rispetto alla modifica organizzativa connessa con la soppressione del posto di lavoro.

La risposta a tale interrogativo, sia da un verso che dall’altro, porta con sé notevoli differenze pratiche e complesse.

Se si considererà il repêchage come parte integrante del fatto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la sua insussistenza e, quindi, la violazione di tale obbligo consentirà al giudice di applicare la reintegra in caso di illegittimità del recesso.

Al caso contrario, se l’obbligo di repêchage verrà considerato come una conseguenza ulteriore ma non rientrante nel fatto sotteso al licenziamento, la violazione di quest’ultimo avrà come conseguenza la sola tutela indennitaria (in caso di licenziamento considerato illegittimo).

Va sottolineato, come già anticipato, per un orientamento consolidato della giurisprudenza, la sola effettiva presenza di un esigenza organizzativa aziendale connessa alla soppressione di una postazione lavorativa non è sufficiente a integrare gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, essendo richiesta anche l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre posizioni o in altre mansioni equivalenti.[3]

Su tale ricostruzione, che indirizzerebbe il repêchage come elemento del fatto posto alla base del licenziamento, in dottrina non vi è unanimità di vedute.

Sebbene considerato ormai minoritario un primo orientamento, discostandosi dalla visione del licenziamento come extrema ratio, ha sottolineato come il repêchage costituirebbe solo un ulteriore profilo dell’esistenza del nesso causale tra le ragioni di carattere produttivo-organizzativo ed il singolo provvedimento di recesso.

Per tale impostazione, l’obbligo di repêchage rappresenterebbe un limite interno, non avente carattere autonomo, e solo collegato indirettamente con il potere di licenziamento in caso di giustificato motivo oggettivo.

In questo senso, oltre le conseguenze già riportate sulla sola tutela indennitaria in caso di licenziamento illegittimo, tale ricostruzione del repêchage pone i suoi effetti anche sull’ambito di applicazione dello stesso.

Infatti, si fa distinzione tra licenziamento di tipo qualitativo (caratterizzato dalla soppressione di una postazione di lavoro altamente professionale), e licenziamento di tipo quantitativo (finalizzato alla generica riduzione del numero dei lavoratori impiegati).

Per tale dottrina, quindi, l’obbligo di repêchage assumerebbe rilievo solo nella prima ipotesi.

Altra parte della dottrina, ripresa dalla giurisprudenza maggioritaria sopra riportata, ha ricostruito il repêchage come un limite esterno al potere di recesso del datore di lavoro, aderendo, in tal modo, alla teoria del licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio, con l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in mansioni equivalenti.

In sostanza, il giudice dovrà valutare in un primo momento l’illegittimità o meno del provvedimento espulsivo per mancanza di uno degli elementi previsti dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo (esigenze aziendali, nesso di causalità, repêchage).

Se non sussistono le ragioni sottese al licenziamento o non sussiste tra il nesso di causalità tra le ragioni del licenziamento e la soppressione della postazione lavorativa, compreso la violazione del repêchage (perché ad esempio il lavoratore è stato sostituito dopo breve tempo da altro lavoratore con mansioni equivalenti), il giudice potrà applicare la tutela delle reintegra.

Se viceversa, il fatto risulti sussistente e vi sia un nesso tra ragione del licenziamento e soppressione del posto di lavoro, ma risulta inadempiuto l’obbligo di repêchage, il giudice applicherà la tutela meramente indennitaria.

Occorre evidenziare, in ultimo, anche se indirettamente collegato alla questione dell’obbligo di repêchage, che la Cassazione con sentenza n. 25201 del 7.12.2016 ha infatti affermato che “ai fini delle legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata postazione lavorativa…”.[4]

In tale pronuncia della Suprema Corte, è la stessa nozione di giustificato motivo oggettivo che entra in crisi.

Infatti, si legge nella sentenza, che per configurare il giustificato motivo oggettivo è sufficiente la presenza di una modifica organizzativa effettiva e connessa con la soppressione del posto di lavoro del dipendente, senza che entrino in gioco gli interessi del datore di lavoro, siano essi costituiti dal risparmio dei costi o dall’incremento di profitto. Con la conseguenza che richiedere la prova dell’impossibilità di ricollocare il dipendente licenziato in altre posizioni, significherebbe impedire al datore di lavoro di conseguire le suddette finalità con le modalità dallo stesso scelte.

Con il Jobs Act

Lo scenario è nuovamente radicalmente cambiato con l’art. 3 del D.lgs. 23/2015, con il quale è venuta meno ogni distinzione in caso di licenziamento dichiarato illegittimo.

Infatti nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità d’importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

Se da un lato, la riforma del 2015, ha il pregio di aver ricondotto ad un unicum le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo, dall’altro ha previsto la tutela della reintegra solo nei casi esplicitamente elencati dall’art. 1 del d.lgs. 23/2015 prevedendo, quindi, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la sola tutela dell’indennità.

La scelta del legislatore, infatti, attraverso l’eliminazione dell’obbligo di reintegra in caso di recesso illegittimo per gmo, sembra aver assegnato valore preminente agli interessi del datore di lavoro di stabilità economica e incremento produttivo.

Il Decreto suddetto, non ha modificato i motivi sottesi al licenziamento, né tantomeno cambiato la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 delle legge n. 604/1966.

Quindi, per la dottrina prevalente in attesa di pronunce giurisprudenziali, ad oggi rimane difficile ricondurre il fondamento dell’obbligo di repêchage nella teoria del licenziamento per extrema ratio.[5]

Ad oggi, per i nuovi assunti dopo il 7 marzo 2015, in caso di illegittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo, spetta solamente l’indennità prevista dall’art. 3 del d.lgs. 23/2015, quindi anche volendo continuare a ricondurre l’obbligo di repêchage nella teoria dell’extrema ratio, la tutela sarà sempre quella indennitaria in caso di violazione dell’obbligo di repêchage.

Si rimane in attesa, in ogni caso, di pronunce giurisprudenziali che dovranno intervenire nel tema.

Demansionamento oggi possibile?

Merita attenzione, anche la possibilità del demansionamento quale alternativa alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Occorre sottolineare, che tale ipotesi, prima riconosciuta in via interpretativa[6] dalla giurisprudenza, oggi è legislativamente disciplinata dal nuovo testo dell’art. 2103 cc, così come modificato dal d.lgs. 81/2015.

Il datore di lavoro, quindi, dovrà dimostrare, prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’impossibilità di adibire il lavoratore anche a mansioni inferiori ai sensi del nuovo art. 2103 cc.


[1] Art. 3 della legge n. 604 del 1966.

[2] In tal senso A. Perulli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Torino, 2017.

[3] in ultimo Cass. Civ. sez. lav. 30.05.2017 n. 13606; Cass. Civ. sez. lav. 22.03.2016, n. 5592; in senso conforme: Cass. Civ. sez. lav., 24.06.2015, n. 13116; Cass. Civ. sez. lav. 12.07.2012; Cass. Civ. sez. lav. 26.3.2010, n. 7381.

[4] Cass. Civ. sez. lav., del 7.12.2016, n. 25201.

[5] in tal senso, F. Carinci, Dallo statuto al Contratto a tutele crescenti: “il cambio di paradigma”, in Giur. It., 2016, 783; G. Santoro – Passarelli, il licenziamento per giustificato motivo “organizzativo”: la fattispecie, 139.

[6] in tal senso: Cass. Civ. sez. lav., sentenza n. 22798/2016.

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