
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 31367 del primo dicembre 2025 (puoi leggerla cliccando qui), ha accolto il ricorso di una lavoratrice che lamentava condotte vessatorie e danni psicosomatici subiti sul luogo di lavoro. Pur non riconoscendo la piena configurazione del mobbing, la Suprema Corte ha riaffermato l’importanza dell’art. 2087 c.c. quale presidio della salute e della dignità del lavoratore, chiarendo che pure condotte non programmaticamente persecutorie possono determinare responsabilità contrattuale del datore. La decisione segna un punto fermo nella giurisprudenza sul tema, ampliando la tutela contro ambienti stressogeni e pratiche di “straining”.
Consiglio: per approfondimenti sul nuovo diritto del lavoro, Maggioli Editore ha organizzato il corso di formazione “Corso avanzato di diritto del lavoro – Il lavoro che cambia: gestire conflitti, contratti e trasformazioni”, a cura di Federico Torzo (clicca qui per iscriverti).
Fenomeno del mobbing
È l’insieme di condotte vessatorie e persecutorie reiterate nel tempo, da anni al centro di un acceso dibattito giuridico. La giurisprudenza italiana ha progressivamente affinato i criteri di riconoscimento, distinguendo tra mobbing, straining e altre forme di costrittività ambientale. L’ordinanza della Cassazione in disamina chiarisce che anche in assenza di un intento persecutorio unificante, il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere per violazione dell’art. 2087 c.c., se tollera o contribuisce a creare un ambiente lesivo della salute del dipendente.
Consiglio: il Codice Civile 2026, acquistabile cliccando su Shop Maggioli o su Amazon, e il Codice di Procedura Civile 2026, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon, forniscono due strumenti di agile consultazione, aggiornati alle ultimissime novità legislative.
Fatti di causa
La vicenda origina da una lavoratrice che, tra il 2012 e il 2014, aveva denunciato comportamenti vessatori da parte dei datori di lavoro, con conseguenti patologie psicosomatiche. In primo grado la domanda era stata accolta, tuttavia la Corte d’Appello aveva riformato la sentenza, escludendo la configurazione del mobbing e negando il risarcimento. La lavoratrice ha pertanto interposto ricorso in Cassazione, lamentando violazioni di legge e vizi motivazionali, specie in relazione alla valutazione delle prove mediche e all’onere probatorio.
Potrebbero interessarti anche:
- Il datore può essere responsabile per danni da ambiente lavorativo nocivo pure in assenza di mobbing
- Mobbing: tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore
- Mobbing sul lavoro nella P.A.: quale responsabilità e chi paga?
- Licenziamento durante la gravidanza: legittimo se la condotta è dolosa e gravemente sleale
- Uso improprio del congedo parentale: giustifica il licenziamento per abuso del diritto
- Il controllo investigativo del datore di lavoro: i limiti statutari e la giusta causa di licenziamento
- Condotta extralavorativa e licenziamento per giusta causa: il contratto tra fiducia e funzione sociale
Motivazioni della Cassazione
La Suprema Corte ha censurato la decisione della Corte territoriale, rilevando che:
- non è necessario dimostrare un intento persecutorio per configurare una responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.;
- anche condotte autoritarie, irrispettose o singoli episodi di stress possono integrare una violazione contrattuale;
- la prova del danno può essere fornita anche tramite presunzioni, specie in contesti delicati come la gravidanza della lavoratrice;
- l’onere della prova non può essere invertito a carico del dipendente: spetta al datore dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute e la dignità del lavoratore.
Mobbing, straining e costrittività ambientale
La Sezione Lavoro della Cassazione ha ribadito la distinzione tra:
- mobbing: condotte reiterate e persecutorie, con intento di emarginazione;
- straining: atti isolati o sporadici, ma comunque idonei a generare stress e danno;
- costrittività ambientale: situazioni di lavoro logoranti, anche senza dolo specifico, che incidono sulla salute e sulla personalità del dipendente.
In tutti questi casi la responsabilità datoriale trova base sull’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di garantire un ambiente sicuro e rispettoso.
Focus sull’art. 2087 c.c.
L’articolo 2087 del codice civile assurge a clausola generale di protezione, obbligando il datore di lavoro ad adottare le misure indispensabili per salvaguardare l’integrità fisica e morale dei propri dipendenti. La Cassazione ha rimarcato che obbligo siffatto presenta indole contrattuale: il datore risponde per inadempimento, salvo che provi l’assenza di colpa. La decisione rafforza l’idea che la tutela della dignità e della salute del lavoratore sia un diritto di rango costituzionale, non subordinato alla qualificazione giuridica della condotta (mobbing o altro).
Implicazioni pratiche
La pronuncia presenta notevoli ricadute:
- per i lavoratori, amplia le possibilità di ottenere tutela anche in assenza di mobbing conclamato;
- per i datori di lavoro, impone maggiore attenzione alla gestione dei rapporti interni e alla prevenzione di ambienti stressogeni;
- per gli avvocati, offre nuovi strumenti argomentativi, valorizzando la prova presuntiva e la responsabilità contrattuale.
Ulteriormente, la decisione richiama l’obbligo di valutazione dei rischi previsto dal Testo Unico sulla sicurezza (d.lgs. n. 81/2008), includendo lo stress lavoro-correlato tra i fattori da monitorare.
Singoli episodi o ambienti stressogeni
La Cassazione, con l’ordinanza n. 31367/2025, ha riaffermato il principio secondo cui la tutela del lavoratore non può dipendere esclusivamente dalla qualificazione della condotta quale mobbing. Anche singoli episodi o ambienti stressogeni, se lesivi della salute e della dignità, generano responsabilità contrattuale del datore di lavoro.












