Mantenimento figli maggiorenni: inserimento in azienda paterna non è occasione di lavoro

in Giuricivile, 2018, 1 (ISSN 2532-201X)

In ossequio a quanto stabilito dal legislatore, entrambi i genitori hanno il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo.

La base normativa di tale obbligo – che, si precisa, non si esaurisce col raggiungimento da parte del figlio della maggiore età – è da rinvenirsi, principalmente, all’interno della nostra Carta Costituzionale, precisamente dal dispositivo dell’art. 30 [1] e, altresì, dagli artt. 147 e ss. del nostro codice civile. Infine, l’art. 337 septies c.c. – riportando lo stesso contenuto dell’art. 155 quinquies c.c. introdotto dalla legge n. 54 del 2006, ”Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” e abrogato dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 – stabilisce che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico“, in linea con l’obiettivo primario del legislatore, rappresentato dal benessere morale e materiale della prole.

Nel suddetto obbligo di mantenimento sono ricomprese le spese più varie: esse spaziano dalle spese ordinarie della vita quotidiana a quelle relative all’istruzione, fino ad arrivare persino a quelle necessarie allo svago. Ciò che ha a cuore il legislatore, infatti, è che la crisi attraversata dalla coppia genitoriale non influisca negativamente sulla serena crescita e formazione del figlio, ma che, al contrario, vengano comunque rispettate le esigenze di quest’ultimo, così come avveniva, ai sensi dell’art. 148 c.c., nella vita familiare precedente.

Si tratta di un dovere che non ha alcuna scadenza temporale fissa, ma che, tuttavia, non si protrae illimitatamente, esaurendosi, difatti, col raggiungimento da parte del figlio di un’autosufficienza economica che gli permetta di soddisfare in modo autonomo ed indipendente le proprie esigenze di vita.

All’uopo, sia chiaro, non è rilevante che si tratti di un lavoro stabile, ma è necessario che il reddito de quo sia commisurato alla professionalità e al contesto economico-sociale di riferimento, alle attitudini ed alle aspirazioni del figlio. [2] Di guisa, il figlio maggiorenne che desidererà il raggiungimento di una posizione lavorativa migliore e che necessiterà ancora del contributo economico da parte del genitore, potrà fare affidamento sull’obbligo di quest’ultimo. [3]

Si ricorda tuttavia che il predetto obbligo non si estende fino a giustificare un mancato impegno alla vita lavorativa del figlio maggiorenne; la giurisprudenza di legittimità [4] è, difatti, unanime nel ritenere che il mancato raggiungimento dell’autosufficienza economica non deve essere causato dalla negligenza, dalla inerzia o comunque da un fatto imputabile al figlio maggiorenne e che, in sopravvenienza di tali ipotesi, sarà possibile, richiedere la revoca dell’assegno di mantenimento, sopravvivendo, semmai, in capo ai genitori, esclusivamente un obbligo alimentare [5]. In quest’ultima ipotesi, dovrà essere il genitore gravato dall’obbligo di mantenimento a dimostrare il palesarsi delle suddette circostanze, imputabili al figlio maggiorenne [6].

Il caso in esame

Il caso de quo nasce da una controversia tra un padre ed un figlio maggiorenne in ordine alla sussistenza e al quantum dell’assegno di mantenimento corrisposto dal primo al secondo. In particolare, a seguito della riduzione – effettuata dal Tribunale di Parma – dell’importo del suddetto assegno, il figlio, in concerto con la madre, proponeva appello incidentale. La Corte di Appello di Bologna, adita a dirimere la controversia, deliberava disponendo il versamento da parte del padre della somma originariamente prevista dal Tribunale per i minorenni dell’Emilia Romagna.

Il padre, a fronte di ciò, decideva di ricorreva alla Corte di Cassazione. L’istante, in particolare, assumeva la violazione del principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n°1858/2016 e la sussistenza della prova della colpevole inerzia del figlio, in quanto quest’ultimo non aveva accolto la proposta del padre di inserirlo all’interno dell’azienda paterna.

La decisione della Corte di Cassazione

La sentenza n. 1858/2016, richiamata dal padre ricorrente, esprimeva, in linea con quanto esposto in premessa, che il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne, “cessa ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita”.

La Cassazione, tuttavia, confermando quanto disposto dalla Corte di Appello di Bologna, ha escluso nel caso di specie, la colpevole inerzia del figlio e la conseguente revoca dell’obbligo contributivo. Valutando le circostanze esistenti nella vicenda de qua, è stato infatti ritenuto che il fallimento del figlio, nell’inserimento nell’azienda paterna, non possa essere ricondotto sic et simpliciter ad un’inerzia lavorativa, ma vada, invero, ricercato, in diverse concause.

In particolare, la Corte di legittimità, al pari della Corte territoriale, ha posto l’accento sul rapporto padre-figlio, caratterizzato da una forte conflittualità tra i due, da una incisiva differenza di età (ben 70 anni) e dalla confusione di ruoli che si sarebbe in tal modo creata (il padre titolare dell’azienda ed il figlio dipendente). Non si configurerebbe, pertanto, così come lamentato dal ricorrente, una violazione dei principi di diritto elaborati in tema di assegno di mantenimento per il figlio.

Sulla scorta delle suddette argomentazioni, la Corte ha dunque rigettato il ricorso.

Conclusioni

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30540 del 20 dicembre 2017, ha chiarito che la proposta effettuata dal padre nei confronti del giovane figlio studente universitario, di inserirsi all’interno dell’azienda paterna non può assurgersi ad occasione lavorativa. Tale situazione, difatti, perde i connotati dell’offerta lavorativa – il cui rifiuto sarebbe tale da giustificare una revoca dell’obbligo di mantenimento – e rappresenta, esclusivamente, una “fase della dialettica genitore-figlio”, avulsa, quindi, da qualsiasi valutazione in merito all’approccio lavorativo del figlio beneficiario dell’assegno di mantenimento.


1 “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.

La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.

La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.

2 Cfr. Cass. n. 4765/2002; n. 21773/2008; n. 14123/2011; n. 1773/2012;

3 Cfr. Cass. n. 1779/2013;

4 Cfr. Cass. n. 4765/2002; n. 1830/2011; n. 7970/2013;

5 Cfr. Cass. n. 2171/2012; n. 5174/2012; n. 1585/2014;

6 Cfr. Cass. n. 2289/2001; n. 11828/2009.

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