L’arricchimento mediante fatto ingiusto

in Giuricivile, 2020, 6 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. III civ., sent. 23/04/2020 n. 8137

Con la sentenza n. 8137 del 23 aprile 2020, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha perimetrato l’ambito di operatività della domanda risarcitoria da arricchimento altrui derivante da fatto illecito.

Il caso in esame

Una società editrice veniva condannata al risarcimento dei danni da diffamazione e alla pubblicazione, a sue spese, della sentenza di condanna su diversi quotidiani nazionali. Tuttavia, non avendo ottemperato a quest’ordine, gli eredi del diffamato agivano in giudizio per il risarcimento del danno.

Dopo i tre gradi di giudizio in cui venne quantificato il danno secondo criteri diversi, la Corte di Appello, investita del rinvio, riteneva che il danno andasse valutato ex art. 2043 c.c. in via equitativa non essendovi parametri oggettivi cui ancorarlo.

Pertanto i danneggiati proponevano ricorso per Cassazione avverso la pronuncia resa dalla Corte distrettuale contestando in particolare l’omessa valutazione dell’arricchimento del danneggiante da mancata pubblicazione della sentenza di condanna ex. art. 2041 c.c.

La decisione della Corte: analogie e differenze tra arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c. e illecito civile ex art. 2043 c.c.

Secondo la Suprema Corte di Cassazione la qualificazione della domanda di risarcimento come avente titolo in un fatto illecito ex art. 2043 c.c. è corretta.

A tal proposito i giudici di legittimità hanno precisato che l’arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c[1]. e l’illecito civile ex art. 2043 c.c. hanno alcuni punti in comune[2] quali l’ingiustizia del danno e la correlazione tra arricchimento e pregiudizio altrui.  Tuttavia la differenza principale tra i due ricade sull’elemento soggettivo. A tal proposito, l’art. 2041 c.c. è riservato agli arricchimenti realizzati a danno altrui ma privi dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) proprio invece dell’illecito civile e questo giustifica la residualità della corrispondente azione.

Pertanto, è corretta la qualificazione effettuata dalla Corte di Appello, che ha ravvisato nella condotta della società danneggiante l’elemento soggettivo proprio di un illecito civile, ossia la volontà di non voler adempiere all’ordine di pubblicare la sentenza di condanna.

Liquidazione del danno: ipotesi di arricchimento da fatto illecito.

Chiarito pertanto che alla luce dell’elemento soggettivo, il danno da risarcire rientra tra le ipotesi di illecito civile ex art. 2043 c.c., i giudici di legittimità si soffermano sui criteri di quantificazione dello stesso valutando se possa essere liquidato anche l’arricchimento conseguito dalla danneggiante per aver omesso la pubblicazione della sentenza di condanna.

A tal proposito, il nostro ordinamento è fondato sul principio secondo cui il risarcimento è limitato al pregiudizio subito e non deve superare il valore di quest’ultimo. Dunque, manca  una norma che riconosca il risarcimento dell’arricchimento altrui derivante da fatto illecito.[3]

Tuttavia parte della dottrina è solita ricavare dal nostro sistema una regola generale in base alla quale quando il fatto illecito è fonte di arricchimento per il danneggiante, costui deve risarcire nella misura dell’arricchimento se superiore a quella del danno inferto.
Questa regola si desumerebbe dalle seguenti norme:

  1. L’art. 1148 c.c. dal quale è possibile evincere da una lettura a contrario, che il possessore in mala fede deve restituire i frutti anche se superano quelli che il proprietario avrebbe potuto ricavare dalla cosa.
  2. L’art. 2032 c.c. da cui si ricava, per interpretazione corrente, che ciascuno attraverso la ratifica può costringere chi ha compiuto affari ingerendosi nella sua sfera a riversargli gli utili ottenuti, ossia il guadagno fatto attraverso una gestione di affari illecita.
  3. Infine, l’art. 125 del codice della proprietà industriale[4] che obbliga l’usurpatore a restituire gli utili conseguiti dal fatto illecito compiuto.

La ratio dell’istituto dell’arricchimento mediante fatto ingiusto, sarebbe quella di garantire la funzione preventiva del risarcimento che altrimenti sarebbe vanificata.

Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che tutte queste norme hanno un ambito di applicazione ristretto al caso disciplinato non potendo formare un principio generale.  E invero, non bisogna confondere la funzione di regola di una norma, ossia la funzione di regolare un caso concreto, che ben può essere limitata ad alcuni rapporti, con la possibilità che la norma, insieme ad altre, indichi un principio.

Eccezioni alla regola

Tanto premesso però, la Suprema Corte precisa che la regola propria dell’illecito civile, secondo cui il risarcimento va commisurato al solo danno subito dal danneggiato può subire delle eccezioni in due ipotesi:

  1. Quando l’arricchimento è frutto di una particolare condotta: quella di sfruttamento indebito di beni o risorse altrui. In questi casi, infatti, può farsi anche applicazione analogica degli artt. 1148 c.c. e 125, comma 3, codice proprietà industriale.
  2. Oppure quando l’operato abusivo sia ratificato dal danneggiato che dunque fa proprio l’utile netto ex art. 2032 c.c[5].

In ogni altra ipotesi, se si ammettesse rilievo all’arricchimento, il danneggiato lucrerebbe una somma superiore al danno subito.

Pertanto, poiché nel caso di specie non ricorre nessuna delle due eccezioni, la domanda risarcitoria avanzata dagli eredi ricomprensiva dell’arricchimento non può trovare accoglimento.

Principio di diritto

La regola propria dell’illecito civile, secondo cui il risarcimento va commisurato al danno subito dal danneggiato, e non deve essere superiore a questo, può subire eccezioni quando l’illecito sia connotato dai presupposti propri dell’arricchimento senza causa, che sono, per l’appunto, quelli di una condotta di interferenza nei beni altrui, e di sfruttamento illecito delle loro potenzialità.

Pertanto, nei casi in cui il fatto illecito procura un arricchimento superiore al danno, il danneggiato può agire per l’intero l’arricchimento, solo se esso deriva da una particolare condotta: quella di sfruttamento indebito di beni o risorse altrui. In questi casi, infatti, è applicabile direttamente o analogicamente l’articolo, 2032 c.c., quando l’operato abusivo sia ratificato dal danneggiato, che dunque fa proprio l’utile netto.


[1] l’art. 2041 c.c. prevede che “chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.

[2] Quando i codificatori hanno disciplinato l’azione di arricchimento pensavano proprio ai presupposti dell’illecito, tanto che si tratta di due modi diversi di affrontare lo stesso problema: dal lato della riparazione del danno, la responsabilità civile; dal lato dell’arricchimento l’azione ex art. 2041 c.c.

[3] A differenza di quanto previsto in Germania e nei sistemi di common law, dove nel caso in cui l’illecito produca un arricchimento per il danneggiante, costui risarcisce nei limiti di tale arricchimento, anche se superiore al danno inferto.

[4] Art. 125, comma 1, del codice di proprietà industriale: “Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione.”

[5]  Art. 2032 c.c.: “La ratifica dell’interessato produce, relativamente alla gestione, gli effetti che sarebbero derivati da un mandato, anche se la gestione è stata compiuta da persona che credeva di gerire un affare proprio”.

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