La tematica concernente lo status di apolide risulta essere variamente disciplinata a livello normativo nonché in ambito giurisprudenziale, essendo stata, in più occasioni, oggetto di studio da parte dei giudici di legittimità.
Partendo dal quadro normativo, vi è da dire che vi è un intreccio di fonti di derivazione nazionale ed internazionale che, esaminate congiuntamente, permettono di analizzare più nel dettaglio il tema in oggetto.
Fondamentale è, in prima battuta, il Testo Unico Immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998), laddove la norma di apertura (art. 1) cristallizza un fondamentale principio di portata generale in merito alla operabilità delle norme fungendo così da snodo principale anche per le ulteriori fonti di regolamentazione normativa. In una chiara ottica ampliativa, difatti, statuisce che le disposizioni del Decreto si applicano ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea nonché agli apolidi, in piena aderenza ai principi costituzionali (cfr. art. 10 Cost.).
La ratio è facilmente deducibile: garantire un riconoscimento, in termini di eguaglianza, dei diritti previsti per gli stranieri (al di là se regolarmente residenti o soggiornanti in un territorio) anche in riferimento agli apolidi.
Baluardo che ritroviamo anche nella Convenzione sullo status degli apolidi del 28.09.1954, venendo qui in rilievo due previsioni normative, ovvero l’art. 1 nonché l’art. 23.
La norma di cui all’art. 1, nel fornire una definizione di apolide, statuisce, al primo comma, che è tale “una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino per applicazione della sua legislazione”.
La disposizione successiva (art. 23), invece, introduce una fondamentale previsione in materia di assistenza sociale, in una ottica di rafforzamento della tutela originariamente predisposta. Ovvero, parifica la condizione degli apolidi a quella dei cittadini in tema di assistenza e soccorsi pubblici, senza porre punti di differenza e/o distacco. Condizione necessaria, tuttavia, è che risiedano regolarmente sul territorio.
I tasselli normativamente posti dal legislatore hanno tracciato delle fondamentali traiettorie chiarificatrici che hanno permesso anche alla giurisprudenza di definire meglio problematicità che hanno riguardato specifici profili. Ovvero, il distinguo intercorrente tra apolidia originaria ed apolidia derivata nonché i criteri di acquisizione dello status di apolide.
I pregressi orientamenti giurisprudenziali
In ordine alla prima questione, è ormai consolidato il principio secondo cui il criterio discretivo vada ricercato nella ricorrenza o meno della cittadinanza del soggetto interessato. Più precisamente, i giudici di legittimità hanno avuto modo di stabilire che l’apolidia originaria presupponga che il soggetto nasca privo di cittadinanza; diversamente, l’apolidia derivata, detta altrimenti apolidia di fatto, richiede che il soggetto abbia perso la cittadinanza di origine per un evento successivo alla nascita, per volontà dell’individuo medesimo o dello Stato[1], sempre che non segua l’acquisto di una nuova cittadinanza.
Con l’ulteriore specificazione che il riconoscimento dello status di apolide avvenga al ricorrere di una duplice condizione: per un verso, che il soggetto sia privo di qualsiasi cittadinanza, per altro, che sia residente nel territorio italiano.
Di qui, si apre il varco verso la disamina della seconda questione rappresentata dall’acquisizione dello status di apolide, che di recente è stata nuovamente oggetto di disamina da parte del Supremo Consesso.
Analisi che, invero, ha portato i giudici a focalizzare l’attenzione su aspetti collaterali al thema di discussione, quali la definizione e/o nozione di apolide e la natura del riconoscimento giudiziale della condizione di apolide. Elementi, tra l’altro, imprescindibili in quanto caratterizzati da una intima connessione e per la cui trattazione si rinvia al paragrafo che segue.
L’intervento della giurisprudenza di legittimità: uno sguardo alla sentenza n. 16489/2019
Sulla vexata quaestio concernente il riconoscimento dell’apolidia di fatto è recentemente intervenuta la Corte Suprema di Cassazione.
Nel caso specificamente sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, il soggetto risultava essere destinatario di due distinti decreti prefettizi di espulsione.
Nel primo caso, gli veniva contestata la mancata regolarizzazione della presenza sul territorio nazionale[2]; con il secondo provvedimento, invece, la mancata osservanza dell’ordine di lasciare il territorio nazionale entro il termine statuito.
Seguiva opposizione ai suddetti provvedimenti prefettizi per il tramite di due distinti ricorsi riuniti, poi, dalla Cassazione ai fini della decisione finale.
La Suprema Corte nel giungere alla soluzione del caso ha tenuto conto di diversi profili, a partire dalle considerazioni espresse dal Procuratore Generale. Quest’ultimo, difatti, nella sua requisitoria scritta sottolinea come il ricorrente andasse considerato quale apolide di fatto sulla base sia di verifiche documentali svolte dalle competenti autorità sia di osservazioni sociali inerenti il territorio di provenienza dello stesso.
In particolare, la condizione di apolide di fatto trova fondamento nella vicenda estintiva della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia avvenuta agli inizi degli anni ’90, fase storica in cui il ricorrente già si trovava sul territorio italiano.
L’estinzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, infatti, ha determinato per tutti i cittadini di tale Stato la perdita automatica della cittadinanza jugoslava e la irrilevanza della nazionalità della singola Repubblica di appartenenza[3].
Ancor più – a conferma dell’ apolidia di fatto – viene specificato che il soggetto non rientra in alcun caso individuato dalla legge entrata in vigore nel 1998, normativa disciplinante l’acquisto della cittadinanza della Bosnia Erzegovina[4].
Ulteriori aspetti cui i giudici di legittimità volgono l’attenzione sono inoltre rappresentati dai pregressi interventi di matrice giurisprudenziale nonché dai dati normativi.
Con riferimento agli spunti di carattere giurisprudenziale, il S.C. si allinea a pregressi orientamenti intervenuti sia in tema di definizione di apolide che di qualificazione giuridica del riconoscimento giudiziale dello status di apolide.
Non a caso, nella sentenza in commento viene richiamato il principio di diritto espresso in passato dalle Sezioni Unite[5], a mente del quale è da considerarsi apolide: “colui che si trova in un Paese di cui non è cittadino provenendo da altro Paese del quale ha perso formalmente o sostanzialmente la cittadinanza”. Principio che richiama espressamente i criteri indicati nella Convenzione di New York del 1954, secondo cui è apolide una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione (art. 1).
La natura del riconoscimento giudiziale dello status di apolide
Passando alla seconda problematica, ovvero la natura del riconoscimento giudiziale dello status di apolide, i giudici di legittimità ne evidenziano la natura dichiarativa (e non costitutiva), con richiamo ancora una volta di precedenti giurisprudenziali[6].
Condizione, quest’ultima, che ha ripercussioni in termini di efficacia. Più precisamente, allorquando si accerti, con sentenza, che una persona era apolide da anni oppure dal momento della nascita, tale status dovrà applicarsi con efficacia ex tunc (retroattivamente) e, dunque, dal momento in cui le condizioni si sono verificate.
Va da sé, pertanto, che la ricorrenza della condizione di apolide di fatto determina una inespellibilità dell’individuo e, dunque, la non percorribilità di un provvedimento di espulsione ex artt. 13 e ss. T.U. Immigrazione.
Al riguardo, il Supremo Consesso si preoccupa di rimarcare l’importanza delle fonti normative, con richiamo, in particolare, del disposto normativo di cui all’art. 31 Convenzione di New York del 1954[7]. Quest’ultimo dato normativo, difatti, assume un ruolo focale in quanto “norma di garanzia” tesa a porre un importante paletto: limitare il potere riservato agli Stati contraenti di procedere all’espulsione di uno straniero in qualsiasi momento, sulla base della sola normativa interna.
Di qui, a detta degli Ermellini, la suddetta norma deve trovare applicazione anche nei riguardi di coloro che si trovino in una condizione di apolidia di fatto. Ciò in ragione del fatto che, anche in mancanza di un riconoscimento giuridico/formale dell’apolidia, già ricorrono i presupposti, di fatto e di diritto, che determinano la condizione di apolide. Con la conseguenza che l’apolidia di fatto ben può essere equiparata all’apolidia di diritto, ricorrendo punti di contatto tra le due situazioni.
In proposito, gli stessi giudici (nella sentenza in oggetto) si preoccupano di definire la ratio giustificatrice di tale equiparazione, rinvenendola nel rilievo che la Costituzione e le norme sovranazionali hanno inteso attribuire alla persona umana nell’ottica di una tutela universalistica. Specificano, infatti, che in entrambi i casi opera la medesima finalità, ovvero il “riconoscimento del diritto della persona, che versa in una condizione sfavorevole di non appartenenza a nessuna comunità nazionale, alla tutela, sia in ambito internazionale che nazionale, secondo l’ impostazione innovativa (postbellica) del diritto internazionale”
Il principio di diritto
Di qui, la soluzione della Cassazione è stata di accoglimento del ricorso presentato dallo straniero, con conseguente impossibilità di procedere all’espulsione dello stesso in quanto ricorrente una situazione di apolidia, seppur di fatto. Il che ha condotto la Cassazione ad enunciare il seguente principio di diritto:
“l’art. 31 della Convenzione di New York, che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, si estende in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto e/o nelle more del procedimento per accertare lo stato di apolidia, quando la situazione del soggetto emerge chiaramente dalle informazioni o dalla documentazione delle Autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il soggetto interessato”.
[1] Cfr. Cass. n. 15087/2016; Cass. n. 28153/2017
[2] Il decreto prefettizio di espulsione evidenziava la insussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o altro titolo e la ricorrenza dei presupposti per considerare il ricorrente come persona a rischio di fuga qualora gli fosse stato concesso un termine per la partenza volontaria, avendo dichiarato di non voler tornare nel paese di origine, non avendo un documento utile all’espatrio, e avendo fornito diverse generalità in occasione di fermi per identificazione operati dalla polizia ed essendo privo di un alloggio stabile dove poter essere rintracciato.
[3] Più nel dettaglio, la Costituzione dell’allora Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia prevedeva per i propri cittadini l’attribuzione di una doppia cittadinanza, quella nazionale jugoslava e quella di una delle sei Repubbliche di cui era composta la Federazione.
[4] La legge sulla cittadinanza della Bosnia Erzegovina è entrata in vigore nel 1998 e prevedeva l’acquisto della cittadinanza per origine, nascita, adozione, naturalizzazione ed accordo internazionale. Altresì, la stessa legge prevedeva l’acquisto della cittadinanza per tutte le persone che erano cittadini della precedente Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia in due casi: coloro che tra l’aprile del 1992 e l’entrata in vigore della legge avessero preso la residenza permanente nel territorio e avessero mantenuto la residenza per due anni dopo l’entrata in vigore della legge; coloro che tra il 1 gennaio 1998 e il 31 dicembre 1998 avessero preso la residenza permanente nel territorio.
[5] Cfr. SS. UU. n. 28873 del 2008
[6] Cfr. Cass. Civ., sez. I, n. 4823/2004
[7] Art. 31 Convenzione New York 1954 prevede un generale divieto di espulsione dell’apolide, facendo salva l’ipotesi in cui l’espulsione sia giustificata da motivi di sicurezza e di ordine pubblico.