L’abuso del diritto nel nostro ordinamento giuridico
L’abuso del diritto è un istituto che non trova un’espressa e generale disciplina giuridica nel nostro ordinamento, avendo il legislatore provveduto a codificarlo solo con riferimento a settori specifici.
Nondimeno, esso costituisce un limite interno all’esercizio dei diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico. Ciò in quanto, se è vero che ai consociati vengono riconosciute situazioni giuridiche soggettive che assurgono a dignità di diritti soggettivi, abbiano essi la consistenza di diritti assoluti o relativi, è pur vero che l’ordinamento non può tollerare che siffatte posizioni giuridiche vengano esercitate al solo scopo di ledere altri. Proprio dall’ esigenza di assicurare corrette relazioni tra i consociati nasce la teorica del divieto dell’abuso del diritto, come istanza di necessità logica propria di un sistema che, come il nostro, è improntato a rapporti collaborativi tra i consociati.
Il divieto di abuso del diritto percorre trasversalmente tutti i settori del nostro ordinamento giuridico e viene ricondotto alla categoria delle cd clausole generali, intendendosi per tali le clausole che consentono all’ordinamento giuridico di recepire istanze valoriali proprie di un determinato contesto storico e sociale che, diversamente, non potrebbero trovare ingresso nel nostro sistema giuridico. L’abuso del diritto, che con riferimento ai diritti relativi assurge ad obbligo di buona fede e che trova espressa disciplina nel libro IV del codice civile, costituisce, in buona sostanza, un limite funzionale e modale all’esercizio del diritto[1].
Il fondamento dell’istituto viene rapportato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, alla previsione di cui all’articolo 833 del c.c. che vieta al proprietario di compiere atti emulativi aventi come unica finalità quella di nuocere altri. L’articolo succitato è inserito nel titolo III libro II del c.c. ed è immediatamente successivo all’articolo che definisce quello che è il contenuto del diritto di proprietà.
Com’ è noto il diritto di proprietà è il diritto assoluto per eccellenza che conferisce al titolare il potere di godere e di disporre delle cose oggetto del diritto nei confronti di tutti i consociati senza alcuna intermediazione da parte di terzi. In presenza dei presupposti di legittimità che attribuiscono il diritto di proprietà su una determinata res, il titolare di siffatto diritto può disporne in autonomia senza l’intermediazione di terzi. Se ciò è vero è pur vero, però, che il titolare del diritto non può utilizzare le facoltà rientranti nello statuto proprietario al solo scopo di danneggiare terzi. Trattasi, come detto, di un limite interno al diritto di proprietà, da estendersi, più in generale, a tutta la categoria dei diritti assoluti, che trova la sua giustificazione nell’esigenza di assicurare corrette relazioni tra i consociati. In dottrina si afferma che l’ordinamento riconosce ai consociati situazioni giuridiche soggettive, con la consistenza di diritti soggettivi, affinché queste siano esercitate per realizzare determinate classi di scopo. Laddove l’esercizio in concreto del diritto travalichi la classe di scopi per la quale il diritto stesso è stato riconosciuto dall’ordinamento, con ciò ledendo le posizioni di terzi, si incorre nel divieto di abuso del diritto che espone il titolare a pretese risarcitorie.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, esiste un principio generale non scritto volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto, che trova applicazione in tutti i campi dell’ordinamento. Ne è testimonianza, inter alia, la sentenza n. 23726/07 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella quale è definita come abusiva la pratica di frazionamento di un credito, nella fase giudiziale dell’adempimento, al fine, principalmente, di scelta del giudice competente.
Come anticipato, nell’ambito dei rapporti contrattuali, e più in generale nell’ambito dei rapporti obbligatori, l’abuso del diritto viene concretizzato nell’obbligo, posto a carico di entrambe le parti dei rapporti medesimi, di comportarsi secondo buona fede. Dall’obbligo di buona fede, che permea tutte le fasi del rapporto contrattuale, anche in base ad un espresso richiamo effettuato da diversi articoli del codice civile ( articoli 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 ecc ), discendono a carico dei soggetti legati da un rapporto contrattuale ( ma in verità già nella fase delle trattative contrattuali ) una serie di obblighi, da individuarsi con riferimento alla fattispecie concreta, che possono consistere in comportamenti attivi ed omissivi aventi la finalità di non ledere l’interesse della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio.
Il divieto di abuso del diritto, al pari del corrispondente obbligo di buona fede da osservarsi nell’esercizio dei diritti relativi, trova un fondamento nel dovere di solidarietà sociale che l’articolo 2 della Costituzione pone a carico di tutti i consociati, proprio al precipuo fine di garantire relazioni corrette tra i consociati.
Se è vero che l’abuso del diritto trova un’applicazione generalizzata e trasversale nell’ambito di tutte le branche del nostro ordinamento e corrisponde all’esigenza di recepire istanza valoriali essenziali del contesto storico e sociale di riferimento, pur in mancanza di una disciplina ad hoc volta a regolamentarlo, è pur vero che in taluni settori il legislatore è intervenuto per dettare una disciplina specifica dell’istituto andando, così, a codificare il divieto di abuso del diritto.
Si cita, a titolo esemplificativo, la peculiare disciplina relativa alla subfornitura di cui alla legge n. 192/1998 e, per quanto ivi rileva, la previsione di cui all’articolo 9 che qualifica come nullo il patto con il quale un’impresa abusa della sua posizione di dipendenza economica nei confronti di altra impresa. In tal caso il legislatore, spinto dall’esigenza di tutelare il superiore interesse alla concorrenza che subirebbe un vulnus da accordi con i quali un’impresa abusa della sua posizione dominante nei confronti di altra impresa, addirittura commina la “ sanzione “ della nullità ad un eventuale accordo stipulato in violazione della norma imperativa.
L’abuso del diritto in campo tributario
L’abuso del diritto trova altresì una disciplina in campo tributario.
Il novellato articolo 10 bis dello Statuto del contribuente dà un’espressa definizione delle operazioni che, in campo tributario, configurano abuso del diritto specificando che devono ritenersi tali le operazioni, prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.
Il legislatore nazionale, nel rispetto dei limiti imposti dal diritto dell’Unione europea, ha introdotto nell’ordinamento fiscale, con la normativa succitata, una clausola antiabuso di carattere generale entrata in vigore ad ottobre del 2015, in sostituzione del precedente articolo 37 – bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e ss.mm.ii. che già conteneva disposizioni antielusive, con applicazione limitata al settore delle imposte sui redditi.
Non può tacersi che sull’argomento era intervenuta, già prima del legislatore nazionale del 2015, la famosa sentenza HALIFAX della Corte di Giustizia C-255/02 del 21 febbraio 2006.
In tale sentenza, la Corte di Lussemburgo ha elaborato una nozione di abuso del diritto tributario del tutto autonoma dalle ipotesi di frode, richiedendo che le operazioni, pur realmente volute ed immuni da rilievi di validità, per qualificarsi elusive devono avere “essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.
In materia tributaria, in buona sostanza, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
In tal caso, la reazione dell’ordinamento è rendere inopponibili al fisco i vantaggi fiscali derivanti al contribuente da operazioni motivate dal solo scopo di eludere le norme tributarie.
Trattasi di una codificazione del principio di abuso del diritto come sopra descritto. In ambito tributario può accadere che il contribuente e/o i contribuenti pongano in essere operazioni finanziarie, non supportate da ragioni economiche ma con lo scopo precipuo di ledere altri, e nel caso di specie il fisco: in tal caso l’ordinamento reagisce rendendo inopponibili al fisco siffatte operazioni.
Leveraged buyout, un fenomeno poliedrico. Tra frode alla legge per violazione del divieto di assistenza finanziaria e abuso del diritto
La giurisprudenza di legittimità, anche recentemente[2], è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla sussistenza dell’abuso del diritto, come disciplinato dal sopracitato Statuto del contribuente, nei casi di cd. leveraged buyout.
Per comprendere le motivazioni per le quali le operazioni di leveraged buyout possono realizzare, soprattutto nelle forme molto diffuse nella prassi applicativa del merger leveraged buyout, un’ ipotesi di abuso del diritto ex articolo 10 bis Statuto del contribuente, è indispensabile inquadrare la categoria, in verità complessa e composita, del leveraged buyout.
Con l’espressione leveraged buyout ci si riferisce ad una molteplicità di operazioni finanziarie, tra di esse alternative, che consentono ad una società, quasi sempre di nuova costituzione, e denominata newco, di acquisire la partecipazione totalitaria o di controllo di una società (detta società bersaglio o target) attraverso il ricorso all’indebitamento da parte di soggetti terzi (leverage, cioè leva finanziaria). La finalità economica perseguita da siffatte operazioni è che l’acquisizione del capitale della società target sia finanziata soprattutto da investitori terzi che fanno affidamento sulla capacità di indebitamento della società target. In pratica, il debito contratto per l’acquisizione verrà rimborsato non con i mezzi finanziari della società acquirente (di solito la newco) ma utilizzando i flussi di cassa (cash flows) della società target e/o con la vendita dei cespiti aziendali di quest’ultima[3].
La sopradescritta operazione, che si snoda in una pluralità di contratti tra di loro collegati, pone, in prima istanza, un problema di liceità della medesima atteso il divieto di assistenza finanziaria previsto dall’articolo 2358 c.c. per le società per azioni, e duplicato per le società a responsabilità limitata dall’articolo 2474 c.c. In considerazione del divieto posto dal sopramenzionato articolo 2358 c.c. a carico delle società per azioni di concedere prestiti o fornire garanzie per l’acquisto di proprie azioni, è evidente che, a fronte di un’operazione di leveraged buyout, l’interprete dovrà, in primo luogo chiedersi se la stessa possa qualificarsi come “illecita” in quanto violativa della norma che pone il divieto di assistenza finanziaria, pacificamente intesa come norma imperativa posta a tutela dell’ordine pubblico. Un’operazione siffatta, se posta in essere in violazione del divieto di assistenza finanziaria, sarebbe affetta da quella forma di nullità aggravata che è per l’appunto rappresentata dall’illeceità per contrarietà della causa ad una norma posta a presidio dell’ordine pubblico, in base al disposto di cui all’ articolo 1343 c.c.. Ovvero potrebbe pure sostenersi che l’insieme di contratti collegati posti in essere dagli operatori per realizzare il leveraged buyout, realizzi un contratto in frode alla legge che, ex articolo 1345 c.c., sarebbe comunque affetto da nullità per illeceità.
Ora, nel caso di contratti collegati affetti da nullità aggravata per illeceità della causa, si è davanti ad una fattispecie ontologicamente diversa dall’abuso del diritto. Nei contratti affetti da nullità aggravata, ai quali l’ordinamento ricollega pesanti “ sanzioni “ (che nell’ordinamento civilistico sono rappresentata dalla mancanza di tutela), i contraenti hanno violato una norma imperativa posta a presidio di interessi generali particolarmente rilevanti per l’ordinamento. Sono stati violati, in tal caso, limiti esterni alla libertà negoziale che l’ordinamento, già a livello costituzionale (articolo 41 cost.), riconosce ai consociati. L’ordinamento, in tal caso, reagisce negando tutela ai contraenti che hanno stipulato un contratto illecito. Nella fattispecie di abuso del diritto si realizza, ex adverso, un rispetto dei limiti esterni ma viene travalicato, dal soggetto che abusa del diritto che gli spetta, lo scopo (o meglio la classe di scopi) per il quale il diritto gli è stato riconosciuto dall’ordinamento (cd. violazione dei limiti funzionali).
Laddove un’operazione di leveraged buyout possa configurarsi illecita per violazione del divieto di assistenza finanziaria, la reazione dell’ordinamento sarà, come detto, la nullità aggravata. Ove la stessa sia posta in essere nel rispetto del divieto di assistenza finanziaria, ma con il solo scopo di eludere il fisco, la conseguenza sarà che i vantaggi fiscali derivanti dall’operazione non saranno opponibili al fisco.
Il MLBO dopo la riforma del diritto societario del 2003
Come anticipato, nella prassi finanziaria, sono molto diffuse le operazioni denominate merger leveraged buyout con le quali si procede comunque alla costituzione di una nuova società, cd. newco, da parte di soggetti che intendono poi effettuare l’acquisto di una partecipazione totalitaria o di controllo in una società target. Anche in tal caso il finanziamento viene erogato da soggetti terzi, ma la peculiarità dell’operazione consiste nel fatto che, una volta acquistato il pacchetto di maggioranza o la totalità delle azioni della società target, si procede alla fusione per incorporazione della newco nella target, o viceversa.
La fattispecie sopra descritta trova una puntuale disciplina nell’articolo 2501 bis del codice civile con il quale il legislatore, recependo una direttiva comunitaria, ha chiarito che, ove si rispettino gli obblighi di trasparenza e di informazione fissati dal sopracitato articolo, il merger leveraged buyout non incorre nel divieto di assistenza finanziaria di cui all’articolo 2358 c.c.. In verità, già prima della novella introdotta nel 2003 nel codice civile, parte della dottrina sosteneva che le operazioni di MLBO non violassero il divieto di assistenza finanziaria in quanto in nessuna fase del procedimento la società target forniva garanzie o prestiti per l’acquisto delle proprie azioni.
La liceità dell’operazione di MLBO sembra ancora più evidente a seguito dell’introduzione del già citato articolo 2501 bis.
Sconfessata in tal caso l’ipotesi che l’operazione possa essere affetta dalla peculiare fattispecie di nullità aggravata per illeceità della causa o per frode alla legge, resta aperta la discussione in merito al fatto che la medesima possa configurarsi come abusiva ex articolo 10 bis dello Statuto del contribuente.
La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il carattere abusivo dell’operazione sia da escludere tutte le volte in cui sia riscontrabile una valida ragione extrafiscale che la giustifichi.
La Corte di Cassazione ha infatti precisato, con riferimento ai processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale effettuati nell’ambito di grandi gruppi di imprese, che il divieto di comportamenti abusivi, fondati sull’assenza di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, “non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d’imposta poiché va sempre garantita la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale”.[4]
Laddove l’operazione sia posta in essere per esigenze di carattere organizzativo proprie delle società coinvolte nel MLBO, quali ad esempio processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale, seppur accompagnate dall’esigenza di conseguire un risparmio di imposta, è da escludersi il carattere elusivo dell’operazione medesima. La libertà negoziale, riconosciuta già a livello costituzionale, consente ai consociati (che nel caso di specie assumono, nei confronti del fisco, la qualifica di contribuenti) di esercitarla in totale autonomia nel rispetto dei limiti esterni, rappresentati dalle norme imperative, ed interni, costituiti dai fini propri per i quali la succitata libertà viene riconosciuta. Nondimeno, siffatta libertà non può essere esercitata per fini diversi da quelli per i quali è attribuita, e pertanto per ledere terzi. Un’operazione di MLBO, ove non supportata da valide ragioni imprenditoriali, seppur non prevalenti, e posta in essere solo per danneggiare il fisco, si configura come elusiva ai sensi di quanto previsto dall’articolo 10 bis dello Statuto del contribuente. Con conseguente inopponibilità al Fisco dei vantaggi fiscali.
Quanto sopra espresso, riferito all’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione sull’abuso del diritto in campo tributario, e in particolare nelle operazioni di leverage buyout, non fa altro che confermare l’interpretazione dottrinale secondo la quale si viola il divieto di abuso del diritto ove il diritto, riconosciuto dall’ordinamento, venga esercitato travalicando i limiti interni allo stesso, e con lo scopo di nuocere altri.
[1] Pietro Rescigno, Introduzione al codice civile, Ed. Laterza, 2001
[2] Corte di Cassazione, quinta sezione civile, n. 868 del 2019.
[3] Il leveraged buy out ed il divieto di assistenza finanziaria nelle società di capitali di Gianpaolo Fernandez, in rivista di Giustizia Civile 15 maggio 2014.
[4] Corte di Cassazione, quinta sezione civile n. 439/2015. Nella stessa direzione la già richiamata pronuncia della Cassazione, quinta sezione civile, n. 868 del 2019.