Il tema della rinuncia alla proprietà immobiliare, pur essendo tradizionalmente oggetto di vivace dibattito dottrinale, ha recentemente suscitato un rinnovato interesse negli operatori del diritto, in ragione del sempre più frequente ricorso a tale strumento causato dalla difficile situazione economica in cui versa il paese.
Difatti, essere proprietario di un immobile comporta una serie di oneri e di spese legate alla manutenzione e alla conservazione dello stesso di cui il proprietario, in taluni casi, intende liberarsi.
È proprio in tale contesto che viene in rilievo l’istituto della rinuncia alla proprietà immobiliare quale strumento volto alla definitiva dismissione del diritto dominicale.
Il problema circa l’ammissibilità o meno di un istituto rinunciativo di questo tipo sorge dalla mancanza nell’ordinamento di una norma che esplicitamente ne riconosca la validità.
La dottrina si è, così, interrogata sulla possibilità che il proprietario rinunci, mediante atto unilaterale, al diritto di proprietà che lo stesso vanti su un bene immobile.
Per dare compiuta risposta a questo interrogativo occorrerà, anzitutto, muovere da un’analisi dei principi generali che ispirano la materia.
In primo luogo, è opportuno premettere che tutti i diritti disponibili sono suscettibili di rinuncia e, partendo da questo assunto, si può quindi concludere che il diritto di proprietà, in quanto diritto per sua natura disponibile, può essere astrattamente oggetto di rinuncia.
Tuttavia, alla luce della funzionalizzazione del diritto di proprietà, realizzata con l’avvento della Costituzione, si potrebbe replicare che non sia possibile rinunciare alla proprietà di un bene immobile in via del tutto incondizionata. Infatti, l’art. 42 Cost. al secondo comma, così recita: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Questo modo di concepire il diritto di proprietà spingerebbe a ritenere che non sia possibile rinunciare alla proprietà di un bene.
Ammettendo questa possibilità, il proprietario di un bene potrebbe, in un qualsiasi momento, rinunciare al suo diritto venendo meno ad una serie di obblighi sanciti dal legislatore in forza del dettato costituzionale che sono strettamente legati alla funzione sociale che il diritto di proprietà, cosi come plasmato dalla Costituzione, svolge.
Nonostante ciò, questo ostacolo può essere efficacemente superato chiarendo che la funzione sociale, così come delineata dalla Carta Costituzionale, non incide sulla struttura del diritto di proprietà, che rimane pur sempre un diritto soggettivo attribuito al titolare nel suo esclusivo interesse.[1] Interesse che può consistere anche nel voler rinunciare alla proprietà di un determinato bene in quanto divenuto inutile o per altri motivi, pur sempre leciti.
Volendo poi ragionare sul contenuto stesso del diritto di proprietà, così come indicato nell’art. 832 c.c., ossia il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento” si può affermare che la facoltà di rinunciare al proprio diritto ben potrebbe rientrare in quel potere di disposizione pieno ed esclusivo che il legislatore ha espressamente attribuito al proprietario.
Le ipotesi normative di rinuncia al diritto di proprietà
Proseguendo nell’indagine è possibile notare come, muovendo da norme che regolano fattispecie tra loro diverse, si possa, attraverso un procedimento deduttivo, arrivare ad affermare o negare l’ammissibilità dell’istituto in commento.
Si pensi al caso dell’art. 827 c.c. che detta una disciplina in tema di immobili vacanti. Esso stabilisce che: “I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello stato”.
Trattasi di una norma che sovente viene posta a fondamento della tesi che ammette la rinuncia alla proprietà immobiliare. Se un bene immobile viene a trovarsi senza proprietario, infatti, ciò vuol dire che quest’ultimo ha presumibilmente rinunciato al suo diritto con la conseguenza che il bene immobile è divenuto vacante.
Secondo alcuni si tratterebbe di una norma che serve a dare copertura a situazioni estreme, che non ricadono in alcuna delle fattispecie codicistiche.[2]
C’è chi, invece, ritiene che si tratti di una norma che ha come obiettivo semplicemente quello di vietare che un bene immobile senza proprietario possa essere acquisito tramite occupazione, così come accade per i beni mobili.
Al contrario, è stato acutamente obiettato che negando la possibilità di rinunciare alla proprietà dei beni immobili con atto unilaterale si renderebbe di fatto inapplicabile questo istituto[3].
Invero, è d’uopo rilevare che il legislatore non si è preoccupato di dettare una disciplina generale avente ad oggetto la rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare. Ciò nonostante, nel codice civile si rinvengono svariate disposizioni che fanno esplicito riferimento alla facoltà di dismissione della proprietà di un immobile.
Si pensi all’art. 882 c.c., che detta una disciplina in materia di riparazioni del muro comune.
Detto articolo, dopo aver stabilito, al primo comma, che le riparazioni e le ricostruzioni necessarie del muro comune sono a carico di tutti quelli che vi hanno diritto e in proporzione del diritto di ciascuno, al secondo comma ammette la possibilità da parte del comproprietario di esimersi dall’obbligo di contribuire alle spese, rinunziando al diritto di comproprietà (purché il muro comune non sostenga un edificio di sua spettanza). Si tratta, quindi, di una norma che esplicitamente ammette la rinuncia al diritto di proprietà e che comporta un effetto ulteriore, ovvero la liberazione dalle obbligazioni gravanti sul proprietario in forza del suo rapporto con il bene.
A sua volta l’art. 1104, co. 1 c.c., disciplina la rinuncia alla quota di comproprietà stabilendo che: “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto.”
Si tratta, come è evidente, di due disposizioni che consentono al proprietario di rinunciare alla propria quota di comproprietà su un bene immobile.
Coloro i quali negano l’ammissibilità di una rinuncia abdicativa pura e semplice al diritto di proprietà immobiliare sostengono che, in realtà, le due fattispecie summenzionate disciplinino delle situazioni diverse. In particolare, si tratterebbe di rinunce c.d. “liberatorie”, ossia atti unilaterali attraverso i quali il proprietario non intende solo dismettere il proprio diritto dominicale ma, altresì, liberarsi delle obbligazioni su di lui gravanti in virtù della titolarità del diritto di proprietà per la quota ad esso spettante.
Si tratterebbe, pertanto, di norme eccezionali che non costituiscono espressione di un principio generale e che il legislatore ha dettato proprio per disciplinare tali fattispecie tipiche di guisa che, in assenza delle suddette disposizioni, non sarebbe stato possibile per i comproprietari liberarsi unilateralmente delle obbligazioni sugli stessi gravanti, obbligazioni che sono strettamente legate al proprio diritto soggettivo (obligationes propter rem).
D’altra parte bisogna osservare che, se è certamente vero che non vi sia una norma che esplicitamente ammetta la rinuncia alla proprietà immobiliare, è altrettanto vero che non si rinviene nell’ordinamento una disposizione che, al contrario, la vieti. Ed anzi, da una prima analisi del codice civile è possibile notare come, anche sulla base dei casi precedentemente esemplificati, vi sia piuttosto una propensione da parte del legislatore al riconoscimento dell’ammissibilità di questo istituto.
Si potrebbe sostenere che il legislatore si sia limitato a disciplinare solo quelle ipotesi problematiche di rinuncia al diritto di proprietà immobiliare, come nei casi in cui dallo stesso discendano obbligazioni propter rem, e che, nel silenzio della legge, abbia ritenuto pienamente conforme al nostro ordinamento la rinuncia abdicativa alla proprietà di un bene immobile pura e semplice.
L’ennesima conferma testuale circa l’ammissibilità dell’istituto di cui si discorre, la si rinviene negli artt. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c.[4]
L’art. 1350 c.c. indica una serie di atti che devono necessariamente farsi per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità. Tra questi, al numero 5, il legislatore inserisce “gli atti di rinunzia ai diritti indicati nei numeri precedenti”, tra i quali al numero 1 vi è la proprietà di beni immobili.
Nel secondo caso, si tratta di una norma che contiene un elenco di tutti quegli atti che devono essere resi pubblici tramite lo strumento della trascrizione. Dopo aver menzionato vari atti, tra i quali “i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”, al numero 5, la norma, ancora una volta, fa riferimento agli “atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti”. Dunque, dalla lettura di queste disposizioni, sembra assolutamente pacifica la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà immobiliare, in quanto, in entrambe le norme, si fa espressamente riferimento alla rinuncia alla “proprietà di beni immobili”.
Il parere n. 37243/2017 dell’Avvocatura Generale dello Stato
Un’ulteriore conferma della generale ammissibilità dell’istituto in commento si rinviene nella nota dell’Avvocatura Generale dello Stato n. 37243/2017 indirizzata all’avvocatura distrettuale di Genova. Nella suddetta nota, si conferma l’impostazione secondo cui la rinuncia alla proprietà immobiliare è un negozio giuridico unilaterale a contenuto patrimoniale che, per poter essere considerato valido, dovrebbe sempre realizzare interessi meritevoli di tutela ex. art. 1322 c.c., co. 2. Partendo da questo assunto, l’Avvocatura Generale dello Stato ribadisce la generale validità, nel nostro ordinamento, di atti di rinuncia alla proprietà immobiliare purché, da un esame della causa in concreto, emerga che gli interessi perseguiti dal privato siano meritevoli di tutela.
Ma l’Avvocatura dello Stato si spinge oltre, giungendo a ritenere nulli tutti quegli atti di rinuncia che perseguono unicamente scopi egoistici quali il trasferimento in capo all’erario ex art. 827 c.c., e dunque, in capo all’intera collettività, dei “costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile, ex art. 2043 e 2053 c.c., sia penale, ex art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o persone in caso di crollo e/o rovina”.
Dunque, sarà da considerarsi nulla la rinuncia alla proprietà immobiliare da parte del proprietario di un fondo inquinato che necessita di bonifica, nonché quella relativa ad un immobile con “evidenti problemi di dissesto idrogeologico” dato che, in questi casi, appare evidente lo scopo perseguito dal proprietario il quale, rinunciando al proprio diritto, intende soddisfare un interesse meramente egoistico che consiste nel liberarsi delle spese che si rendono necessarie dato lo stato in cui si trova il bene. Si tratta di un orientamento incisivo, in quanto riduce notevolmente i casi (di per sé non numerosi) in cui il proprietario potrebbe legittimamente disfarsi del proprio diritto e che risulta più in linea con i dettami costituzionali, secondo i quali la proprietà privata assolve anche una funzione sociale che trascende l’interesse individuale del singolo proprietario.
Il punto di vista della Giurisprudenza
Volendo ora approfondire il punto di vista della giurisprudenza, occorre premettere che la stessa solo di rado si è interessata dell’argomento e che, per tale ragione, la presente analisi si soffermerà solo su poche sentenze che si sono occupate, pur in via talvolta indiretta, dell’istituto in esame.
La conformità al nostro ordinamento di un istituto come la rinuncia alla proprietà immobiliare, se è largamente riconosciuta dalla maggior parte della dottrina civilistica, non lo è altrettanto per quella giurisprudenza, tanto di legittimità quanto amministrativa, che se ne è occupata nell’ambito di fattispecie di occupazione abusiva c.d. sine titulo.
Invero, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in alcune pronunce si è allineata al parere della dottrina civilistica ed, in particolare, con una sentenza a Sezioni Unite[5], ha statuito che: “l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno”.
È chiaro quindi che le Sezioni Unite, attraverso questa pronuncia, abbiano ammesso la possibilità per il privato di rinunciare al diritto di proprietà immobiliare ponendo l’atto come alternativa alla richiesta di restituzione del bene nei casi in cui il proprietario abbia subito un’occupazione sine titulo del proprio fondo da parte della pubblica amministrazione.
Ciò che più interessa, ai fini della presente analisi, è che l’istituto della rinuncia alla proprietà immobiliare trovi, in questa sentenza, un chiaro riconoscimento da parte della giurisprudenza di legittimità, peraltro con l’autorevolezza delle Sezioni Unite.
Occorre, tuttavia, rilevare sul punto il contrario orientamento espresso, a più riprese, dalla giurisprudenza amministrativa
In particolare, T.A.R. PIEMONTE, I sez., 28.3.2018, n. 368, sempre in tema di occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, contestando il principio affermato da SS.UU. Cass. n. 735 del 2015, ritiene che esso si fondi sull’erronea convinzione circa l’esistenza, nel nostro ordinamento, dell’istituto della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su un immobile quale istituto di carattere generale. A parere del Collegio giudicante, l’ammissibilità di siffatto istituto non potrebbe essere affatto dedotta da altre norme che “disciplinano casi specifici di rinunzia, dai quali semmai si dovrebbe ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo figure tipiche di rinunzia”.
Segue un analogo orientamento anche T.A.R. PUGLIA, 22.9.2008, n. 2176, il quale afferma che gli unici rimedi per chi abbia subito l’illegittima occupazione e trasformazione del proprio bene sono la restituzione e la remissione in pristino, e non anche il risarcimento del danno per la perdita del terreno, posto che il proprietario resta tale fino al provvedimento di acquisizione da parte della pubblica amministrazione, anche se in questo caso i giudici amministrativi non si esprimono sull’ammissibilità o meno di un istituto atipico come quello della rinuncia alla proprietà immobiliare.[6]
Gli effetti dell’atto di rinuncia alla proprietà
L’unico effetto diretto dell’atto di rinuncia è la dismissione del diritto dal patrimonio del soggetto rinunciante. Il proprietario, ponendo in essere l’atto de quo, abdica al suo diritto e cessa di essere proprietario del bene.[7] E proprio la circostanza che lo stesso abbia efficacia diretta nella sola sfera giuridica del soggetto che lo pone in essere è alla base di una serie di considerazioni a cui si è pervenuti nel corso del lavoro. Infatti, l’atto di rinuncia è un atto unilaterale non recettizio in quanto non produce effetti diretti nella sfera giuridica di terzi soggetti.
L’atto di rinuncia provoca, tuttavia, anche degli effetti indiretti o “riflessi”. Il primo effetto consiste nella liberazione del proprietario dalle obbligazioni di mantenimento e conservazione su di esso gravanti e strettamente collegate al diritto di proprietà che il proprietario vanti in riferimento all’immobile. Infatti, il proprietario dell’immobile è tenuto a mantenere il bene in buono stato, potendo derivare da un suo disinteressamento o negligenza conseguenze pregiudizievoli per i terzi di cui il proprietario sarebbe responsabile ex art. 2053 c.c.
Le obbligazioni per le quali il proprietario rinunciante si deve ritenere liberato, però, sono solo ed esclusivamente quelle pro futuro in quanto, laddove il legislatore abbia inteso liberare il proprietario anche per le obbligazioni già sorte, lo ha fatto esplicitamente, così come accade nel caso dell’art. 1104 c.c., in materia di comunione.
Si deve ritenere, inoltre, che il proprietario che abbia rinunciato al proprio diritto di proprietà su di un bene non viene automaticamente esonerato dalle responsabilità per danni a cui lo stesso abbia dato luogo prima della rinuncia, attraverso omissioni di quelli che sono i necessari interventi di manutenzione del proprio immobile.[8]
Ulteriore effetto che si verifica in seguito all’atto di rinuncia riguarda la sorte del bene oggetto della “derelictio” che viene a trovarsi in uno stato di vacanza. A seguito dell’instaurarsi di questa condizione giuridica si verifica l’automatico acquisto del bene al patrimonio dello Stato ex art. 827 c.c.
Tale conseguenza non è però riconducibile agli effetti primari dell’atto di rinuncia[9], in quanto la vicenda modificativa non trova la sua fonte direttamente nell’atto di rinuncia.
La disciplina dettata dall’art. 827 c.c. è, infatti, a carattere generale e riguarda tutti i casi in cui un bene immobile sia senza proprietario, non solo il caso in cui la vacanza del bene derivi da un atto di rinuncia al diritto di proprietà. Dunque, l’acquisto del bene da parte dello Stato deriva solo e unicamente dalla condizione di vacanza del bene, che in questo caso è diretta conseguenza della rinuncia da parte del proprietario al suo diritto sull’immobile.
Gli effetti sono parzialmente diversi quando oggetto di rinuncia è una quota in comproprietà di un bene immobile.
Effetto diretto, come nel caso di rinuncia del singolo proprietario, è quello di dismissione del diritto che, dunque, fuoriesce dalla sfera giuridica del soggetto rinunciante. Quest’ultimo, in seguito all’atto di rinuncia, non è più titolare della quota sul bene.
A seguito della dismissione del diritto del comproprietario rinunciante si verificano, tuttavia, anche degli effetti ulteriori. Uno tra questi è l’accrescimento proporzionale della quota degli altri comproprietari.[10] Si tratta di un effetto indiretto ma immediato dovuto alla natura giuridica della comunione . Infatti nel regime di comunione ordinaria, secondo la dottrina maggioritaria[11], ciascun compartecipe è titolare di un diritto di proprietà che si estende all’intero bene ma che, al contempo, risulta limitato dal concorso del diritto di proprietà spettante agli altri condividenti. Venendo meno uno di questi diritti, quello dei restanti titolari si riespande naturalmente in maniera proporzionale alla quota di ognuno. È possibile notare, dunque, come si determinino conseguenze diverse a seconda che il proprietario rinunciante sia l’unico titolare del diritto sul bene o che il suo diritto concorra con quello di altri soggetti. Nel primo caso, come spiegato, il bene diviene res nullius e, per l’effetto, viene acquisito a titolo originario dallo Stato, ai sensi di quanto previsto dall’art. 827 c.c.. Nel secondo caso invece, in seguito alla rinuncia alla quota di comproprietà del bene, si determina l’espansione della quota spettante agli altri comunisti.
[1] Bianca M.C., Diritto civile, tomo 6, La proprietà, 2017.
[2] Si pensi al caso della emersione di una nuova isola in acque territoriali. Cosi come esemplificato da Bellin M., La rinuncia abdicativa a (s)favore dello Stato, in Azienditalia 5/2019.
[3] Così la Nota dell’Avvocatura Generale dello Stato n. 37243/ 2017.
[4] Bellinvia M., La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato, studio 2016-2014/C, 2014.
[5] Cass. SS.UU., n. 735 del 19/01/2015.
[6] Recentemente il Consiglio di Stato si è espresso sulla questione rimarcando che non è possibile, per il privato che abbia subito l’occupazione sine titulo dalla pubblica amministrazione, rinunciare alla proprietà del bene attraverso la richiesta di risarcimento, in quanto questo atto non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo. Infatti i giudici hanno sottolineato come gli unici rimedi, la cui scelta dipende dalla stessa pubblica amministrazione, sono quelli ex art. 42-bis d.P.R. n.327 del 2001, ossia emanare un provvedimento di acquisizione del bene o disporre la restituzione dello stesso previa rimessione allo stato pristino, qualora possibile. Cons. St., A.P., 20 Gennaio 2020, n.4.
[7] DE MAURO A., La rinuncia alla proprietà immobiliare, Napoli, 2018;
[8] Nota n. 37243/17 dell’Avvocatura dello Stato, cit.
[9] BONA C., L’abbandono mero degli immobili, Napoli, 2017.
[10] Bellinvia M., op. cit.; Nocera I.L., Effetti della rinuncia della quota del bene in comunione ordinaria: negozio abdicativo causalmente autonomo o donazione indiretta? in Nuova giur. civ. comm., 2010, p.579; Mazzariol L., Rinuncia abdicativa alla quota di comproprietà: tra tipicità e atipicità della fattispecie, in Nuova giur. civ. comm., 2015.
[11] NIVARRA L., RICCIUTO V., SCOGNAMIGLIO C., Diritto privato, Torino, 2016; BARASSI L., Proprietà e comproprietà, 1951.