La nozione comunitaria ed italiana di “consumatore” e le differenti forme di tutela attivabili

1. Considerazioni introduttive. – 2. La nozione di consumatore: ambito soggettivo di operatività. – 2.1. (segue) orientamenti dottrinali di segno contrario. – 3. La nozione di consumatore: ambito oggettivo di operatività. – 4. Le tutele individuali di matrice codicistica e le tutele collettive di matrice consumeristica. – 4.1. Le azioni avverso le pratiche commerciali scorrette. – 4.2. L’azione inibitoria avverso le clausole vessatorie. – 4.3. L’azione inibitoria avverso le violazioni di interessi collettivi di consumatori ed utenti. – 4.4. Le azioni risarcitorie collettive. – 4.4.1. (segue) avverso i professionisti e le imprese. – 4.4.2. (segue) avverso la Pubblica Amministrazione e i concessionari di pubblici servizi. – 5. Considerazioni conclusive

1. Considerazioni introduttive

Il codice del consumo, all’art. 3 co 1, fornisce una definizione unitaria e restrittiva di ‘consumatore’, identificandolo con la persona fisica che agisce per scopi estranei alla attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.

Viceversa, viene qualificato come ‘professionista’ tanto la persona fisica, quanto la persona giuridica, che agisce nell’esercizio dell’attività professionale o imprenditoriale svolta.

Pertanto, rientra nell’orbita attrattiva della nozione di ‘professionista’ qualsiasi ente, di diritto o di fatto, avente natura pubblica o privata, dotato o meno di personalità giuridica, ivi compresi gli enti no profit – limitatamente all’attività imprenditoriale o professionale strumentale allo svolgimento dell’attività sine lucrum – nonché gli enti pubblici esercenti attività d’impresa, con esclusione dell’attività meramente strumentale.

Viene attratta altresì la categoria degli intermediari del professionista (espressione questa da intendere lato sensu comprensiva non solamente dei mandatari o dei rappresentanti, ma altresì di qualsiasi soggetto che si innesti professionalmente nella catena produzione-distribuzione: agenti, mediatori, vettori).

2. La nozione di consumatore: ambito soggettivo di operatività

Un primo interrogativo concerne proprio l’ambito di applicazione cd. soggettivo della disciplina ed in particolare la possibilità di estendere, o meno, l’operatività della disciplina del consumatore al di là del mero dato letterale dell’art. 3 co 1 Cod. Cons., al fine di applicarla analogicamente a soggetti, pur non dotati di natura fisica, in virtù di esigenze di equità.

A livello sovranazionale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nel 2001, ha ritenuto essenziale il requisito della natura ‘fisica’, escludendo l’estensione analogica della disciplina in esame all’impresa che avesse stipulato un contratto di scambio avente ad oggetto beni di esclusiva fruizione da parte dei dipendenti.

A livello nazionale, la questione è stata affrontata dalla Corte di legittimità ben prima dell’emanazione del Codice del Consumo, in vigenza della disciplina codicistica delle clausole vessatorie, (artt. 1469 bis ss.), con la sentenza nº 10721/2001, escludendo l’estensione della qualità di ‘consumatore’ a favore di colui che, pur non ‘in veste’ di proprietario di un negozio, avesse stipulato un contratto bancario volto a regolare la successiva concessione di finanziamenti ai propri futuri acquirenti. In quest’occasione la Corte:

a) ha ribadito la nozione ‘restrittiva’ di consumatore, ricomprendendovi unicamente le persone fisiche non esercenti attività professionali od imprenditoriali ovvero le persone fisiche che, sebbene esercenti tali attività, avessero concluso il contratto de qua per la soddisfazione di bisogni della vita quotidiana, e dunque agendo per scopri estranei all’attività medesima. Tale orientamento, in armonia con le indicazioni della giurisprudenza sovranazionale, risponde al convincimento che l’ente, personificato o no, non possa agire per scopi diversi da quelli indicati nell’atto costitutivo e nello statuto, e da tale assunto conseguirebbe una sorta di ‘presunzione di professionalità’ degli atti compiuti.

b) ha ritenuto ininfluente la circostanza che il soggetto non avesse agito ‘in veste’ di professionista od imprenditore, ritenendo sufficiente, per l’esclusione dell’operatività della nozione di ‘consumatore’, che il contratto fosse stato stipulato per il conseguimento di uno scopo obiettivamente connesso all’attività professionale od imprenditoriale eventualmente svolta.

In altra occasione, con sentenza nº 10086/2001, la Corte ha preso in esame talune operazioni economiche che, formalmente imputabili ad un ente, fossero in realtà riconducibili ad una pluralità di persone fisiche (il caso di specie concerneva taluni contratti stipulati dall’amministratore di condominio in qualità di mandatario con rappresentanza dei singoli condomini), ritenendo estensibile, a favore di questi ultimi, la qualifica di ‘consumatore’.

2.1  (segue) orientamenti dottrinali di segno contrario

Nonostante il rapporto di concordanza tra gli orientamenti giurisprudenziali sovranazionali e quelli interni della corte di legittimità, talune pronunce di merito, muovendo da ragioni di equità e di giustizia sostanziale, hanno sottolineato la necessità di ricorrere ad un’estensione analogica della nozione di ‘consumatore’ a favore di enti, personificati o no, connotati dalla medesima condizione sostanziale di ‘debolezza’ nei confronti del professionista.

Pertanto, nel 2001, un Giudice di Pace di Sanremo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., in relazione alla disciplina delle clausole vessatorie di cui all’art. 1469 bis, co 2 (oggi art. 33 co 2, cod. cons.), nella misura in cui, fra i soggetti beneficiari di tale regime più favorevole, non menzionava le persone giuridiche e gli enti di fatto connotati da obiettiva condizione di debolezza.

La Consulta, intervenendo con sentenza nº 469/2002, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione sollevata, condividendo la scelta del legislatore di ancorare la qualità di ‘consumatore’ all’indefettibile requisito (non sufficiente, sebbene necessario) della natura fisica del soggetto contraente, con ciò escludendo dal regime speciale tutti quei soggetti (professionisti, piccoli imprenditori, artigiani) che, in forma individuale o collettiva, agissero per scopi in qualche modo connessi all’attività economica svolta. In ragione dell’attività abitualmente esercitata, detti soggetti procederebbero ad una contrattazione in condizioni di parità con la controparte ‘professionista’.

Le medesime conclusioni sono state condivise anche dalla dottrina maggioritaria, la quale ha ribadito come la ratio alla base della politica comunitaria di tutela del consumatore sia di natura economica, piuttosto che sociologica ed equitativa, avendo di mira i mercati finali (in cui persone fisiche si contrappongono a professionisti) e non i mercati intermedi, in cui si muovono piccole e medie imprese e liberi professionisti.

3. La nozione di consumatore: ambito oggettivo di operatività

Un secondo interrogativo investe invece l’ambito di applicazione oggettivo della norma, e concerne in particolare la disciplina applicabile ai cd. ‘contratti a finalità promiscua, privata e professionale’.

Vi è concordanza, a tal proposito, fra il piano sovranazionale e quello interno, così come, all’interno di quest’ultimo, tra le opinioni della dottrina maggioritaria e quelle della giurisprudenza di legittimità.

A livello sovranazionale, la Corte di giustizia dell’Unione Europea, esclusivamente competente in materia di interpretazione dei trattati e di ogni altro atto di derivazione comunitaria, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla corretta interpretazione da attribuire all’art. 13 della Convenzione di Bruxelles del ’68, è intervenuta nel 2005 per chiarire come la controparte di un contratto stipulato per finalità mista, personale e professionale, di regola non abbia il diritto di avvalersi del beneficio delle regole derogatorie di competenza del foro del consumatore, previste dagli artt. 13-15, se non nell’eccezionale ipotesi in cui, fra il contratto stipulato e l’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta, intercorra un legame talmente modesto da divenire assolutamente marginale (e in ogni caso la valutazione degli elementi, afferenti al caso concreto, spetterà al giudice interno).

A livello nazionale, l’orientamento dottrinale assolutamente dominante (ALPA, CHINÈ) ha elaborato la teoria dello ‘scopo obiettivo dell’atto’, escludendo l’applicabilità della disciplina del consumatore alle ipotesi di contratti a finalità mista, nella misura in cui l’art. 3 co. 1 si riferirebbe esclusivamente agli scopi totalmente ‘estranei’, in linea con la giurisprudenza di legittimità (si veda la già citata sentenza della Corte di Cassazione n* 10127/2001) secondo la quale l’accertamento della natura (privata o professionale) dello scopo per il quale il soggetto ha agito debba avvenire in virtù di un criterio ‘oggettivo’, a nulla rilevando l’intenzione soggettiva (il cd. ‘motivo) che abbia animato il contraente.

Il giudice dovrà pertanto valutare gli elementi soggettivi – modalità dell’atto, forme utilizzate, circostanze di tempo e di luogo, condizioni di pagamento – al fine di verificare che l’atto sia stato effettivamente compiuto per soddisfare i bisogni personali o familiari. A nulla rileva altresì, come già precisato, che la stipula sia formalmente avvenuta ‘in veste’ di professionista/imprenditore o piuttosto di consumatore, dovendosi guardare unicamente allo scopo.

Non è tuttavia mancata una certa tendenza dottrinale (GABRIELLI), corroborata da disparate pronunce di merito, protesa a distinguere da un lato gli ‘atti della professione’, esclusi dall’ambito protettivo della disciplina in esame e, dall’altro lato, gli ‘atti relativi alla professione’ (fra cui gli atti a finalità promiscua), che invece vi rientrerebbero, distinzione fortemente criticata e ritenuta irrilevante (DI MARZIO, STELLA RICHTER) nella misura in cui finirebbe per accordare protezione anche a soggetti che non subirebbero alcuna ‘asimmetria informativa’ rispetto alla controparte contrattuale.

4. Le tutele individuali di matrice codicistica e le tutele collettive di matrice consumeristica

Venendo adesso alle forme di tutela esperibili da parte del consumatore, la disciplina consumeristica affianca alle tradizionali azioni individuali, esperibili dal singolo consumatore, una serie di tutele ‘mediate’.

Ferma resta infatti, al ricorrere dei presupposti previsti dalla legge, la possibilità di esperire l’azione contrattuale per inadempimento, ai sensi degli artt. 1218 ss cod. civ., l’azione precontrattuale ex art. 1337 cod. civ., od infine l’azione extracontrattuale ex artt. 2043 ss; così come resta parimenti intatto il diritto di procedere, in ipotesi di ‘asimmetria patologica’, all’esercizio di un’azione di annullamento o di rescissione.

All’interno del codice del consumo viene poi introdotta una serie di tutele ‘speciali’, che adesso analizzeremo più nel dettaglio.

4.1. Le azioni avverso le pratiche commerciali scorrette

Una prima disciplina speciale è prevista con riferimento alle pratiche commerciali scorrette. Con tale espressione ci si riferisce ai comportamenti idonei a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore, inducendolo ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso.

A tal proposito merita attenzione, a livello sovranazionale, il regolamento 2004/2006 CE, adottato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio per la cooperazione e l’assistenza reciproca tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori, al fine di prevenire le infrazioni intra comunitarie.

L’art. 27 Cod. Cons., richiamando il regolamento in questione, individua l’AGCOM (Autoritá Garante per la Concorrenza ed il Mercato) quale autorità nazionale competente, cui spetta in via esclusiva l’intervento, d’ufficio o su istanza di soggetti od organizzazioni che ne abbiano interesse, per inibire la continuazione di pratiche commerciali scorrette:

  • disponendone con provvedimento motivato la sospensione provvisoria laddove sussista particolare urgenza, ed avviando un’istruttoria regolamentata, a carico del professionista, nella quale sia garantito in ogni caso il principio del contraddittorio;
  • comminando, in caso di inottemperanza senza giustificato motivo, sanzioni amministrative pecuniarie di diversa entità.

Il tema delle pratiche commerciali sleali rimane, ancor oggi, un terreno protagonista di lotte continue. È di recente intervenuta, su segnalazione del Codacons, l’autorità Antitrust, comminando la massima sanzione amministrativa a carico di Trenitalia.

I sistemi informativi, messi a disposizione dei viaggiatori perché questi potessero provvedere autonomamente all’acquisto dei titoli di viaggio, mostravano in evidenza solo le combinazioni di viaggio più onerose (ossia quelle concernenti treni ad alta velocità), giacché quelle più economiche diventavano visibili solo allorché fosse il cliente a selezionare ‘tutte le soluzioni’.

In quest’occasione l’AGCOM ha provveduto alla comminazione di una maxi-sanzione di 5 milioni di euro, primo atto di una dichiarazione ufficiale di guerra al colosso italiano dei trasporti ferroviari.

4.2. L’azione inibitoria avverso le clausole vessatorie

Un’ulteriore garanzia, di natura generale e preventiva, attivabile dagli enti collettivi riconosciuti, è riconosciuta a favore del consumatore in materia di clausole vessatorie: l’azione inibitoria.

Prima dell’emanazione del codice del consumo, l’art. 1469 sexies cod. civ. attribuiva alle camere di commercio e alle associazioni dei consumatori la legittimazione attiva nel giudizio avverso il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzassero o raccomandassero l’utilizzo di condizioni generali di contratto di accertata abusività.

Il Codice del Consumo introduce una specifica disciplina, all’art. 37, prevedendo la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione inibitoria in capo alle associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale, nonchè delle associazioni rappresentative dei professionisti o delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, potendo queste convenire in giudizio il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzino o raccomandino l’utilizzo di condizioni generali di contratto.

Presupposto per la concessione dell’inibitoria è che ricorrano ‘giusti motivi di urgenza’ ex art. 669 bis cod. proc. civ., requisito valutato con riferimento all’idoneità della clausola vessatoria ad incidere qualitativamente su diritti fondamentali della persona o su beni primari, come chiarito dalla giurisprudenza. Il co. 4 dell’art. 37 cod. cons. prevede che, per quanto non espressamente disciplinato dallo stesso, alle azioni inibitorie esercitate dalle associazioni dei consumatori si applicano le disposizioni dettate dall’art 140 sull’inibitoria collettiva.

4.3. L’azione inibitoria avverso le violazioni di interessi collettivi di consumatori ed utenti

Un ulteriore strumento di tutela, attivabile unicamente dalle associazioni rappresentative avverso le violazioni di interessi collettivi dei consumatori e degli utenti, è quello introdotto dall’art. 140 cod. cons.

Sono necessarie, tuttavia, alcune precisazioni preliminari.

I) dato il diverso ambito soggettivo di operatività, unicamente le associazioni hanno la possibilità di chiedere al giudice l’adozione delle misure riparatorie; gli altri soggetti (Camere di commercio, associazione di professionisti) sono invece legittimati al l’esperimento dell’azione inibitoria, disciplinata dall’art. 37, concernente il divieto di utilizzo futuro delle clausole vessatorie.

II) con questo strumento non è possibile ottenere il risarcimento dei danni eventualmente subiti dai singoli consumatori, poiché con l’azione collettiva le associazioni agiscono a tutela o in rappresentanza non dei singoli diritti, ma degli interessi collettivi.

Resta fermo il diritto del singolo consumatore, pertanto, come espressamente previsto dal co 9 dell’art. 140, di avviare un’azione risarcitoria individuale, eventualmente concorrente con l’azione inibitoria delle associazioni, sul presupposto che l’atto o il comportamento sia stato individualmente lesivo nei confronti del singolo (e ferma restando l’applicazione, in questo caso, delle regole processuali in materia di litispendenza, continenza, riunione, connessione).

Le associazioni, non prima che siano trascorsi 15 giorni dalla bonaria ed infruttuosa richiesta di cessazione del comportamento lesivo attraverso raccomandata a/r all’impresa o al professionista, possono agire in giudizio per chiedere al tribunale di:

1) ordinare al soggetto la cessazione di atti o comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori, ovvero vietarne la ripetizione in futuro;

Il provvedimento può consistere nell’imposizione di un obbligo di fare (ritiro del prodotto difettoso, innalzamento degli standard qualitativi) ovvero di un obbligo di non fare (inibire l’utilizzo di clausole vessatorie nelle condizioni generali di contratto).

2) adottare misure idonee ad eliminare o correggere gli effetti dannosi delle violazioni accertate;

Il contenuto di queste misure è deciso dal giudice, ed è volto a ripristinare la situazione preesistente.

3) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani.

Con questo rimedio si intende far conoscere a tutti i consumatori potenziali del prodotto la natura vessatoria delle clausole (art. 37) o la decisione circa la misura adottata dal giudice al fine di eliminare le violazioni commesse dal professionista (art. 140), e funge da deterrente per l’adozione di buone condotte del professionista, il quale potrebbe essere mosso proprio dall’esigenza di evitare la cattiva pubblicità che di riflesso potrebbe derivare dalla divulgazione della notizia

Le associazioni, così come gli organismi pubblici indipendenti nazionali e le organizzazioni riconosciute in altro Stato comunitario, hanno la facoltà di attivare prima del ricorso al giudice la procedura di conciliazione dinanzi alla Camera di Commercio competente per territorio, attivabile altresì dal soggetto al quale viene chiesta la cessazione del comportamento, e in questo caso l’autorità giurisdizionale si limiterà ad omologare il contenuto del verbale di conciliazione.

4.4 Le azioni risarcitorie collettive

Infine, meritano attenzione le azioni collettive risarcitorie nei confronti delle imprese e della Pubblica Amministrazione.

4.4.1 (segue) avverso i professionisti e le imprese.

La prima è disciplinata dall’art. 140 bis cod. cons., introdotto con la Legge finanziaria del 2008 e successivamente modificato dal decreto sulle liberalizzazioni nº 1/2012; la class action specifica, avverso atti e comportamenti della PA, è stata introdotta e disciplinata invece dal d. lgs. nº 198/2009.

L’art. 140 bis introduce una tutela risarcitoria collettiva, una vera e propria class action ordinaria, attraverso la quale far valere diritti individuali ed omogenei dei consumatori. Tale previsione estende l’azione delle associazioni di categoria oltre l’ambito di operatività degli strumenti – meramente inibitori – previsti dagli artt. 37 e 140, consentendogli di agire in giudizio per il (preventivo) accertamento delle violazioni commesse dall’impresa, con la quale si è entrati in rapporti contrattuali mediante sottoscrizione di contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 cid. civ., e per la (successiva) determinazione e quantificazione del danno risarcibile. Le violazioni possono essere cagionate dalla diffusione di prodotti difettosi, o dall’assunzione di comportamenti commerciali scorretti o contrari alle norme concorrenziali.

Tale ricorso riduce notevolmente i costi processuali che il singolo dovrebbe sostenere qualora intentasse un’azione individuale, consentendogli anche di aderire successivamente alla pretesa di classe già azionata.

La legittimazione attiva è riconosciuta, oltre che alle associazioni riconosciute dal DM, ex art. 137, anche alle associazioni e ai comitati dotati di rappresentatività; per contro, la legittimazione passiva è invece limitata alle sole imprese. I consumatori che intendano avvalersene devono comunicare per iscritto, all’associazione proponente, la propria adesione entro e non oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni (sistema di opt-in) e il giudice può adottare idonee forme di pubblicità.

L’art 140 bis co 3 statuisce che il tribunale, alla prima udienza, pronunci sulla ammissibilità della domanda, con ordinanza reclamabile davanti alla corte di appello, che pronuncerà in camera di consiglio.

A tal proposito, con ordinanza nº 8433/2015 viene rimessa alle Sezioni Unite la questione circa la definitività o meno dell’ordinanza di inammissibilità, dipendendo da tale interrogativo, per un verso, la possibilità di riproposizione della domanda risarcitoria collettiva in sede ordinaria, per i medesimi fatti e contro la medesima impresa e, per altro verso, la ricorribilità in Cassazione avverso l’ordinanza de qua.

Il collegio remittente era orientato per la definitività dell’ordinanza (ritenendo determinante, a tal proposito, l’assenza di indicazioni del legislatore in tal senso, a fronte del combinato disposto dei commi 3 e 15 che, invece, consentirebbero espressamente la riproposizione della domanda risarcitoria individuale).

Altro orientamento delle sezioni semplici, nel 2012, aveva invece proteso per la non definitività dell’ordinanza (ritenuta per ciò non ricorribile in Cassazione – se non per la pronuncia sulle spese – in quanto fondata su una delibazione sommaria, e pertanto idonea a fondare una mera pronuncia di rito, non ostativa della riproposizione dell’azione risarcitoria collettiva in via ordinaria).

Qualora la domanda venga accolta, il giudice individua i criteri per la liquidazione delle somme, e nei sessanta giorni successivi alla notificazione della sentenza l’impresa propone il pagamento di una somma. Se questa viene accettata dal consumatore, la proposta diviene titolo esecutivo.

Qualora la proposta non venga accettata, o in caso di inerzia dell’impresa condannata, si avvierà una fase di conciliazione, dinanzi ad una camera a composizione paritetica e presieduta da un avvocato nominato dal presidente del tribunale.

4.4.2. segue) avverso la Pubblica Amministrazione e i concessionari di pubblici servizi.

Infine, completa il quadro delle tutele la L. nº 15/2009, attraverso il nuovo istituto dell’azione collettiva rivolta alle amministrazioni e ai concessionari di servizi pubblici, che si affianca alla class action ordinaria, di matrice consumeristica.

La nuova class action, avente ad oggetto il rapporto tra cittadino e P.A., si propone di garantire l’effettività della pretesa del primo al rispetto dei canoni di qualità, economicità e tempestività da parte della seconda, in un’ottica sempre più permeata dalla visione delle amministrazioni pubbliche come ‘amministrazioni di risultato’.

Tuttavia, essa ha natura esclusivamente ripristinatoria, e non risarcitoria.

Per un verso, gli enti esponenziali hanno una legittimazione attiva autonoma (non necessitando di uno specifico mandato dei singoli componenti della classe), che si affianca a quella dei titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei; per altro verso, la sentenza finale di accoglimento non provvede sul risarcimento del danno subito dai cittadini, per espressa esclusione legislativa, restando fermi i rimedi ordinari (si pensi all’azione risarcitoria dinanzi al G.A., ex art. 30 c.p.a.).

La domanda verrà accolta qualora, nel primo giudizio:

a) venga accertata, alternativamente:

  • la violazione degli standard qualitativi ed economici;
  • la violazione degli obblighi contenuti nelle Carte dei servizi;
  • la violazione degli obblighi di emanazione (concernenti atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo)
  • la violazione dei relativi termini a provvedere (e in quest’ultimo caso, il rimedio si aggiunge all’azione individuale per danno da ritardo ex art. 2 bis L. nº 241/1990)

b) sia provata la lesione diretta, concreta ed attuale, eziologicamente connessa ad una delle violazioni precedentemente elencate.

L’azione presuppone una diffida (assente nella class action ordinaria) all’amministrazione o al concessionario, con la quale vengono invitati ad intervenire spontaneamente per la composizione degli interessi lesi, che diviene condizione di procedibilità, ragion per cui il ricorrente ha l’onere di provare l’avvenuta notificazione della diffida all’organo di vertice dell’amministrazione.

L’azione non può essere promossa:

I) se un organismo di regolazione nazionale o regionale abbia instaurato, e non completato, un procedimento istruttorio volto ad accertare le medesime condotte;

II) se sia stato già instaurato, in relazione alle medesime condotte, un giudizio inibitorio o risarcitorio ex artt. 139, 140, 140 bis del Codice del Consumo (i quali prevarranno anche se avviati dopo l’azione pubblica, data la sussidiarietà dell’azione in esame).

L’eventuale accoglimento della domanda veicola una condanna ad un facere, poiché il giudice ordina alla Pubblica Amministrazione, o al concessionario, di porre rimedio alla violazione, all’omissione o all’inadempimento entro un congruo termine, nei limiti delle risorse e senza maggiori oneri per la finanza pubblica.

L’espressa esclusione legislativa di un ricorso al fine di chiedere al giudice una sentenza di condanna al risarcimento del danno rappresenta, per un verso, un grosso limite sul piano dell’effettività della tutela giurisdizionale; per altro verso, appare disarmonica con la tendenza, instaurata a partire dalla sentenza Cass. Sez. Un. nº 500/1999, ad una piena responsabilizzazione dei soggetti pubblici. Anche la fase dell’esecuzione, così come quella della cognizione, è rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; ciò consente, in caso di inadempimento dell’amministrazione o del concessionario, il ricorso al giudizio di ottemperanza ex art. 112 c.p.a.

Per quanto concerne, infine, l’attribuzione delle controversie aventi ad oggetto le erogazioni di pubblici servizi, ad opera di pubbliche amministrazioni o di pubblici concessionari, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, essa appare una scelta condivisibile perché coerente con gli insegnamenti della Corte Cost., la quale, con sentenza nº 204/2004, rispondendo all’interrogativo circa l’esistenza o meno di parametri o limiti in ordine a tale devoluzione, ha individuato il ‘criterio della pertinenza’, secondo il quale può dirsi costituzionalmente legittima unicamente la devoluzione concernente materie che intercettano non esclusivamente diritti soggettivi, ma altresì interessi legittimi (come evidentemente nel caso di specie può dirsi).

Con l’azione di classe introdotta dalla riforma Brunetta, appena analizzata, si chiude la giostra delle tutele attivabili dal consumatore. In particolare avverso quest’ultima non sono mancate severe critiche, essendo ritenuta fortemente carente sotto il profilo dell’effettività della tutela contro le inefficienze della P.A. per l’assenza di profili risarcitori e per la scarsa deterrenza da essa veicolata.

5. Considerazioni conclusive

Sebbene sia innegabile che, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, il consumatore verta davvero in condizioni di squilibrio informativo nei confronti del professionista, alcune riserve possono forse nutrirsi con riferimento a quella classe di potesi nelle quali il contraente sia qualificabile come ‘professionista’ o ‘imprenditore’, sebbene in relazione a settori ‘estranei’ a quelli oggetto del contratto.

La Corte di Giustizia, con una recente pronuncia del 3 Settembre 2015, in relazione al C-110/14, ha nuovamente ribadito che il professionista (nel caso di specie un avvocato di nazionalità rumena), quando agisce ‘fuori dallo studio’, è da considerarsi un ‘consumatore’.

Sebbene tale pronuncia sia in linea con l’orientamento costante, che àncora unicamente alla natura fisica del contraente, e allo scopo sotteso all’atto concluso, ogni indagine concernente la qualificazione del contraente, è innegabile l’esistenza di alcune ipotesi pratiche, molto meno ‘limite’ di quanto possa sembrare, in cui la disciplina si risolve, forse, in un eccesso ingiustificato di tutela.

Si prendano in esame le ipotesi in cui il ‘consumatore’ sia un imprenditore con decenni di esperienza professionale alle spalle, o un avvocato (magari) civilista, (magari anche) specializzato nella disciplina delle clausole vessatorie, o un qualsiasi professionista abituato alla contrattazione mediante adesione a formulari e moduli predisposti. Immaginare che tutti questi soggetti provvedano alla stipula di un contratto con altro professionista – sebbene in ambiti non concernenti direttamente l’attività professionale svolta – non prestando la dovuta attenzione e dimenticando l’esperienza maturata in tema di contrattazione, rasenta la fantasia.

Probabilmente questa zona ‘grigia’, e il relativo eccesso di tutela, è il corrispettivo di una disciplina quantomeno ancorata a requisiti oggettivamente accertabili, sebbene finisca per risolversi in una parziale forzatura della serratura.

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