Per integrazione del contratto si intende l’inserimento, nello stesso, di regole che non sono state previste dalle parti e che hanno titolo in fonti esterne all’accordo dei contraenti.
Come noto, l’art. 1321 c.c. dispone che il contratto è “l’accordo di due o più parti”.
Siffatta norma, tuttavia, non esaurisce nella volontà negoziale dei contraenti il novero delle fonti del regolamento contrattuale.
Invero, ai sensi dell’art. 1374 c.c., “il contratto obbliga le parti non solo in ordine a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi o l’equità”.
Pertanto, si desume che le fonti deputate a definire il contenuto di un contratto, oltre all’accordo delle parti, siano la legge, gli usi e l’equità.
L’integrazione del contratto può essere suppletiva o cogente.
L’integrazione suppletiva del contratto
L’integrazione del contratto si dice suppletiva quando disciplina il rapporto contrattuale in relazione ad aspetti dell’operazione economica che non sono stati regolati in via pattizia.
In altri termini, funzione della stessa è di colmare un lacuna del regolamento contrattuale, relativa ad elementi non essenziali dello stesso, arricchendolo con regole che siano in linea con l’intento dei due contraenti ovvero con l’esigenza di una razionale organizzazione dell’affare.
L’integrazione suppletiva può anche avere il ruolo di colmare una lacuna relativa ad un aspetto essenziale dell’operazione economica, come ad esempio la controprestazione a carico di uno dei contraenti.
Si vedano, a tal proposito gli artt. 1657 (relativo alla determinazione del corrispettivo nei confronti dell’appaltatore) e 2225 c.c. (in ordine alla determinazione del corrispettivo nel contratto d’opera): in entrambi i casi ai fini della determinazione del corrispettivo si fa riferimento agli usi normativi.
Giova premettere che lo stesso art. 1374 c.c. stabilisce una gerarchia tra le fonti del regolamento contrattuale.
Infatti, usi ed equità assumono un carattere suppletivo, in quanto valgono in assenza di una volontà espressa dalle parti o in mancanza di una disposizione di legge.
Tra l’altro, lo stesso art. 8 Disp. Prel. conferma il carattere suppletivo degli usi rispetto alla legge, poiché dispone che gli stessi hanno efficacia solo in quanto da quest’ultima richiamati.
L’ambito applicativo degli usi è dunque abbastanza ridotto, in quanto integrano il contratto solo in relazione a quegli effetti in ordine ai quali le parti non abbiano espresso la loro volontà ovvero l’abbiano espressa in maniera lacunosa o ambigua[1].
La legge, infine, è suppletiva quando ha natura dispositiva.
L’integrazione cogente del contratto
Al contrario, si parla di integrazione cogente, quando viene applicata la disciplina legale in sostituzione di quella prevista dalle parti.
Si veda, per esempio, quanto disposto dall’art. 1339 c.c.: “le clausole e i prezzi di beni e servizi imposti dalla legge sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti“.
In applicazione di tale norma, nel caso in cui le parti abbiano stipulato clausole difformi a quanto imposto dalla legge, per effetto dell’integrazione cogente, si verifica la caducazione della parte dell’atto viziata e l’introduzione nel contratto del differente contenuto ordinato dal legislatore.
La legge
L’integrazione del contratto può avvenire innanzitutto per mezzo della legge.
Con siffatta espressione si intendono:
- in primo luogo, le norme che regolano i diritti e gli obblighi delle parti sia con riferimento al contratto in generale, che con riferimento ai singoli tipi contrattuali;
- in secondo luogo, facendo riferimento agli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c., si intende il già accennato fenomeno dell’integrazione cogente.
L’integrazione mediante norma dispositiva può aversi sia con un’applicazione diretta di una disposizione di legge, che per tramite dell’analogia: l’art. 1490 c.c., ad esempio, è applicabile in via diretta al contratto di vendita e per analogia al preliminare di vendita.
Vi sono inoltre casi in cui si ritiene ammessa l’integrazione suppletiva anche per mezzo di norme imperative (anche se non può essere considerato suppletivo in senso stretto).
Si pensi al caso in cui le parti abbiano taciuto su un aspetto dell’operazione economica regolato da una norma imperativa; ovvero al caso in cui sia presente nel contratto una clausola nulla non essenziale: in tali circostanze il contratto, considerata la nullità della clausola non essenziale, rimarrebbe valido per il resto, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c. e verrebbe trattato alla stregua del contratto in cui sia presente una lacuna su un aspetto inderogabilmente disciplinato dal legislatore.
In entrambi i casi, invero, si tratta di integrazione suppletiva in quanto non avviene nonostante la diversa volontà delle parti, ma supplisce alla mancanza di previsione delle stesse[2].
Gli usi normativi e gli usi contrattuali
Relativamente agli usi, l’art. 1374 c.c. fa riferimento agli usi normativi (art. 8 Disp. Prel.), che hanno efficacia nelle materie non regolate dalla legge e, nelle materie regolate, solo se richiamati espressamente dalle stesse.
Si ricorda che per “usi”, si intendono quelle regole non scritte che un ambiente sociale osserva costantemente nella convinzione che esse abbiano valore vincolante.
Come è stato esposto in precedenza, gli usi normativi trovano applicazione nel caso in cui siano espressamente richiamati dalla legge, ovvero in assenza di norme scritte. Pertanto, non possono derogare a norme dispositive.
Al contrario, le clausole d’uso (o usi negoziali), diversamente dagli usi normativi, sono disciplinate dall’art. 1340 c.c., il quale dispone che queste “si intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti”.
L’orientamento tradizionale distingueva gli usi normativi dagli usi contrattuali, definendo i secondi abituali pratiche contrattuali individuali, proprie di quei determinati contraenti[3].
Infatti, si riconduceva a siffatta interpretazione l’art. 1474, comma 1, c.c., secondo il quale se il contratto di compravendita ha ad oggetto cose che il venditore vende abitualmente, in assenza di determinazione del prezzo, “si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore”.
Tuttavia, dottrina recente ritiene che gli usi contrattuali consistono nelle prassi contrattuali adoperate dalla generalità degli operatori economici di un dato luogo o facenti parte di un determinato settore[4].
Invero, l’interpretazione tradizionale contrastava con l’art. 1368 c.c. relativo agli usi interpretativi, che fa, appunto, riferimento a ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui ha sede l’impresa.
Definiti gli usi contrattuali, resta il problema di distinguerli dagli usi normativi.
A tal riguardo, dottrina autoritaria considera gli usi normativi norme non scritte di diritto oggettivo, che vincolano i contraenti anche nel caso in cui ne siano ignari al momento della conclusione del contratto e gli usi contrattuali clausole non scritte del contratto, che vincolano i contraenti alla stessa stregua delle clausole scritte.
Sul punto, l’Uniform Commercial Code degli Stati Uniti fornisce una precisa distinzione allorché riporta l’efficacia vincolante degli usi commerciali alla legittima aspettativa di ciascun contraente alla loro osservanza da parte dell’altro contraente.
Aspettativa che trova un fondamento nel fatto che gli operatori di quel settore economico e di quel dato luogo sono soliti uniformarvisi.
Quindi, le clausole d’uso sono vincolanti al pari delle clausole contrattuali e, pertanto, a differenza degli usi normativi, queste prevalgono sulle norme dispositive di legge[5].
D’altra parte, gli usi contrattuali vincolano i contraenti sul presupposto che vi è una volontà conforme degli stessi, che l’uso stesso fa presumere.
In altri termini, se l’uso è ciò che abitualmente si pratica in quel determinato settore (dalla generalità degli operatori economici appartenenti ad esso) e in quel determinato luogo, è legittimo che una parte contrattuale abbia l’aspettativa che l’altra parte osservi siffatto uso.
Per questo motivo, a differenza che dagli usi normativi, gli usi contrattuali non vincolano il contraente che ne ignorava l’esistenza al momento della conclusione del contratto, in quanto chi prova di aver ignorato siffatto uso, prova di non averlo voluto applicare[6].
L’equità
Per quanto riguarda l’equità, a differenza dalla legge e dagli usi, essa è il frutto delle determinazioni del giudice, che in tal modo può stabilire giudizialmente il contenuto del contratto.
L’equità menzionata dall’art. 1374 c.c. è differente da quella prevista dal codice di rito agli artt. 113 ss., dove il giudice decide la controversia adottando una regola trovata nella coscienza sociale.
Con riferimento all’integrazione del contratto, l’equità può infatti essere definita come il criterio di contemperamento tra i contrapposti interessi delle parti, in conformità a quell’equilibrio che, avuto riguardo al tipo di operazione economica, raggiungerebbero due contraenti leali e accorti.
La differenza tra equità integrativa ed equità correttiva
Esistono due forme di equità, le quali assolvono differenti funzioni.
La prima, c.d. equità integrativa, ricorre quando la legge consente al giudice di colmare una lacuna presente nel contratto.
Esempi, tra gli altri, sono riscontrabili all’art. 1349, comma 1, c.c. (relativamente alla determinazione dell’oggetto del contratto), all’art. 1526 c.c. (in ordine alla risoluzione del contratto di vendita a rate) e all’art. 2263, comma 2, c.c. (con riferimento alla partecipazione del socio d’opera ai guadagni e alle perdite).
Vi sono altri casi nei quali, anche se non viene fatto riferimento all’equità, la legge attribuisce al giudice il potere di integrare il contratto con siffatto criterio.
Alcuni esempi sono costituiti dall’art. 1183 c.c. (sulla determinazione del termine per l’adempimento dell’obbligazione) e dall’art. 1331, comma 2, c.c. (relativo alla determinazione del termine per l’esercizio dell’opzione).
La seconda, c.d. equità correttiva, ricorre invece quando il giudice modifica il contenuto della determinazione pattizia, nel caso in cui questa risulti iniqua.
Differisce dalla prima forma di equità in quanto quest’ultima non ha la funzione di colmare una lacuna del regolamento contrattuale, ma ha quella di mutare il contenuto dello stesso quando risulti incongruo rispetto ai correnti criteri di mercato.
Un’ipotesi di equità correttiva è prevista dall’art. 1384 c.c., il quale dispone che il giudice ha il potere di ridurre equamente la penale apposta in un contratto se l’ammontare della stessa è manifestamente eccessivo, avuto riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento[7].
Siffatta disposizione trova la sua ratio nell’esigenza di proteggere il contraente più debole.
A tal riguardo, Cassazione, S.U., 13 settembre 2005, n. 18128, ha stabilito che la penale può essere ridotta secondo equità anche in assenza di domanda di parte a riguardo.
Inoltre, Cass. n. 21066/2006 ha riconosciuto il potere in capo al giudice di riduzione della penale nell’ipotesi in cui le parti avevano pattuito la sua irriducibilità[8].
Alla luce di questa differenza tra equità integrativa ed equità correttiva, bisogna specificare che solo la prima ha carattere suppletivo.
Invero, l’equità correttiva non si innesta nel regolamento contrattuale al fine di colmare una lacuna, ma il giudice con essa deroga alla volontà espressa delle parti.
C’è da dire, infatti, che lo stesso potere del giudice deriva sempre da una norma di legge che lo autorizza a correggere il contratto e, pertanto, non è l’equità in sé a derogare alla volontà negoziale delle parti, ma è sempre la legge a farlo.
Non è superfluo ricordare che la violazione delle norme di legge, degli usi, ovvero delle determinazioni equitative del giudice, comporta una responsabilità contrattuale in quanto ciò che si viola è il contratto così come integrato dalle suddette fonti.
L’equità contrattuale è solo uno dei due strumenti attraverso i quali il giudice può limitare la libertà contrattuale dei contraenti, o meglio, può esercitare un controllo sulla funzione economica dello scambio.
L’altro strumento è la buona fede contrattuale con particolare riferimento, per quanto riguarda l’integrazione del regolamento negoziale, alla buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).
La buona fede nell’esecuzione del contratto ex art 1375 cc
La buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) costituisce un criterio atto a specificare o sviluppare le regole proprie del contratto. Siffatto criterio ha la funzione di garantire una piena attuazione della specifica logica dell’operazione economica.
La buona fede, secondo un orientamento consolidato, assume il significato di correttezza e lealtà[9]. Significato da tenere ben diverso dalla buona fede in materia di possesso e in materia di invalidità del contratto, della simulazione o in tutte quelle norme nelle quali si fanno salvi i diritti dei terzi in buona fede.
In questi ultimi casi, la buona fede si riferisce ad uno stato soggettivo ed indica l’ignoranza di ledere l’altrui diritto.
Invece, nel caso cui ci stiamo riferendo, indica un dovere e precisamente il dovere delle parti di comportarsi secondo correttezza e lealtà.
Secondo un orientamento dominante, assumerebbe dunque il medesimo significato del più generale dovere di correttezza imposto al debitore e al creditore dall’art. 1175 c.c. Si parla, in tal senso di buona fede oggettiva[10].
Il dovere di buona fede contrattuale ha la funzione di identificare altri divieti e altri obblighi rispetto a quelli previsti dalla legge e dal contratto e, pertanto, realizza una sorta di “chiusura” del sistema legislativo.
Nello specifico, la buona fede nell’esecuzione del contratto, prevista dall’art. 1375 c.c., concorre ad integrare il contratto e, pertanto, alla pari delle altre fonti del regolamento contrattuale previste dall’art. 1374 c.c., la sua violazione determina un inadempimento contrattuale e, di conseguenza, la risoluzione del contratto[11].
Siffatto obbligo implica il dovere ciascuna parte di realizzare l’interesse dell’altra ovvero di non arrecarle danno, anche per mezzo dell’adempimento di obblighi non previsti né dalla legge né dal contratto[12].
Il leading case della buona fede come tecnica di integrazione del contratto
Il leading case, nel quale si è fatto per la prima volta riferimento alla buona fede come tecnica di integrazione del contratto, è quello affrontato dalla Cass. 20 aprile 1994, n. 3775.
In tale caso, il Comune di Fiuggi aveva concesso alla società “Ente Fiuggi” la gestione delle terme e delle sorgenti.
Le parti convenivano che il canone di affitto sarebbe variato al variare del prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie di acqua confezionate dalla società e che la stessa società aveva libertà nel determinare siffatto prezzo.
Successivamente si accertò che, nonostante l’elevata inflazione, negli ultimi sette anni, la società Ente Fiuggi aveva mantenuto inalterato il prezzo delle bottiglie e che le aveva vendute a società di distribuzione appartenenti al medesimo gruppo della stessa società, le quali avevano raddoppiato il prezzo di rivendita delle stesse.
Ebbene, la S.C. stabilì che, nonostante il contratto attribuiva piena libertà alla società di determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, la stessa non poteva “ritenersi svincolata dall’osservanza del dovere di correttezza ex art. 1175 c.c, che si pone nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366) e l’esecuzione (art. 1375), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio”[13].
Che il canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza è ormai da ritenersi costituzionalizzato, in quanto espressione del più ampio principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., il quale impone anche obblighi di protezione della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale, è stato ribadito anche dalla Cass., S.U., n. 23726/2007.
Tuttavia, in materia di lavoro è stato stabilito che il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento (che è pur sempre un atto di esecuzione del contratto di lavoro), deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. (Cass. n. 12668/2016).
Buona fede e abuso del diritto
La violazione del dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto può comportare, infine, un abuso del diritto.
Con tale espressione si intende l’esercizio di un diritto che astrattamente spetta a colui che ne è titolare, ma che lo esercita non solo per realizzare un interesse meritevole di tutela giuridica, bensì allo scopo di ledere diritti fondamentali altrui.
Ratio dell’abuso del diritto è quella di evitare un esercizio del diritto contrastante con le finalità dell’ordinamento.
In particolare, esso è espressamente riconosciuto dalla Carta di Nizza all’art. 54, rubricato “Divieto dell’abuso del diritto”[14].
Nel Codice Civile non vi è invece un riferimento esplicito a siffatto istituto, ma sono diverse le norme poste a presidio di tale principio, come ad esempio, oltre alle clausole di correttezza e buona fede (artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1375), il divieto degli atti di emulazione (artt. 833), l’abuso della potestà genitoriale (art. 330) e l’abuso del diritto di usufrutto (art. 1015).
All’abuso del diritto ha fatto riferimento Cass. n. 15942/2007, la quale ha stabilito che deve essere annullata la delibera assembleare che abbia determinato un irragionevole compenso agli amministratori.
Inoltre, in materia di recesso ad nutum, la giurisprudenza ritiene che, quantunque sia preceduto dal dovuto preavviso, non può tradursi in un recesso arbitrario, cioè ad libitum, esercitato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti (Cass. n. 20106/2009).
Di recente, Cass. n. 4984/2014 ha inoltre qualificato come integrante abuso del diritto il comportamento del lavoratore subordinato che si è avvalso del permesso ex art. 33, L. n. 104/1992, non per l’assistenza familiare, ma per attendere ad altra attività, in quanto lesivo della buona fede nei confronti del datore di lavoro che si è visto privato ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, oltre che nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico.
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[1] Cass. n. 1884/1983.
[2] La questione, solo superficialmente affrontata nel testo, non può essere qui approfondita in quanto la differenza di disciplina tra i due commi dell’art. 1419 c.c. necessita di apposita trattazione.
[3] Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 152; Cass. 6849/1983.
[4] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. II, Padova, 2015, p. 206.
[5] F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., p. 207.
[6] Tuttavia, è presente un orientamento contrastante, secondo il quale gli usi contrattuali operano anche nei confronti dei contraenti ignari. V. Cass. n. 5135/2007, ove dispone, a fondamento di siffatto assunto, che l’applicazione degli stessi è esclusa soltanto ove risulti con certezza che i contraenti non abbiano voluto riferirsi ad essi. Orbene, sembra che la Cassazione vada oltre quanto richiesto dall’art. 1340 c.c.
[7] F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., pp. 200-202. Tuttavia, la disposizione in esame subisce una forte limitazione applicativa ad opera degli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36 del Codice del consumo, i quali, nei rapporti tra professionista e consumatore, dispongono che la clausola penale avente un ammontare manifestamente eccessivo viene sanzionata per intero con la nullità (rilevabile anche d’ufficio), senza la possibilità di far ricorso al criterio dell’equità.
[8] C’è da dire che la rilevabilità d’ufficio della clausola che prevede una penale eccessivamente eccessiva presuppone la nullità della clausola che, ai sensi dell’art. 1421 c.c., ammette la rilevabilità d’ufficio della nullità. Siffatta nullità è argomentabile sulla base che nell’art. 1384 c.c. è implicita una norma imperativa che impone una proporzione tra le prestazioni contrattuali e la cui violazione comporta la nullità della clausola ex art. 1418, comma 1, c.c. Essendo la clausola che prevede la penale nulla nei limiti della sua eccessività, trattasi di nullità parziale.
[9] F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., pp. 647-648; Cass. n. 25047/2009.
[10] Una interessante pronuncia che tenta di definire il concetto di buona fede è del Tribunale di Torre Annunziata, 10 gennaio 2014, n. 186, il quale sostiene che l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un generale principio di solidarietà sociale e che, in materia contrattuale, comporta un obbligo di reciproca lealtà che deve sussistere in tutte le fasi della formazione, interpretazione ed esecuzione del contratto, la cui violazione comporta un inadempimento contrattuale, senza che sia necessario provare il proposito doloso di recare pregiudizio all’altro contraente. V. anche Cass. n. 17716/2011.
[11] E anche, secondo Cass., S.U., n. 28056/08, di per sé, un danno risarcibile; in termini anche Cass. n. 22819/2010 e n. 17716/2011.
[12] Cass. n. 264/2006.
[13] Quest’ultimo concetto ribadito, altresì, da Cass. n. 14605/2004.
[14] Tale norma recita che “nessuna disposizione della presente carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciute nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”. A siffatto principio fa riferimento, tra le altre, Cass. n. 2352/2010.