Il Decreto Legislativo n. 14 del 12 gennaio 2019, noto come “Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza” ha riformato in modo organico la disciplina delle procedure concorsuali, prima di tutto racchiudendo in un unico corpus la normativa, fino a quel momento, distribuita in diversi e più volte ritoccati provvedimenti.
Tra le tante novità e differenze, rispetto alla situazione alla quale siamo stati abituati, spicca certamente la previsione di un cosiddetto “procedimento unitario” di accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Il primo punto è dare forma a questa espressione, che sembra indicare un insieme indistinto di strumenti, i quali in realtà differiscono molto tra loro; la locuzione “procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza” ricomprende al suo interno tanto la procedura di liquidazione giudiziale, espressione che il Codice ha adottato in sostituzione della procedura per eccellenza ossia il fallimento, e poi le soluzioni negoziali della crisi, più precisamente il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Va inoltre ricordato che, a differenza di quanto originariamente previsto[1], tale sistema, come le altre disposizioni del Codice, salvo quelle che per espressa previsione di legge sono già entrate in vigore, troveranno applicazione soltanto a partire dal settembre 2021. Questo avviene secondo quanto inserito nel decreto legge “Liquidità”, il n.23 dell’8 aprile 2020 che all’art.5 primo comma espressamente prevede: All’articolo 389 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, il comma 1 e’ sostituito dal seguente: «1. Il presente decreto entra in vigore il 1 settembre 2021, salvo quanto previsto al comma 2.»[2].
Il tempo di rodaggio per queste previsioni è pertanto ancora molto lungo, questo ci fa cogliere, a maggior ragione, l’occasione per approfondirne alcuni aspetti.
Cenni sulla situazione attuale
Trattandosi di una novità assoluta del Codice della crisi, non si può prescindere da alcune considerazioni riguardanti la generalità delle procedure e la modalità che oggi ne caratterizzano l’accesso. Attualmente abbiamo il procedimento per la dichiarazione di fallimento, la cui disciplina è contenuta all’art. 15 della Legge Fallimentare[3], che si svolge davanti ad un tribunale in composizione collegiale secondo le modalità previste per i procedimenti in camera di consiglio, mentre la legittimazione attiva spetta tanto al debitore, quanto ai creditori, uno o più, e anche al pubblico ministero[4]. Accanto a questo rito, la Legge Fallimentare, prevede poi una serie di altre previsioni che regolano la soluzione pattizia della crisi di impresa, l’intero Titolo II, che riguarda il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti in tutti i suoi aspetti processuali[5].
In breve, si può affermare che vi è una pluralità di procedimenti, i quali svolgimenti possono però interferire tra di loro, ma nonostante questo processualmente e sostanzialmente si presentano come delle singole unità, a sé stanti.
Ratio del procedimento unitario e intento del legislatore
Parlare di una semplice intento semplificatorio nell’introduzione del procedimento unitario è riduttivo, la reductio ad unum in questione porta con sé anche considerazioni più profonde. Il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza prevedendo un procedimento unitario vuole infatti realizzare un passaggio processuale comune, appunto unitario, a tutte le iniziative giudiziali fondate sulla crisi o sull’insolvenza tanto nell’ipotesi di conservazione quanto in quella di liquidazione dell’impresa o del patrimonio del debitore. Tale intento emergeva già all’interno della legge delega dove si poneva l’esigenza di “adottare un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, in conformità all’articolo 15 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo […]”[6].
Dal punto di vista pratico, questa innovazione del sistema si accompagna alla necessità di risolvere l’annoso problema dell’interferenza tra i processi di regolazione pattizia della crisi ed il procedimento per la dichiarazione di fallimento: la regolazione del concorso tra le domande di soluzione pattizia della crisi e l’istanza di fallimento, due percorsi diametralmente opposti ta loro, poiché le prime ambiscono alla conservazione dell’impresa mentre la seconda ha esito disgregativo della stessa. In altri termini, interferenza e alternatività sono due caratteristiche centrali di queste domande giudiziali, che hanno pertanto alla base un petitum diverso, per non dire opposto l’uno all’altro.
Il punto focale consiste quindi nell’interpretare correttamente la dicitura “unitario”, in quanto non si tratta di procedimento unico bensì di accesso comune ad un procedimento che può avere poi esiti differenti, a seconda della finalità posta alla base della domanda, si assiste quindi alla permanenza della pluralità di riti, che si manifesta però soltanto in un momento successivo rispetto al deposito della domanda giudiziale ovvero alla fase iniziale del procedimento. Tale assunto si ritrova pienamente nella relazione di accompagnamento al Codice della crisi e dell’insolvenza, dove si legge “l’adozione di un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi e di insolvenza, prevista come principio generale dall’articolo 2, primo comma, lett. d) della legge delega n. 155/2017, non implica la rinuncia al principio della domanda, tant’è vero che il modello processuale è unitario, ma l’esito è condizionato dal petitum oggetto della domanda dei soggetti legittimati ad agire, anche quali interventori, né comporta l’introduzione di un sistema propriamente bifasico, in cui si abbia un previo accertamento giudiziale dello stato di crisi e di insolvenza e solo dopo l’avvio della procedura vera e propria”[7]. L’indicazione del procedimento “unitario” si colloca quindi a metà tra un fine ed un auspicio tal che il risultato dell’unitarietà è possibile solo ove sia realizzata la riunione delle molteplici domande, istituto regolato dall’art.7 del CCI[8].
Riunione dei procedimenti e procedimento unitario
Tutte le domande dirette alla regolazione della crisi o dell’insolvenza proposte dai soggetti legittimati, alla luce delle previsioni del codice, devono essere trattate in via d’urgenza e riunite in un unico procedimento. Il modello processuale unico è ispirato al già menzionato rito previsto all’art.15 della Legge Fallimentare e rappresenta il contenitore di tutte le iniziative di carattere giudiziale riguardante l’accertamento dello stato di crisi e dell’insolvenza, seguono poi diversi possibili esiti con riguardo all’apertura delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, concordata o coattiva, conservativa o liquidatoria. In tale sede unica o unitaria confluiranno quindi tutte le domande o istanze, anche se tra loro contrapposte (si pensi ad un’iniziativa promossa del debitore oppure a quella di un creditore) che proseguiranno poi secondo la procedura più appropriata alla soluzione della difficoltà dell’impresa, secondo la valutazione operata dell’organo giurisdizionale competente.
È significativo che tutte le domande, qualunque sia la loro natura, debbano essere riunite, anche d’ufficio, in un unico processo, al fine appunto di risolvere normativamente i problemi di coordinamento tra le molteplici procedure esistenti ad oggi nel sistema[9], riunite per continenza o altre forme di coordinamento. Sul punto è l’art. 7 del Codice , rubricato “Trattazione unitaria delle domande di regolazione della crisi o dell’insolvenza” a chiarire che “le domande dirette alla regolazione della crisi o dell’insolvenza sono trattate in via d’urgenza e in un unico procedimento; a tal fine ogni domanda sopravvenuta va riunita a quella già pendente”[10] e riaffermando, al secondo comma, il principio di prevalenza della domanda concordataria rispetto a quella liquidatoria. La prevalenza è in realtà estesa a qualsiasi soluzione della crisi o dell’insolvenza diversa rispetto alla liquidazione giudiziale, a condizione che vi sia la non manifesta infondatezza o inammissibilità della domanda e la maggior convenienza per i creditori rispetto alla soluzione liquidatoria. Viene in ogni caso riconosciuto all’autorità giudiziale competente il potere di convertire in liquidazione giudiziale l’eventuale procedimento apertosi a seguito di domanda alternativa di regolazione non accolta, e persistendo lo stato di insolvenza[11].
Oggetto del procedimento unitario e principio della domanda
Premesso il riferimento al principio di prevalenza, fondamentale è anche un altro principio processuale di carattere generale: il principio della domanda, che trova applicazione a prescindere dal tipo di procedura che si voglia instaurare. Trattandosi infatti di domanda giudiziale, da proporre secondo le modalità che di seguito vedremo, è indubbio che debba esservi indicate in ogni caso le ragioni della domanda (causa petendi) nonché l’oggetto della domanda (petitum) a pena di nullità ex art.164 comma 3 c.p.c.
La prima disposizione a regolare l’oggetto del procedimento unitario è l’art.40 del Codice, rubricato appunto “Domanda di accesso alla procedura” che in apertura, al primo comma, amplifica ed estende la disciplina del procedimento per l’accesso ad una procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza all’intera seconda sezione del capo IV del titolo III del Codice[12]. La domanda di accesso ad una delle procedure si presenta mediante ricorso, con indicazione dell’ufficio giudiziario, dell’oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni nonché sottoscritto del difensore munito di procura, va poi depositato presso il tribunale in compassione collegiale, del luogo in cui il debitore ha il proprio COMI[13]. L’art.40 prosegue poi con altre indicazioni circa l’iter di svolgimento della procedura, nella sua fase introduttiva con la disciplina della notificazione e il regime di pubblicità previsto per la sola domanda proposta dal debitore che, entro il giorno successivo al deposito, deve essere comunicata dal cancellerie al registro delle imprese, dove viene iscritta entro il giorno seguente; la domanda, con la documentazione allegata, è poi trasmessa al pubblico ministero.
Natura ed esiti del processo
La natura del procedimento concorsuale è quella che già con la prima riforma della disciplina fallimentare del 2006-2007 aveva portato alla definizione, almeno dal punto di vista nominalistico, di un rito camerale sommario. In realtà la questione è più complessa in quanto la regolamentazione esce da quello che è il modello letteralmente richiamato avvicinandolo ad un processo di tipo contenzioso, benché con alcune differenze, o specialità[14].
Con il Codice della Crisi il legislatore ha tentato di compiere un passo in avanti, mantenendo il rito camerale speciale alla base del processo concorsuale ma inquadrandolo in un unico modello, nel quale confluiscono le diverse declinazioni di questa forma processuale cosi come regolate negli anni addietro: il processo per la dichiarazione di fallimento (o liquidazione giudiziale), per l’omologa degli accordi di ristrutturazione, e ancora il processo per l’ammissione e la successiva omologa del concordato.
Il disegno consiste, come già ribadito, nella costruzione unitaria e generale del processo “unitario” pur caratterizzandosi per gli esiti differenziati. Tali diversi esiti dipendono dal tipo di provvedimento richiesto al giudice e a seconda dell’accertamento positivo o negativo dell’esistenza delle relative condizioni. In altri termini, è il tipo di domanda che determina la diversa articolazione del procedimento di apertura, di conseguenza diverso sarà anche l’esito a seconda della procedura alla quale si domanda di accedere.
In particolare sono disciplinati diversamente l’accesso al concordato preventivo e al giudizio di omologazione degli accordi di ristrutturazione, l’apertura del concordato preventivo e la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, fermo restando l’originale ipotesi ex art. 43 CCI che contempla la rinuncia alla domanda promossa ai sensi dell’art.40, quindi di accesso ad una delle procedure di regolazione, indipendentemente dalla natura concordataria o liquidatoria della stessa. Più precisamente la rinuncia avviene senza necessità del consenso delle altre parti costituite, aspetto di differenza rispetto a quanto previsto dall’art.306 c.p.c. che disciplina la rinuncia agli atti di giudizio come modalità di estinzione del processo, fatta salva però la legittimazione del pubblico ministero intervenuto, da leggersi come possibilità di quest’ultimo di avanzare eventuale domanda di prosecuzione.
Il comma 2 dell’art.43 specifica che la pronuncia del tribunale assume la forma del decreto nel quale può essere prevista la condanna alle spese per chi vi ha dato causa (e poi rinunciato). Tra gli altri esiti, come anticipato, abbiamo l’ammissione al concordato preventivo, anch’essa pronunciata con decreto a seguito di domanda di accesso al concordato ex art.44, la cui disciplina è prevista all’art.47; a seguito dell’approvazione della proposta di concordato con relativo piano da parte dei creditori, il Tribunale si pronuncerà con sentenza sull’omologazione del concordato preventivo all’esito di una verifica circa “la regolarità della procedura, l’esito della votazione, l’ammissibilità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano”[15]. La medesima disciplina, in linea di massima, è prevista per la domanda di accesso al giudizio di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti e la loro successiva omologazione.
Infine, l’ultimo esito possibile consiste nella dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale[16], la cui peculiarità consta nel fatto che non segue necessariamente alla sola domanda di liquidazione giudiziale bensì è possibile che un’iniziale domanda di concordato o di accesso ad un accordo di ristrutturazione possa sfociare in una procedura liquidatoria senza necessità di una nuova domanda in quanto l’iniziale domanda di regolazione della crisi, secondo il procedimento unitario, è idonea a comprendere tutti i possibili esiti giudiziali; in tal caso si tratta di una liquidazione giudiziale che si apre contestualmente alla mancata approvazione del concordato preventivo, o a seguito della mancata omologazione da parte del Tribunale di un concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti restando ferma la necessità che siano accertati i presupposti ex art.121 CCI[17].
Stesso esito può accadere in caso di inosservanza di determinati termini e/o formalità di procedurale ai sensi dell’art.49 comma 2. In tutti questi casi il Tribunale si pronuncia con sentenza avverso la quale è ammesso reclamo.
Impugnazioni
In materia di impugnazioni il Codice della Crisi si pone l’obiettivo di realizzare un’armonizzazione del regime pre-esistente prevedendo quale unico mezzo di gravame il reclamo avverso la sentenza del tribunale che si pronuncia sull’omologazione del concordato preventivo, degli accordi di ristrutturazione dei debiti o sull’apertura della liquidazione giudiziale. La disciplina è compiutamente prevista all’art.52 CCI che fissa la legittimazione attiva in capo alle sole parti, eccezion fatta per il reclamo avverso l’apertura della liquidazione giudiziale, per la quale è attribuita a qualunque interessato[18]. Lo stesso articolo prevede poi il contenuto del ricorso, i termini per proporre reclamo (entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento), le modalità di notifica nonché lo svolgimento processuale. Inoltre avverso il provvedimento del tribunale, in forma di sentenza, è ammesso il ricorso per Cassazione (ancora entro trenta giorni dalla notificazione).
Novità in questo senso è invece l’impossibilità di ricorrere per Cassazione avverso il decreto della corte di appello che rigetta il reclamo contro il provvedimento che non ammette l’apertura della liquidazione giudiziale[19]; va detto infatti che esiste un mezzo di impugnazione relativo, non alle sentenze sopra dette, bensì ai decreti con i quali il tribunale si pronuncia sull’ammissibilità della proposta concordataria o sull’apertura della liquidazione giudiziale, ed è ancora una volta il reclamo, in caso di esito negativo dei procedimenti suddetti. In altri termini, consideriamo l’ipotesi nella quale il tribunale, dopo aver definito le domande di accesso ad una procedura di regolazione concordataria, accerti la mancanza delle condizioni di ammissibilità e fattibilità economica, in tal caso con decreto dichiara inammissibile la proposta, questo decreto è reclamabile davanti alla corte di appello entro trenta giorni; se vi è contestualmente il ricorso di uno degli interessati e sono integrati i presupposti di cui all’art.121 il tribunale dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale. Tale sentenza può essere impugnata con reclamo davanti alla corte di appello e il provvedimento che segue può essere oggetto di ricorso per Cassazione. Invece nel caso in cui sia stato a monte rigettato il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale, avverso quel decreto motivato sarà ammesso reclamo davanti alla corte di appello, sul quale la stessa si pronuncerà nuovamente con decreto motivato in caso di esito negativo[20], e tale provvedimento non sarà però ricorribile in Cassazione.Conclusioni
A conclusione del presente elaborato di approfondimento valgono alcune considerazioni sulla reale portata di questa innovazione prevista all’interno del Codice della Crisi; in questo senso è vero che vi è l’introduzione di un procedimento per l’accesso ad una delle procedure, sia questa la liquidazione giudiziale, l’ammissione al concordato preventivo o l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quindi prescindendo dalla tradizionale ripartizione tra procedure liquidatore e conservative e questo viene declinato come unitario. Tuttavia, una volta introdotto, il procedimento viene ripartito nella trattazione, e a seconda della domanda, corrisponde una diversa disciplina e diversi possibili esiti; si potrebbe parlare di un unico edificio dove sì l’ingresso è unico ma le stanze sono tante e i corridoi per raggiungerle labirintici tra loro.
Infatti la domanda è unica ma la trattazione resta diversificata e con norme particolarmente complesse e non di facile coordinamento, considerato anche il numero di rimandi che si rintraccia all’interno di ciascuna di esse. L’intento riformatore che mosse originariamente il legislatore, attraverso il lavoro della Commissione Rordorf, non può dirsi tradito ma sicuramente ne esce fortemente ridimensionato.
Resta un unico appiglio al quale anche il Codice si rimette e cioè l’istituto della riunione previsto all’art.7 CCI in grado di sopperire all’assenza della previsione di una trattazione unitaria oltre che di un’introduzione unitaria; tuttavia qui il legislatore, considerata anche la difficoltà con cui quest’istituto trova oggi applicazione, omette di prevedere dei criteri risolutivi circa la disciplina del mutamento di rito lasciando l’operatore di diritto in balia della già ben nota disciplina codicistica di cui all’art.39 e all’art.273.
In ultimo merita menzione il definitivo appianamento di quel dibattito che vedeva contrapposti i sostenitori della possibilità che il tribunale dichiarasse l’apertura della liquidazione giudiziale ex officio in caso di rigetto della domanda concordataria e la posizione opposta, propendendo per quest’ultima: il tribunale può quindi procedere alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale solo se viene avanzata o è stata già avanzata una domanda in tal senso da uno dei legittimati.
Ancora una volta sarà il tempo a dirci se quest’impianto di riforma consentirà davvero un’efficientamento del diritto concorsuale oppure no, sempre che la disciplina così come siamo pronti a vedere entrare in vigore non subisca da qui a quel momento ulteriori e rilevanti modificazioni.
Bibliografia
- Cecchella C. (2020), Il Diritto della Crisi dell’Impresa e dell’Insolvenza, Milano, CEDAM;
- Nigro A.,Vattermoli D. (2017), Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 4°ed., Roma, Il Mulino;
- Avolio A., Di Majo D.(2019), Diritto della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza, Vol.9/1,Napoli, Ed.Simone;
- Carratta A., Relazione al Convegno “Prospettive e innovazioni del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza CCI”, Università degli studi di Milano-Bicocca, 13 marzo 2019;
- Relazione illustrativa al Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza, 10 gennaio 2019;
- lgs. del 12 gennaio 2019 n.14 “Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza”
[1] L’entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza era stata prevista per l’agosto del 2020, ossia diciotto mesi dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale così come previsto all’art. 389 delle Disposizioni finali e transitorie rubricato appunto “Entrata in vigore”, salvo le disposizioni per le quali era stata prevista l’entrata in vigore quasi immediata cioè a soli trenta giorni dalla pubblicazione.
[2] Il decreto legge n.23/2020 “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali” è stato convertito in legge proprio nei giorni di stesura del presente lavoro e, pur mancando ancora la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, l’indicazione dell’art.5 non è stata toccata nel corso dei lavori parlamentari nonostante l’ampio dibattito creatosi attorno alla disposizione, eliminando ogni dubbio circa il possibile stravolgimento di questa previsione.
[3] R.D. 16 marzo 1942, n. 267
[4] Art.6 Legge Fallimentare
[5] Artt. 160-186 bis.
[6] Art.2 , lett. d) legge 19 ottobre 2017, n. 155
[7] Art.40, Relazione illustrativa 10 gennaio 2019 Schema di Decreto Legislativo recante “Codice della Crisi di Impresa e dell’insolvenza”.
[8] Sul punto va ricordato che la Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 14/2019, pur precisando la previsione di un procedimento unitario di accertamento giudiziale della crisi o dell’insolvenza, aggiunge l’inciso “fatte salve le disposizioni speciali riguardanti l’una o l’altra di tali situazioni”, in questo modo se devono essere fatte salve le disposizioni speciali sulle singole procedure, il procedimento non può essere unitario, ma assume connotazioni diverse a seconda della procedura.
[9] Dal punto di vista pratico, una soluzione ai problemi di coordinamento era già stata elaborata dalla Suprema Corte che ha riconosciuto la prevalenza del concordato preventivo rispetto al fallimento, ove vi sia coesistenza di domande, e introducendo la nozione di rapporto di continenza c.d. “per specularità”, ad indicare che le soluzioni, tra loro incompatibili, sono dirette a regolare la stessa situazione di crisi, e che quindi debbano essere trattate davanti al medesimo giudice mediante la loro riunione; Cass. SS.UU. sentenza n.9935 del 15 maggio 2015.
[10] Art.7, c.1, CCI.
[11] Art.7 comma 3, CCI.
[12] Art.40 c.1: “1. Il procedimento per l’accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale, con le modalità previste dalla presente sezione”.
[13] COMI, letteralmente “center of main interests”, è un espressione che ha origine nel diritto comunitario, precisamente nel Regolamento (UE) n. 2015/848 e rappresenta il principale criterio di giurisdizione, oltre che di applicazione generale, utilizzato per l’apertura di procedure principali di insolvenza transfrontaliere; espressione ormai acquista anche nell’ordinamento interno, sta ad indicare il luogo in cui il debitore gestisce i suoi interessi in maniera abituale e riconoscibile ai terzi secondo le regole di competenza per materia e territorio previste agli artt.27-32 del CCI.
[14] Il rito in questione viene definito come camerale “ibrido”, un contenitore processuale a schema variabile che va a racchiudere in sé diverse tipologie di controversie, accomunate dalla tutela di diritti e dalla presenza delle tipiche garanzie del giusto processo; una categoria giudica ampiamente sviluppatasi nell’ultimo decennio che necessità sempre più di un collegamento sistematico tra la cognizione ordinaria e quella sommaria.
[15] Art.48, comma 3, CCI.
[16] Art.49 CCI.
[17] I requisiti ai quali si rimanda, con la disposizione in questione, sono quelli già noti in forza della Legge Fallimentare, qui previsti all’art.2 comma 1, lettera d), CCI nella definizione della cosiddetta “impresa minore”: 1) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; 2) ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; 3) un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila; i predetti valori possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell’articolo 348.
[18] Art.51 c.1, CCI.
[19] Art.50 c.4, CCI.
[20] Se il reclamo avverso il decreto motivato del tribunale, che ha rigettato la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, ha esito positivo e quindi viene accolto, la corte di appello dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale, pronunciandosi però con sentenza e non con decreto, la quale può essere oggetto di ricorso per cassazione con termini ridotti della metà; art.50, c.5 CCI.