Con la sentenza n. 12717 del 19 giugno 2015, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha chiarito, in tema di responsabilità medica, quale sia la tipologia di danno risarcibile in favore dei genitori in caso di figlio nato morto.
Nel caso di specie, una coppia aveva infatti convenuto in giudizio l’Azienda ASL per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti per il fatto che il loro primo figlio era nato morto, assumendo che ciò era dipeso dalla condotta dei sanitari dell’Ospedale, i quali avevano ricoverato la partoriente soltanto quando la gravidanza era giunta quasi al decimo mese di gestazione ed avevano ritardato i necessari interventi. La ASL, condannata in primo ed in secondo grado, ricorreva pertanto in Cassazione.
A prescindere dalla confusa individuazione della categoria del cd. danno riflesso, la Suprema Corte ha, in primo luogo, riconosciuto che in effetti quello liquidato è un danno non patrimoniale per il figlio nato morto, oltre che per il pregiudizio biologico accertato in capo a ciascun attore. E’ tuttavia inadeguatamente motivata la ragione per cui sono stati applicati i valori elaborati per la perdita di un figlio all’ipotesi della morte di un feto, pur maturo e prossimo alla nascita.
A tal riguardo, la Corte di legittimità ha infatti rilevato che per determinare il quantum del risarcimento si deve tener necessariamente conto di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa, nel caso di perdita di un figlio, la “qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta“. Ebbene, anche a voler assimilare la situazione del feto nato morto al decesso di un figlio, non può non considerarsi che per il figlio nato morto è ipotizzabile soltanto il venir meno di una relazione affettiva potenziale: una relazione, cioè, “che avrebbe certamente potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore-figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita“.
Ne deriva, secondo la Corte, che non sussiste in concreto una relazione affettiva concreta sulla quale parametrare il risarcimento all’interno della forbice di relativa al danno subito dal genitore per la morte di un figlio.
Parimenti censurabile appare altresì il ragionamento della Corte d’appello laddove ha ritenuto di dover applicare una maggiorazione sulla base di considerazioni (“avendo il caso di specie caratteristiche di speciale odiosità per l’ostinata ed irritante inerzia dei sanitari che è stata la causa di un evento così drammatico“) che finiscono con l’attribuire al risarcimento una funzione punitiva, del tutto estranea al nostro ordinamento. Invero, “il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive – restando estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta – ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso” (v., sul punto, Cass. n. 1781/2012). Ne consegue che la gravità della condotta può assumere eventualmente rilevanza indiretta nella misura in cui abbia aggravato le conseguenze dell’illecito, ma “non è idonea a giustificare – di per sé sola – un incremento dell’importo risarcitorio”.
In conclusione, la Corte ha pertanto cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d’Appello in differente composizione.
(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 19 giugno 2015, n. 12717)